IL MONITORE DI BOSTON
La facciata a colonne imponentissima è quella consueta degli uffici governativi e delle banche – tempio greco tutto–granito - ma appena entrati si capisce che naturalmente è la cattedrale di Torcello, con le cripte, i mosaici, e tutto. Anche protiri, lesene, tabernacoli, tappeti veri e preziosi, arazzi tipo Aubusson, poltrone dogali, fini mobili d’antiquariato, tanti ascensori, tante vecchie, cristalli, e vetrine illuminate dove sono esposti bulbi, sementi, cioccolati, canditi, pastine glutinate, tapioche, fiocchi d’avena, biscotti per cani, tutti prodotti «non nocivi» di cui il «Christian Science Monitor» fa la pubblicità giorno per giorno. Della Scienza Cristiana ho paura che tutto ciò che sappiamo sia pressapoco la storia raccontata da Stefan Zweig nella biografia della Fondatrice Mary Baker Eddy, letta se va bene quando si avevano quattordici anni: ci sono i ritratti di lei in ogni stanza, di profilo, color seppia, dentro la cornice di legno.
Ma viene subito lì una delle vecchie, ben pettinata, con gli occhiali d’oro e un abito di surah, a presentare l’album di cuoio fiorentino per la firma, e a guidare per il cammino prestabilito.
La salita alle stanze direttoriali bisogna meritarsela con la firma dell’album, e poi passando fra le bandiere, i ritratti, tanti ricordi storici, sempre su meravigliosi tappeti; si entra in un mappamondo di cristallo grossissimo, fatto come un planetario doppio, con i mari e i continenti disegnati sulla superficie interna, e illuminati da fuori, come erano nel 1935; lo si attra versa su una passerella sospesa, come una cascata, con tanti effetti di voci risonanti e di echi che si ripercuotono. Finalmente si arriva di sopra, in un paradiso di pulizia, freschezza, belle poltrone, colori tenui, bibite in ghiaccio, dolci, moltissimi libri, tutti quelli giusti: il dipartimento delle ricerche editoriali ha tutte le opere e i microfilm che si possa desiderare di consultare.
Dal momento che Veditor–in–chief è in viaggio per l’Europa, la più alta autorità sul posto è il managing editor, e si entra senz’altro da lui, in una stanza foderata di legni biondi e di tappeti spessi, le luci indirette, il ritratto della Fondatrice più grande, l’aria condizionata.
È un personaggio alto e stretto, ceruleo, limpidissimo, con i capelli chiari e la parola soffice. «Abbiamo una circolazione di 180.000 copie,» dice, sedendo, col suo cravattino nero, dentro il divano profondo «quindi non certo estesa rispetto alle 700.000 del “New York Times”, ma è sempre stata una cifra assai stabile; e solo l’otto per cento va in mano ai lettori locali. Gli altri nostri lettori vedono il giornale parecchio tempo dopo, e pagano anche molto caro per poterlo ricevere con un ritardo che va da due giorni a un mese. Naturalmente il nostro è un giornale che ha caratteristiche piuttosto particolari: ma questa speciale struttura, la sua fisionomia “internazionale”, vengono appunto condizionate dalla distribuzione dei lettori in tutto il mondo, tutta gente che lo legge in ritardo. Dal momento che è un quotidiano, non si ha la necessità di scegliere rigidamente l’essenziale, come fanno per esempio i “settimanali di notizie”, “Time” o “Newsweek” – che sono fatti benissimo, servono ottimamente, io stesso non potrei fare a meno di leggerli, dal principio alla fine -, ma contengono relativamente poche notizie, per ragioni di spazio, e poi, data la loro periodicità; e sono anche pieni di rubriche, le cosiddette “sezioni speciali”, di recensioni, curiosità, fin troppo “selettive”, e che tolgono spazio alle vere notizie.
«Neanche noi dedichiamo molto spazio, certo, alle hot news, che deperiscono lo stesso giorno, prima di sera, e vedrete ben poche “notizie brevi” in tutte le nostre pagine. Quello che si cerca di fare è l’articolo di una certa ampiezza, analitico, interpretativo, che non si limiti a raccontare i nudi fatti, quello che è successo nelle 24 ore, ma sia un’esposizione completa di “tutta la storia”, la precisi nel contesto di una determinata situazione, alla luce anche di altri avvenimenti, di tutte le altre notizie che possano avere un interesse in relazione al “fatto” più significativo.
«Proprio per questo il nostro è un giornale tipicamente “professionale”, addirittura “di categoria”: un cosiddetto “giornale per giornalisti”, e siamo piuttosto orgogliosi di essere la pubblicazione americana più letta dai nostri colleghi. Abbiamo molti abbonamenti da parte di governi esteri, e parecchi dal Cremlino - tante volte ci si chiede se ci leggeranno davvero, poi, e ci terrei proprio a saperlo – ma ci fa soprattutto piacere sapere che tutti i direttori di giornale, tutti i redattori–capi di questo paese sono abbonati al “Monitor” e ci leggono con attenzione.
«E un giornale, come sapete, che non ha fini di profitto: è stato fondato come istituzione di pubblica utilità da Mrs Eddy nel 1908 – ma non, badate bene, come un organo religioso, sul tipo dell’“Osservatore Romano”: noi non siamo l’organo della Christian Science Society. L’intenzione di Mrs Eddy è stata di mettere in piedi un normale “quotidiano internazionale di notizie”, serio ed efficiente, in un periodo fra i più “gialli” del giornalismo americano, quando era assai difficile trovare pubblicazioni di cui fidarsi. C’è un articolo di carattere religioso tutti i giorni allo stesso posto; e una volta all’anno pubblichiamo il resoconto della riunione della Chiesa della Scienza Cristiana.
L’aspetto religioso si ferma qui. Naturalmente i dirigenti della Chiesa si tengono in contatto con noi per quelle che sono le linee generali della politica del giornale, e la loro continuità nel tempo – così come c’è un Board of Trustees che sorveglia questo edificio dove siamo e tutte le attività che vi si svolgono, tutte opere connesse con la Chiesa – ma il direttore e il corpo dei redattori sono liberissimi per il resto di fare il giornale come preferiscono».
«Uno dei nostri aspetti più caratteristici è la composizione e la formazione dello staff dei reporters particolari, che fanno gran parte del lavoro.
«Sapete bene che, come in Inghilterra i top men in un giornale sono gli autori di editoriali, qui lo sono invece gli staff reporters, e quelli di Washington più di tutti. Le pagine di “fatti” sono sempre più vive di quelle di “opinioni”, che di solito appaiono più grigie e noiose, tanto vero che i grossi giornali prendono tutti qualche bravo columnist per attrarre i lettori intelligenti, lasciandolo libero di scrivere tutto quello che vuole. E questo fa abbastanza bene perchè in molte delle maggiori città degli Stati Uniti sapete bene che i giornali appartengono tutti a un solo proprietario, o tutt’al più a due. D’altro lato, gli articoli dei columnists più famosi appaiono contemporaneamente su parecchi giornali “consorziati”…
«Il giornalismo è sempre stato una comunicazione di notizie: tanto più efficace quanto più i fatti sono obiettivamente esposti, nudi, che parlino da sé. I commenti sono un’altra cosa, e vanno nella pagina editoriale che è fatta apposta, e tutti lo sanno. Ora, quando si tratta non più di esporre gli avvenimenti isolati, ma di delinearne la prospettiva, ricercarne il senso, ecco che il mestiere del giornalista diventa subito pericolosissimo. Il compito del giornale, abbiamo detto, è l’obiettività: però, quando si comincia ad analizzare e a interpretare, dove va a finire l’obiettività?
Come si può rimanere imparziali? Dov’è la verità, in sostanza?
E chi deve dirla, poi, a chi tocca? Come si fa a separarla dalle opinioni personali, a distinguere l’analisi da queste senza confondere il lettore, anche involontariamente? Come si fa a essere obiettivi parlando per esempio dei rapporti fra Eisenhower e il Congresso, quando si abita a Washington da parecchi anni?
«L’aspetto difficile di questo lavoro di formazione dei nostri corrispondenti è che qui si tratta di sviluppare una specie di coscienza; e non ci sono qui regole, o norme, che dicano di fare o non fare una data cosa; si tratta di qualità di intuizione: “quantunque io la pensi così, o li possa vedere così, bisogna lasciare che i fatti parlino da soli”. Per questo, i nostri corrispondenti speciali, noi li alleviamo qui a Boston, e vengono addestrati per anni, prima di cominciare a mandarli in giro».
«Un’altra cosa che abbiamo di bello è che riconosciamo prontamente i nostri errori; non ci si ostina mai. Se nonostante tutta l’attenzione che ci si mette, una notizia risulta inesatta dopo qualche tempo, lo si dice, senza aspettare; e basta.
«E un’altra caratteristica: niente sensazionalismo. Saremo magari un po’ prude, un po’ troppo “morali”, ma pubblichiamo solo pochissime notizie di cronaca nera, e quelle poche con grande sobrietà; fotografie meno che castigate, mai; simpatie per il sesso e per l’alcol, da noi non potete aspettarvene (non abbiamo mai pubblicità di liquori, infatti), e non è soltanto una questione di eredità puritana del New England: soprattutto sarebbe un po’ troppo, non vi pare, da parte di un giornale che nel suo nome si richiama espressamente a una Scienza che è poi una fede religiosa ispirata al principio che la salute del corpo e dell’anima si ottiene attraverso mezzi metafisici…».
«Il giornalismo americano, sapete, ha sempre avuto la caratteristica di essere duro, crudo, indipendente; e poi, a differenza di quello europeo, sempre in lotta contro le autorità; il giornalista americano sta sempre attaccando il governo in difesa di qualche diritto conculcato… Senza contare che di solito è facilissimo che il reporter americano all’estero sia fortemente nazionalistico; tante volte non sa la lingua del posto dove si trova, e deve fidarsi di informazioni di seconda mano, tutt’altro che certe; e naturalmente anche noi ci serviamo quasi esclusivamente di reporters americani, benché in certi posti, specialmente in Asia, si cerchi di tirar su qualche corrispondente locale fidato, familiare con la lingua e la gente; ma vedete bene che la formazione di un nostro reporter non è un affare semplice. Cominciano tutti dai gradini più bassi, tradizionalmente, come ho fatto io stesso, e come tutti i dirigenti attuali delle sezioni: siamo stati tutti apprendisti qui. Poi fanno della gran cronaca, e poi finalmente vengono mandati fuori. Degli apprendisti, se ne promuovono corrispondenti uno o due all’anno. Non se ne prendono praticamente mai da altre parti, freelance o formati da giornali diversi. I nostri generalmente fanno tutta la loro carriera qui dentro: è un corpo di redattori molto costante. Abbiamo naturalmente, fuori dal nostro staff, parecchi collaboratori “speciali” per le pagine di varietà, soprattutto in Europa, e specialmente collaboratori di giornali inglesi seri; sono, anzi, molti; quattro volte lo staff regolare, come numero. Mandano articoli generalmente di viaggio, e di spettacoli nei loro paesi: genere feuilleton, insomma; ma anche con loro si stabiliscono solo rapporti lunghissimi. E un modo per conoscersi meglio. Poi tutti gli articoli, dei nostri corrispondenti e dei collaboratori “speciali”, appaiono sempre firmati: è un servizio che si fa al lettore, in fondo, no?».
«Un’altra caratteristica del nostro giornalismo è che tante volte l’editore prende viva parte alla direzione del giornale, quasi più del direttore stesso: e l’inconveniente è che quando i giornali diventano grosse imprese, è fatale che i proprietari tendano a essere repubblicani… Per questo è nostro vivo desiderio che i quotidiani più importanti possano essere posseduti da fondazioni nonprofit, perchè anche il sistema del Board of Trustees accanto al proprietario può andar bene sì e no, a seconda dei casi; anzi, meglio di tutto penserei che sarebbe opportuno appoggiarli alle grandi università, che hanno fondi enormi e amministratori capacissimi. Ma naturalmente è costante e marcata in ogni giornale la caratteristica della netta differenza fra le pagine delle notizie e la pagina editoriale, dove uno sa sempre che troverà le idee del proprietario.
«Nel caso nostro, il Board editoriale si compone di cinque direttori: due sono uomini d’affari, tre alti funzionari della Chiesa della Scienza Cristiana: e la parola più prossima che potre ste usare è “ecclesiastici”, ma naturalmente non sarebbe esatta.
Tutti sono apolitici.
«Il giornale è “tecnicamente indipendente”; e, si sa bene, “indipendenza” è una parola soggetta a diverse interpretazioni.
In una campagna elettorale non ci si dichiara apertamente per un candidato; tutt’al più, in qualche editoriale, con molte cautele e gran giri di frasi, si può trovare scritto che tutto considerato il tale o il talaltro offrono le migliori garanzie in un determinato senso. E durante le elezioni, di solito, la nostra pagina editoriale pende leggermente in favore del Partito Repubblicano.
In tempi normali, invece, teniamo sempre per il partito d’opposizione. Ma senza una “linea” o una “posizione” determinata, una “causa” da sostenere a ogni costo; non c’è nessuno qui che intende “fare avanzare la bandiera degli Stati Uniti”, e meno che meno quella di un partito politico. Preferiamo considerare i diritti di tutti.
«Nel nostro staff, del resto, abbiamo liberali e conservatori; e un terzo di loro non sono neanche membri della Chiesa Cristiana».
Rientriamo nelle stanze della redazione – il fresco incanto delle pareti chiare, delle poltrone comode, delle slot–machines che danno cioccolatini, torroni, coca–cola, brodi, biscotti, a prezzi bassi speciali, e dei libri d’arte, delle enciclopedie, degli atlanti - e li vediamo lavorare nel paesaggio familiare di tutti i film sul giornalismo con Clark Gable: il grande tavolo a ferro di cavallo al centro, con più di cinquanta persone che passano i pezzi; i direttori delle rubriche, il cinema o la moda o lo sport o il giardino, che lavorano da soli nei box a vetri tutto intorno; le stanze delle sezioni degli affari nazionali, o esteri, o locali, donde le carte confluiscono al ferro di cavallo. Ecco la stanza delle telescriventi: «ma lavoriamo pochissimo sulle agenzie,» dice ancora il nostro uomo «e quasi tutto sui corrispondenti; quindi le telescriventi servono poco, e c’è invece molto lavoro per i sub–editors: ne abbiamo cinque per la politica estera, ciascuno specializzato in un settore geografico; e dipendono da un capo che non si chiama foreign editor come di solito in tutti i giornali; da noi, che siamo un quotidiano internazionale, lo si chiama overseas editor. Il news editor per gli interni si occupa delle due Americhe, tranne il Canada, che va nella sezione overseas in quanto fa parte del Commonwealth britannico. In Europa, i corrispondenti speciali che abbiamo adesso sono otto.
Di edizioni, ne facciamo sei».
Si passa nelle stanze di composizione, dove i proti battono col martelletto sulle pagine dell’ultima edizione della giornata; e poi le mandano giù subito in tipografia. Scendiamo anche noi fra le macchine capaci di mandar fuori da 30 a 50 mila copie all’ora, ferme, in attesa, e il tapis–roulant che le porta all’ufficio postale interno.
«Delitti e violenze, vi ho già detto, pochi» dice ancora il nostro.
«Le notizie del giorno vengono già fuori sui quotidiani di Washington e di New York, del resto; eppure quante cose ci sono sempre da pubblicare. Naturalmente la politica non è tutto: certo ci sono sempre tanti senatori che vogliono diventare presidente degli Stati Uniti; ma quanti problemi ci sono, più importanti: le questioni razziali, il declino delle città, lo spostarsi della vita sociale nei sobborghi, e soprattutto la lotta dell’intero popolo americano “dentro di sé” per riuscire a interessarsi al resto del mondo, dato che deve viverci in mezzo; e le tremende differenze individuali nell’adattarsi a questa situazione, mentre va avanti un esperimento economico senza precedenti nella storia dell’umanità, per produrre un sistema che funzioni per il beneficio di tutti, e non solo dei privilegiati…».
Le macchine si sono rimesse in moto, e non si sente più bene.
«Le edizioni del “Monitor”» dice il cortese managing editor, alzando appena la voce «sono una per la costa del Pacifico, una per gli Stati del Centro, due per il New England, con la cronaca locale, una per la costa atlantica, e una per l’estero».