UNA MATTINA A DAVIS
Davis, la terza università californiana in ordine di importanza, si trova a una settantina di miglia a nord di San Francisco, poco prima d’arrivare a Sacramento, capitale dello Stato, col suo Parlamento neoclassico a colonne e a cupola, i suoi viali di magnolie, le sue sedi della Wells Fargo simili a chalets termali e la sua periferia industriale uguale a ogni Mitteleuropa, le Jaguar per la strada e gli abiti da sposa all’asta nelle riffe dell’Esercito della Salvezza. Lungo tutta la strada, in un panorama di campi e di vigne, la radio della macchina continua a trasmettere réclames tipo «Io sono il diavolo! e vi consiglio biscotti diabolicamente squisiti», con voce mefistofelica. E subito dopo: «Per favore, spostate la macchina; c’è una ruota che mi schiaccia la coda!». Siamo al centro d’una zona agricola fra le più grasse della regione. Non per nulla la scuola di Davis è nata qualche decennio fa come Istituto agrario per i figli dei farmers locali, con l’aggiunta di una facoltà di Veterinaria più tardi. La trasformazione in università è recentissima: negli ultimi anni agli ottocento studenti d’Agraria se ne sono venuti aggiungendo più di tremila di «Humanities».
Il «campus» è rurale, non si distingue dalla piccola città. Vialetti e villette a un piano, con il portichetto davanti; o a patio tipo motel; tutte di legno bianco a strisce come nel New England.
Tanti alberi, tanta erba; una luce nordica. Tutti in bicicletta come a Oxford. Le strade hanno i nomi delle lettere del l’alfabeto per un verso, dall’altro sono indicate con i numeri.
Qualche Volkswagen, Morris Minor, mg. L’autobus giallo che porta le bambine a scuola a Sacramento. Cani rossi a spasso da soli. E il fabbricato delle Scienze Politiche è soffocato dai rami dei platani.
Qui il mio «contatto» è Theodore Draper, professore a New York in visita a Davis per un corso sul trotzkismo, ma famoso per alcuni saggi sulla rivoluzione cubana. Sono pubblicati su «Encounter» e «Tempo Presente», e discussi in tutto il mondo perchè in polemica contro i «miti» populistici di Sartre e di Wright Mills sostengono la «realtà» di una «rivoluzione borghese usata per distruggere la borghesia». Estremamente cortese: m’illustra questo fenomeno di proliferazione dell’educazione anche come effetto del decentramento culturale sempre più sviluppato dopo la guerra in tutti i campi, perfino nella musica e nel teatro non più accentrati a New York. E la vita culturale sempre meno gravitante intorno a New York; con gli scrittori che «entrano nel circuito universitario», spostandosi da un campus all’altro, magari anche senza insegnare ma a disposizione delle Facoltà.
«Le città americane grandi e piccole sono sempre state provincialissime, e oggi in pochissimo tempo eccole fornite tutte di gallerie d’arte e di sale da concerti. Qui, poi, c’entrerà naturalmente l’orgoglio regionale e la rivalità fra San Francisco e Los Angeles (al di fuori, non esisteva nulla); insomma, a un certo punto si è visto che i californiani hanno preteso di avere tutto, immediatamente, dove prima non c’era niente. Per questo il boom culturale è così interessante qui: dato l’ambiente dove si è sviluppato. In questa cittadina d’agricoltori, pensate, c’è un famoso quartetto “in residenza”, e dà concerti un paio di volte al mese. E un piccolo teatro dove solo l’altra sera abbiamo visto una Elettra di Giraudoux data benissimo… Mi sembra incredibile, conoscendo le tradizioni filistee della piccola città americana… E il mese prossimo avremo il Misantropo di Molière, prodotto interamente con mezzi locali.
«Certo, è un creare senza tradizioni, queste scuole non hanno un passato. L’unica tradizione è agricola, di farmers che coltivano i campi e allevano il bestiame e leggono solo la Bibbia e vanno a letto presto… «Come si fa a dire che cultura ne viene fuori… I beats sono scomparsi, i poeti di San Francisco appartengono piuttosto al passato o al folklore… E i più notevoli, Ferlinghetti, Rexroth, Patchen, non hanno niente di californiano “tipico”. Che l’au tore più rappresentativo della regione rimanga allora lo Steinbeck di tanti anni fa? In pittura, semmai, si vede una notevole diversità rispetto all’Est. David Park, Richard Diebenkom, Paul Wonner, William Brown, Roland Petersen… Il ritorno a una certa “classica forma dell’oggetto”, stilizzata, a colori brillanti… Wayne Thiebaud dipinge solo torte, ma mi pare che arrivi a risultati più significativi di quelli degli scrittori…».
A colazione Draper ha invitato alcuni suoi colleghi delle Facoltà umanistiche; e sollecita gentilmente che raccontino le loro esperienze accademiche.
Un giovanotto volpino professore di clarinetto che ha la classe di musica e viene da Berkeley: prima andando avanti e indietro, dice, e poi passando sempre più tempo qui a Davis, rendendosi conto di come siano serie le intenzioni dell’università, e come fornisca tutti i mezzi adatti. Come siano ricchi gli «interscambi»: si tengono concerti qui e viene parecchio pubblico da Sacramento. Tutti i musicisti del dipartimento hanno composizioni eseguite a New York, e alle diverse radio, «sono conosciuti, non isolati, attenti a invitare compositori illustri a tener corsi periodici (come Milhaud, che ora abita qui vicino), così andando via questi mantengono molti collegamenti». Giovanissimi, tutti; e una grande attività: quartetti, pezzi per archi, musica elettronica, con registratori e strumenti jazz provvisti dall’università, che acquista tutti gli apparecchi necessari. Quanti studenti? Dodici, che vengono da tutto il Nord California. Ma molti altri uditori seguono i corsi. Ed è insolito, perchè non si tratta di un conservatorio, non si viene qui a studiare il pianoforte o la direzione d’orchestra. S’insegna la musica come «umanità» e non come professione. Diventeranno insegnanti a loro volta, teorici, compositori.
Draper come un «moderator» dà ora la parola all’insegnante di Dramma che è un bel signore grande e grosso pettinato con la riga. Viene dal Wisconsin e dall’Illinois, come carriera, ma è newyorchese d’origine. Qui da due anni, cioè da quando il corso d’Arte drammatica è stato separato da quello d’Arte, fondato sei anni fa come parte del Dipartimento d’inglese. Ecco come proliferano, questi corsi, come si sdoppiano e crescono indipendenti – fa osservare Draper. «E noi raccontiamo tutti questi episodi personali di vita accademica proprio per far vedere come il panorama dell’università cambia di anno in anno… La Dizione, per esempio, che finora fa parte del corso di Dramma, dall’anno prossimo sarà un corso a sé».
Ma cosa insegnano, in questo corso? Recitazione, regìa, storia del teatro, critica. Tre docenti, e saranno sei l’anno prossimo.
In tutti i dipartimenti, la media dell’aumento degli studenti e dei professori è del venti per cento all’anno. Quindi, muratori al lavoro su tutto il campus per allargare e sopralzare gli edifici, e costruirne di nuovi. «Forse si sviluppa veramente troppo in fretta» riflette Draper. «I cambiamenti sono così continui da diventare drammatici… E tutto negli ultimi pochi anni: l’istituto d’Agricoltura è stato fondato nel 1900, i dipartimenti umanistici indipendenti dall’agraria, verso il 1950; dopo di allora, il terzo stadio, fulmineo, la proliferazione».
La direttrice dell’istituto di Inglese è un’anziana signorina robusta e dolce come le donne–detective di Agatha Christie, le chiedo che corsi sta facendo. «Il tardo Rinascimento e un seminario sul Settecento». Naturalmente il suo istituto è uno dei più antichi, più stabili. Ma il professore di Dramma si lamenta: in tutta la California neanche un buon commediografo, neanche un regista. Come, si stupisce Draper: domenica scorsa è stato a Sausalito, che è la Portofino di San Francisco; ed è vero che all’Actors’ Workshop locale si recitava per sole 32 persone in un teatro di 350 posti (il pubblico ci va solo al sabato); però davano uno Shaw rappresentato benissimo. Dato a New York, avrebbe avuto ottime critiche. C’è troppa cultura a San Francisco – ribattono gli altri – rispetto al pubblico in grado di assorbirla. La spinta all’attività culturale poi viene troppo più dall’alto che dal basso, la città è troppo finanziaria e commerciale. Non come a New York dove la maggior parte del pubblico medio «si tiene al corrente» per un’abitudine ormai di molti anni.
Infatti succede che il Royal Ballet britannico dopo New York viene in tournèe in California e gli rifiutano l’Opera di San Francisco perchè preferiscono darla a Camelot. Così gli inglesi devono riparare a Seattle. Però, ribattono qui, la compagnia di balletto stabile di San Francisco è la seconda degli Stati Uniti, e molto più giovane e attiva del New York City Ballet, ormai vecchio e stanco. E perfino a Sacramento sta cominciando una compagnia locale di balletto, che poi si esibisce in tutta la regione.
In passato, spiega la signorina d’inglese, San Francisco e Los Angeles ricevevano tutto da New York già confezionato. Ora invece succede che alcuni fra i migliori cantanti del Metropolitan vengono da Sacramento, dopo studi fatti a Sacramento. E questo, dice, le sembra quasi un ritorno alla tradizione; perchè in realtà Sacramento (lei è nata lì) intorno al 1890 era un posto ricco e colto e sofisticato, con i soldi guadagnati nella Feb bre dell’Oro non si badava a spese pur d’avere i cantanti più celebri all’Opera locale. Tutto è declinato, come dappertutto, nei primi decenni di questo secolo. Ma sua madre per esempio ricordava com’era elegante la vita mondana a Sacramento intorno al 1870… Un caso isolato, notano gli altri. Non ce n’erano molti nell’America provinciale di quegli anni: merito tutto delle miniere d’oro. D’accordo, ribatte la signorina: la cultura veniva tutta ricevuta dall’esterno, ma ai tempi di mia madre la città era piena di gente ricca e piena di gusto, sapevano quello che volevano, e dai vestiti ai mobili ai gioielli ai cantanti ai libri importavano tutto dall’Europa; attraverso New York, si capisce.
La differenza è che ora risvegliandosi un certo interesse intellettuale la cultura viene prodotta localmente e non più importata, nè dall’Europa nè dall’Est.
Ecco, riassume didatticamente Draper, una evoluzione tipica, in parecchie fasi successive. Prima, importazione totale della cultura. Poi, separazione fra la cultura europea e quella dell’Est; a questo punto solo New York, e non più l’Europa, fornisce i materiali culturali. Più tardi San Francisco sviluppa una propria cultura indipendente. Adesso tocca a Sacramento, che si sviluppa in vista del futuro. E rimane la capitale dello Stato, dopo tutto. Con la differenza che in passato la base sociale della cultura era la «buona società» in città. Ora il motore è spostato nelle università. «Qui siamo nel centro di nowhere, eppure viviamo in un centro di cultura!». A New York l’università non ha certo lo stesso ruolo. E la cultura prende subito un aspetto commerciale. Qui sarà più accademica. Ma almeno non dipende dalle esigenze del commercio. I soldi vengono dallo Stato; così come lo Stato controlla sempre più strettamente il teatro d’Opera o i campi sportivi… «Sono tre le forme di finanziamento delle università, in sostanza: indiretta, attraverso le imposte; o per mezzo delle grandi fondazioni; o per via di donazioni secondarie, per esempio anche la Fondazione Ford sovvenziona teatri e teatrini. Ma se questo sussidio cessa, viene magari sostituito da quello dell’Università di Stanford. Stanford, per esempio, finanzia l’Opera di Palo Alto con criteri progressivi e commerciali nello stesso tempo. Così hanno dato The Rake’s Progress già nel 1953, con Rounseville protagonista come a Venezia; mentre all’Opera di San Francisco finanziata solo dagli industriali il Wozzeck arriva con più di trentanni di ritardo. Questo s’intende per cultura progressiva…».
L’insegnante d’Arte è una giovane scultrice di Chicago, bionda, vestita d’imprimé gialloverde, venuta qui quattro anni fa per un «term» e poi rimasta a insegnare. «E la mia prima università» dice. Lavora, espone; e l’insegnamento l’assorbe molto, diciotto ore settimanali, è una delle insegnanti più occupate, certi giorni tre ore e certi sei. Ma fanno tutti questi orari? No, m’assicurano: di solito da sei a nove ore settimanali; questa signorina fa degli straordinari perchè li vuol fare, ma per esempio la professoressa d’inglese per mezzo anno ne fa sei e per mezzo nove.
La scultrice ci conduce nell’atelier, un granaio pieno di gessi e bronzi con una decina di ragazzi e ragazze in jeans bianchi e blu e occhiali che preparano la fusione di una scultura, ne liberano un’altra dallo stampo, fondono con la fiamma ossidrica alcuni manubri di bicicletta per farne un monumentino, si passano ridendo delle diapositive colorate guardandole contro il sole. Camminando sulla sabbia che copre il pavimento lei ci fa vedere i crogiuoli, i forni per la cera perduta, un artista italiano e uno giapponese, i pezzi di scultura che nascono dal matrimonio fra l’Oggetto Trovato e la Saldatura Autogena. «Il nostro criterio è di lasciare gli studenti liberissimi di fare tutto quello che vogliono fornendo i mezzi e naturalmente i consigli…».
Ma lei gira qui fra la sabbia e le fusioni con questo bell’imprimé?
No, confessa: questo lo metto per far lezione di disegno, quando ho la scultura mi metto in blue jeans anch’io.
Il vero inconveniente di queste università sono i doveri sociali nel campus, spiega Draper mentre veniamo via: la mondanità accademica, gli inviti invadenti delle mogli dei professori, almeno uno al giorno e chi non ci va passa subito per altezzoso e antipatico… Procediamo fra platani e prati, e zampilli, biciclette, uccelli blu che sgambettano sull’erba. In questa crisi di crescenza, mi fa notare, quasi tutti gli istituti hanno sede in vecchi fabbricati convertiti, proprio perchè le nuove costruzioni non fanno in tempo a tener dietro alla moltiplicazione dei «dipartimenti». E sono tutti di legno: anche il piccolo teatro dove hanno dato l’Elettra. Fra l’uno e l’altro, la giornata è bella, un gruppo qui e uno là fanno lezione sul prato: seduti per terra con il professore in mezzo e le biciclette appoggiate agli alberi. Oppure sulla gradinata di legno del campo sportivo, tutto un prendere appunti e scambiarsi sorrisi.