JOHN UPDIKE
Il punto di partenza sarebbe davvero il medesimo della Morte a Venezia: un romanziere di mezza età e di buon successo, niente affatto genericamente «dato», ma anzi qualificato molto minutamente (carriera, abitudini, perfino l’indirizzo di casa), in difficoltà con se stesso e con la propria opera (teme addirittura di non riuscire a compiere un lavoro in corso, forse l’ultimo…), parte in viaggio per sottrarsi a una crisi lungamente maturata. Invece, naturalmente, se la porta dietro. Però qui si scatena subito, irresistibile come un can–can di Offenbach, il divertimento intellettuale più buffo di questi tempi.
Nell’inaspettato capolavoro comico che è Bech, scintillante come Myra Breckinridge e Portnoy’s Complaint, John Updike si dev’essere pazzamente divertito a congegnare i sette pannelli di questo non–immaginario (anzi: più vero del vero!) Declino & Trionfo del Grande Romanziere Ebreo Americano d’Oggi, picaresco «pastiche» di false citazioni mai dovute al caso, e di incessanti invenzioni cui soprattutto la perfidia conferisce un senso.
Il suo Henry Bech, autore di un solo romanzo eccellente e di tre decorosi insuccessi, però ancora considerato «scrittore di successo» anche se il quinto libro probabilmente non viene, potrebbe quasi scappare da un’opera ignota di Saul Bellow, se non si confessasse presto quale creatura sfacciatamente composita: un po’ di Herzog e di argentei ciuffi svolanti di Bellow stesso, ma anche un po’ di riccioli radi e di narcisismo sensua le di Norman Mailer; parecchia infanzia con mamma «alla Portnoy» di Philip Roth, ma anche un po’ di passato ancestrale nei ghetti alla Isaac Bashevis Singer; alcuni spifferi di Bernard Malamud; e anche quel certo «blocco» nel continuare a scrivere fin troppo analogo alle «rinunce più o meno nobili» di H. Roth, D. Fuchs, H. Brodkey… La «trovata» di Updike parte dalla minuziosità della scheda segnaletica. In diverse appendici, accurate e pedanti come la bibliografia d’una tesi di laurea, ed esplosive per la gran carica di malizia che vi si accumula, sono elencati, oltre ai quattro libri di Henry Bech, all’antologia che ne fu tratta col titolo Il meglio, e al quinto romanzo sempre annunciato «in lavorazione», tutti gli articoli «di» e «su» questo romanziere ipotetico, con titoli «tipici» e «d’epoca», data di pubblicazione, riviste su cui sarebbero stati pubblicati, e perfino il numero della pagina, coinvolgendovi oltre tutto la maggior parte dei critici letterari operanti in America, dai più illustri ai ridicoli.
Bech ha un gran naso e diverse neurosi, detesta i giovani perchè li trova «una generazione di farmacologi dilettanti», venera in segreto Flaubert e Joyce, ma teme che il suo «id», in collaborazione con le figure di «super–ego» di Alfred Kazin e Dwight MacDonald, riesca a ridurlo all’impotenza artistica. Ha un’attività intestinale eccessiva, continui affari con donne paradossali e sventate, e riceve in sogno solenni apparizioni di Paul Valéry, che nulla però distingue dal defunto Mischa Auer.
Nel primo pannello si trova in Russia un po’ inviato dal Dipartimento di Stato e un po’ per spendere sul posto certi rubli di diritti d’autore. Nel penultimo, in una Londra fiorita d’asfodeli, eccolo intervistato noiosamente dall’«Observer», a pranzo con un editore molto riconoscibile, e a letto con una signora forse altrettanto identificabile.
In mezzo, due prolungamenti del viaggio oltrecortina, in una Romania e una Bulgaria tra il reportage semiserio e il cabaret pecoreccio. E due spedizioni animose e perplesse in due mondi estranei–domestici: l’esperienza della droga in una vacanza estiva su un’isola del Massachusetts popolata da relitti della «Partisan Review» negli anni Trenta; e una conferenza (compensata mille dollari) in un collegio femminile della Virginia dove trionfano la verginità pre–matrimoniale e i certami di lirica moderna. Nel finale, l’assunzione alla Fama Accademica tra un campionario dei più spaventevoli mostri immaginabili nella cultura americana d’oggi, attraverso un incessante rituale di premiazioni reciproche non dissimile formalmente da certi «al dilà» dove si raccoglievano nei vecchi film di propaganda i bombardieri caduti.
Sembra difficile, nell’universo romanzesco contemporaneo, trovare un libro più «scritto» di questo: lo stesso tipo di lavoro letterario quale divertissement mimetico che s’incontra nei Pastiches et mélanges di Proust. Inoltre, il tessuto verbale trabocca incessantemente di battute, così come le commedie di Bourdet brillavano di «mots d’auteur». Però Bech non è soltanto questo, giacché Updike sembra soprattutto felice nell’«azzeccare le atmosfere»: i negozi e i musei di Mosca, i funzionari dell’Unione degli Scrittori, i numeri di varietà internazionali al nightclub di Bucarest; i letti con una donna grassa e un bambino che strilla; i discorsi ufficiali alle cerimonie insignificanti; gli scambi di banalità scolastiche fin troppo seriose tra le studentesse bianche e le nere; i tipi inverosimili e le conversazioni cretine ai «parties» londinesi… Alla fine di un’esercitazione tanto virtuosistica, forse è perfino vero che questo ritratto così accurato d’intellettuale ebreo diventi poi una forma di autobiografia «fatta propria» dall’anglosassone Updike di Couples…