GOLD A «FRISCO»

Herbert Gold sembra avere – o sarà una mia impressione molti aspetti in comune con Italo Calvino, al quale somiglia fisicamente e di cui è amico. Nei racconti dell’uno e dell’altro s’incontra lo stesso tipo d’intellettuale quarantenne d’origine piccolo–borghese che ha sfiorato la guerra giovanissimo, ha vissuto con una certa intensità il dopoguerra; si è liberato di un bel po’ di pregiudizi, ma tiene in piedi qualche sovrastruttura ancora comoda; è venuto scoprendo le «buone cose della vita», con ilare energia, concentrando le prime istanze moralistiche su limitati obiettivi fondamentali e generali. Un’ambizione bilanciata; una riluttanza istintiva a «mettersi in vista»; e insieme un rifiuto a «fissarsi», rinviando di anno in anno le prove maggiori: cioè il Romanzo Impegnativo e l’Amor Coniugale.

Più ritroso, più cauto, con più radici e più «piani», il nostro.

Meno metaforico, più estroverso, Gold: vitalissimo ma probabilmente più disincantato. Quantitativamente più prolifico: Salt, Love and Like, The Optimist, Birth of a Hero, The Age of Happy Problems, The Prospect Before Us… Con un costante sorriso da «bravo ragazzo americano» e tutti i sensi svegli spericolatamente puntati sulle preoccupazioni urbane e suburbane degli Stati Uniti d’oggi. L’amore, la mancanza d’amore, il lavoro, i vicini, il divorzio, la psichiatria. E la Virtù Americana. E la Colpa Americana.

Dalle università alle villeggiature, da Madison Avenue alle comunità degli immigrati ebrei ai deserti al neon del Middle West. E la vita così difficile in questi tempi: con tanto da guadagnare (posizione, casa, macchina), e tanto da perdere (macchina, casa, posizione). Anche qui, nella California dei «movimenti» allo stato nascente.

Le domande sono le stesse «contenute dentro ogni atto eseguito da un uomo o da una donna». Cosa dobbiamo fare della nostra vita? In che direzione il prossimo passo? E poi, cosa? Quando? Dove? Come? Perché? Giusto o sbagliato? Per chi vivo?

Chi sono io? Lo scopo della narrativa sarebbe dunque di «esplorare delle possibilità». Ma che figura ridicola, per un narratore serio, sorprendersi nei panni di «un filosofo sistematico che guida un Tram Chiamato Realtà per rientrare a casa nella Verità – dopo un giorno di duro lavoro»… Un Visconte Rampante o Dimezzato può andar cercando la propria Realtà in un balletto; ma Amerigo Ormea incappa in alcuni fatti reali nella vita di tutti i giorni. E l’immagine della Donna non sarà mai concreta come Sally o Judy che si lavano le calze. Le opere si mantengono volutamente «minori». E altrettanto programmaticamente cambia faccia ogni volta la ragazza accanto al protagonista: «Lo scapolo che è solo un altro acrobata in bilico nel circo disorganizzato dell’amore e del matrimonio in America».

Gold è partito da Cleveland, Ohio; ha fatto il paracadutista in guerra; è stato a Parigi e a Haiti per qualche tempo: sa bene il russo; e abita beato a «Frisco» da tre anni. Lo vado a trovare a casa sua, un pianterreno fra gli alberi in cima a una collina straordinariamente campestre, nel centro della città. «Qui è sempre aprile» dice. «A casa, quando c’era bel tempo, bisognava correr fuori a goderselo. Qui si può star dentro a lavorare senza rimpianti: è bello sempre… «Per molti americani,» spiega «San Francisco è come Parigi negli anni Venti. E possibile vivere a un livello nuovo, liberamente; spendi poco, la società ti accetta come sei, di vere difficoltà non ce ne sono, e tanto meno pasticci con l’immigrazione o la lingua. Bel tempo, si mangia bene, le ragazze in bikini tutto l’anno, musica… Basta allungar le mani e vengono giù i soldi. La gente, assetata di cultura: ti riconoscono, ti stanno assieme volentieri. Quindi, più possibilità, più riconoscimenti, e la sensazione di far parte comunque di una società, della tua società. Invece di spender soldi in abiti pesanti a Chicago, meglio spenderli qui in teatro e libri… «Certo, tanti vengono di fuori senza tradizioni, senza legami nè radici; quindi rimangono sospesi per aria. Astratti, senza regole, nessun terreno dove posarsi. Niente impegni, verso nes suno. Molti amano questa sensazione d’irresponsabilità. Ogni decisione basata sull’umore o la simpatia. Nulla d’obbligatorio.

Tutto che si torna a decidere da capo, dalla professione al sesso: voglio essere questo o questo… Mi darò allo Zen o allo sci d’acqua, alle lotte per la libertà o alla collezione di francobolli?… «Naturalmente è una vita artificiale. Ma l’infelicità dipende soprattutto dall’uso che si fa dell’Est: New York, piena com’è di obblighi sociali… Chi ha bisogno di pressioni dal di fuori, ci stia pure, fa bene. Qui però il mondo non preme. Della propria vita, uno può disporre per produrre. E per me star qui è come Taormina: una villeggiatura dove si lavora bene; e con una differenza, la vita sociale e culturale in più. E una vera città, dove è possibile camminare, far l’amore. Abbastanza piccola da conoscere amici, stare insieme. Grande abbastanza per fare i propri comodi. Ero venuto per un anno, chissà quanto ci starò. Scrivere alla mattina; tennis nel pomeriggio; e la sera, “my lady”…».

Scendiamo per una quantità incredibile di sentieri ombrosi, rive fiorite, pendii pieni d’erba e cespugli e casine: col traffico e i grattacieli tutto intorno e mezzo chilometro sotto. Sediamo a un ristorante hawaiano del ‘30 che lo diverte molto, con una Dorothy Lamour che arriva in gonnellino di rafia e banane a portar pozioni gelate al rum. Fra totem e tabù e maschere tribali, il solito discorso sui maestri.

«I Faulkner, i Fitzgerald hanno avuto influenza sulla generazione precedente, ma non su questa… E quella parodia di un Diogene letterario moderno che è venuta fuori da Hemingway… cioè un cercare reputazione e non gloria, formule e non saggezza, sollievo per i propri disturbi e non risolutezza di fronte alla morte… Dopo tutto, Diogene cercava l’onest’uomo al mercato portando una lanterna, non uno specchio. Ma la fissazione autobiografica guida a un pathos da frasi memorabili sulla lapide funebre… «La società celebrata dai Wolfe e Anderson e Dos Passos e Steinbeck ormai ha un’importanza solo storica. E gli pseudoleaders hanno finito per morir tutti… I vecchi problemi ce li sentiamo ancora addosso come trentanni fa, quando le ideologie sociali che riempivano la testa agli scrittori davano poi come tutto risultato dei finali di romanzo tipo “Egli è morto per tutti noi, ragazzi!”… Ma c’è stata di mezzo una confusione di ottimismi successivi, tutti temporanei: la vittoria in guerra, una prosperità economica speciosa, la mancanza di un ideale politico importante da sbattere in faccia agli errori veri o falsi dell’America… «Si capisce, i narratori si addossano adesso una parte tradizionalmente svolta dai filosofi, dai metafisici, dai leaders religiosi, e poi sono tornati al più elementare fine poetico: la conoscenza.

Cercar di sapere, farsi le domande essenziali… Naturalmente altri si sono rifugiati in vecchie solfe di tutto riposo; resipiscenze religiose, dogmatismi politici, l’edonismo nonché la sua anemica nipotina psicanalitica, l’ossessione per la buona salute fisica: un ideale da assicuratori o da masseuses, una caricatura del purgatorio classico che raggiunge ordine e calma attraverso pietà e terrore… E il nuovo melodramma borghese? Herman Wouk, ovvero “Arriviamo noi marinai di carriera”; Sloan Wilson, ovvero “Confessa la verità a tua moglie, e metti anche il pigiama di flanella grigia”; Cameron Hawley, ovvero “La Passione secondo San Luce”; la scuola di Marquand, ovvero “Che cosa triste esser tristi, però che cosa anche signorile”…».

Le maschere tropicali ci fissano, i rum aumentano, la Dorothy Lamour passa avanti e indietro con banane infilate dappertutto.

«… E pensare che chi ama la narrativa sul serio lo fa perchè riguarda le uniche domande che hanno un senso oggi. Che rapporti fra libertà e isolamento? Quando sono solo e quando indipendente? Quando mi sento responsabile? E quando gregario, affondato nell’isolamento socializzato? Quando sono egoista nell’insignificanza, selvaggio nell’incoerenza? Quali sono le relazioni fra amore e forza, fra amore e debolezza? Perché devo amare e lottare, sfidare la mia età e la Storia? Perché devo morire, e chi sono io? E questa la domanda a cui anche Joyce e Nabokov devono rispondere, la relazione causale con la società in cui si vive è un punto morale. E una domanda come uno spinacio fra i denti, ci appesta il fiato appena ce la poniamo; e non è neanche una domanda tipica dei nostri tempi.

Lo spinacio è ancora visibile fra i denti di Dostoevskij, Tolstoj ha la bocca piena di verde. Il grande scrittore esplora sempre il proprio spazio interno e il mondo fuori, e cerca un nesso: dev’esserci una coerenza, insiste. E l’ego debole che si dimena invece in cerca di forti asserzioni, si immola nella burocrazia e nella pubblicità, strilla a tutti: “Aiutatemi, ditemi che ci sono anch’io!”.

E giù quindi memorie d’infanzie trepide e conculcate, esposizioni del già esposto, lutulenti ricordi di guerra, imitazioni di James e Kafka, autogingillarsi col Peccato e le Magnolie al Chiar di Luna, tutto un interior decoration della prosa, come se il narratore fosse l’allodola di Shelley che “versa fuori il suo cuore in torrenti d’arte non premeditata”, senza riflettere che lo scrittore è una bestia pelosa e non un uccello alato… «Insomma, da un lato il delitto di hybris, il folle orgoglio che induce il misero mortale a paragonarsi con Aldous Huxley o William Saroyan… Dall’altro ecco l’esemplare chiarezza di Saul Bellow, che alla stessa domanda “perchè sono qui?” risponde ironico: “perchè ci sono, e basta!”. Oppure disperato: “perchè ci sono, e non basta affatto”».

Usciamo in giro per il quartiere, e sembra una passeggiata alla Gene Kelly nell’Americano a Parigi. Gold accarezza il bambino, raccoglie le patate cadute alla vecchina, tira un calcio a una palla, si ferma a far due complimenti alla moglie di un amico, assicura a tre ragazze che sono diventate più carine dalla settimana scorsa, tutte e tre.

Ma fra gli autori operanti adesso… «No, nessuno è in grado di esercitare una vera leadership intellettuale» afferma. «Bellow e Nabokov certamente hanno un’influenza considerevole: ma stilistica, perchè scrivono bene. Altrimenti, si rimane nel campo delle public relations, della moda come effetto del giornalismo alla “Time”. Formule abili, che sintetizzano ogni idea in uno schema pubblicizzabile, destinato a essere sostituito alla stagione successiva, e di cui sono vittime gli scrittori di talento.

Si può fare una cronologia, perchè il ritmo è regolare: cinque anni fa Kerouac; quattro anni fa Ginsberg; tre anni fa Salinger; due anni fa Mailer come giornalista; l’anno scorso Albee; quest’anno Baldwin… «Così ormai gli scrittori americani compiono l’atto gratuito in pubblico, gridano le proprie difficoltà sessuali sui tetti, come il sordo che vuol farsi sentire… Questo esser diventati “public commodities” è la peggior disgrazia capitata agli autori americani dopo le borse di studio ai reduci di guerra. Questa tentazione della vita pubblica, che impedisce la vita privata, la quale sola rende possibile la letteratura… Per che cosa, poi? Per parlare in pubblico, aver la fotografia in copertina; per esser riconosciuti dal negoziante d’automobili, dalla padrona di casa. Perché oggi le padrone di casa conoscono almeno di nome gli scrittori: la mia sapeva perfino qualche titolo. E con questo?… Mentre in Francia, quando De Gaulle stava per salire al potere, passeggiando di notte vedevo la finestra di Sartre illuminata fino a tardi; e trovavo consolante per tutti la responsabilità di qualcuno che pensa seriamente per gli altri… Vogliamo fare un paragone con una lettera aperta di Mailer a Ken nedy o a Castro su una rivista di moda? C’è una bella differenza, mi pare…».

Passiamo per la scuola d’arte, una Brera rurale su un precipizio, con un chiostro mediterraneo, un pozzo ottagonale a piastrelle tipo Vietri, sculture di gesso e metallo sull’erba, una ragazza di Tokyo che lui «riconosce dalla biancheria appesa», dice; e barbuti che studiano quieti in una bella biblioteca foderata di legno, su poltrone rosse di cuoio.

La letteratura più giovane? Parla d’anarchìa, individualismo, mancanza di gruppi, nessuna affinità fra un autore e l’altro.

Chi lui preferisce è George Elliott, autore di Parktilden Village e di Among the Dangs. Nato in California, vissuto a New York, insegnante in varie università, ora a Syracuse: «la prova che non ci sono solo movimenti verso la California.

«… Mentre qui si farebbe così in fretta, volendo, a guadagnar soldi facendo gli scrittori “brillanti”, i compromessi sono tanti… per la televisione, “storie allegre di gente allegra con allegri problemi”… ghost–writing d’autobiografie di buone donne… Oppure, vivere con pochissimo a Sausalito, mangiando angurie: intellettuali che non hanno nulla in comune, nè di letteratura nè di politica nè di sesso. Stanno insieme fra amici, al caffè, nella libreria, pubblicano insieme senza influenzarsi, dividendo le bottiglie e le donne e le gite alla spiaggia…».

America Amore
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