KATHERINE ANNE PORTER
Nell’ultima pagina di Ship of Fools, romanzo di Katherine Anne Porter investito dal più strepitoso successo americano dopo Salinger, figurano due date che quasi fanno piangere: «Agosto 1941-Agosto 1961». Come se non si sapesse che i libri belli come La Certosa di Parma si possono scrivere in due mesi. I vent’anni di lavoro per questa Nave dei folli stringono il cuore, nè più nè meno che i dieci e più di romitaggio di Salinger per produrre Franny and Zooey, ma non impressionano tanto da un punto di vista di riuscita letteraria: piuttosto, come la fatica del mutilato che suona il violino coi piedi, come lo sforzo del reduce che costruisce il Duomo di Milano con la mollica di pane.
E non fa ridere neanche la prima pagina, con la sua «Avvertenza»: «Il titolo del libro è una traduzione dal tedesco Dos Narrenschiff… pubblicato come Stultifera navis nel 1494… Cominciando a pensare a questo romanzo, ho assunto la semplice e quasi universale immagine della navicella di questo mondo nel suo viaggio verso l’eternità. Non è certamente nuova… Ma si adatta perfettamente al mio fine. Sono anch’io una passeggera su quella nave».
Ahi! Una nave di stolti… Come Parsifal, «puro stolto» (e non già «puro folle»)… E si potrebbe immaginare un T.S. Eliot che borbotta: «O O O O that Shakespearian Fool», addirittura… Miss Porter appare quale una rispettabile autrice sui settantanni che si è sempre amministrata con grande accortezza, e da mezzo secolo gode di una notevole fama «mandarina» presso i critici più reputati grazie ad alcune novelle pubblicate a intervalli giudiziosi sempre sulle riviste «giuste»: dalle accademiche come «The Sewanee Review» alle antologiche–conservatrici come «The Atlantic Monthly» alle highbrow di sinistra come «Partisan Review» alle middlebrow–commerciali come «Harper’s» alle frivole–e–mondane come «Mademoiselle». Non ha mai cercato sfacciatamente il successo, e per questo primo romanzo è doveroso concederle il beneficio della buona fede, nè più nè meno come al furbo Nabokov per Lolita, che era un caso molto simile di bestseller congegnato in maniera da riscuotere contemporaneamente (e come per puro caso) i consensi dei critici più schifiltosi e i milioni delle abbonate al Club del Libro «Fagioli & Cotiche».
Certo, però, anche conoscendone molte, di navi simboliche e di passeggeri con e senza bagaglio, come caso è inquietante; e anche abbastanza esemplare. La storia è quella di un lungo viaggio di una nave tedesca dal Messico a Bremerhaven, nell’estate del 1931, con diverse soste in numerosi porti lungo la strada, con molti passeggeri di svariate nazionalità e svariatissimi temperamenti, nonché ombre di contrasti internazionali e già un po’ di persecuzioni antisemitiche per aria.
Già Chaucer e Boccaccio erano stati del parere che la gente tirata fuori di casa e allontanata dalle normali occupazioni in circostanze insolite tende a dare – se non il meglio – almeno il più interessante di sé. Ma a questo punto vengono in mente piuttosto quei romanzi e quei film degli anni Trenta pieni di personaggi sufficientemente rappresentativi di qualche cosa (della Francia amorosa, della Cina misteriosa, per esempio, o della Gola o della Gelosia o della Distrazione, oppure del Liberalismo o dell’intolleranza), messi insieme dal Caso su un Ponte di San Luis Rey di Thornton Wilder o in un Grand Hótel di Vicki Baum – gente che va, gente che viene – e sottoposti a scosse e cataclismi rivelatori di personalità, tipo bombardamento sopra rifugio antiaereo o valanga sopra rifugio sciistico. Non per nulla, appena prima della guerra, per intere stagioni si vedevano spesso film (generalmente con Pierre Blanchar e Pierre Fresnay e Louis Jouvet in guarnigioni e avamposti, se ricordo bene, ma ce ne sono stati certamente anche di Negulesco, LeRoy, Wellman, Duvivier, ecc.) su un Orient Express che si ferma improvvisamente alla fatal Sarajevo, carico di sposine trepide e di fanciulle indomite, false monache e inglesi eccentrici, e il prete che legge un po’ il breviario e un po’ il cifrario, e la solita marchesa che dice saggezze con accento russo, e il consueto commerciante grasso che non può perdere assolutamente l’appuntamento, e l’usuale adultera in fuga già mezza pentita, e l’abituale spia internazionale di buon cuore dunque prontissima al ravvedimento (tanto vero che alla fine si sacrifica), tutti quanti sottoposti alle angherie di un colonnello col monocolo.
Ma attualmente, macché Sarajevo: Incident at Vichy. Altro che St–Tropez. Ove si verifica un Fritto Misto di Passeggeri, ivi continua a incombere L’assedio dell Alcazar. E ivi, con la solita acutezza, Angus Wilson ha subito osservato che non dev’essere senza ragione se un libro basato su formule degli anni Trenta viene ambientato appunto negli anni della gran voga della Grande pioggia, accomunando personaggi e lettrici in un unico abbraccio, presto condiviso dalle spettatrici di un inevitabile supertechnicolor interpretato da tutte le stars di Hollywood.
Veramente non si può dire che l’autrice si tiri indietro: sulla sua nave, «elle ne se prive de rien». Ci mette dentro parecchi tedeschi (fra cui uno ebreo, e uno ariano ma sposato a un’ebrea, per non perdere neanche una sfumatura), spagnoli d’ogni classe sociale (ma piuttosto sul ballerino e lo zingaro), gli studenti cubani, i deportati nella stiva, il patetico tabaccaio aspirante violinista, la coppia bizzarra con il bulldog equivoco, la contessa pazza, la nubile triste, lo svedese truculento, i due giovanotti che non la contano giusta, la pittrice graziosa, la dama cosmopolita, i bambini bestiali, il buon medico di bordo, il moribondo sulla sua carrozzella. Cosa altro si potrebbe desiderare? I Fools appartengono alla tradizione migliore. La nave si chiama perfino Vera, uno non pretende di più.
Il libro è fatto molto bene, con presentazione dei personaggi, descrizione di ogni parte della nave e di tutti i porti pittoreschi; avvenimenti grandi e piccoli, i gesti, i tic, il tempo che fa, l’arredamento, e tutto. Non manca niente, come in un plumcake fatto senza economia. C’è la tensione che monta, più di un presagio di sventura, e lo scatenamento di passioni durante una fiesta iberica: che va benissimo, come sempre van bene in questi casi gli uragani e le deflagrazioni e i terremoti di San Francisco. Sentimenti, tutti decenti, dal principio alla fine: quindi bene. Gioie e dolori, benissimo. Brutalità e delicatezza, mortificazioni e trionfi, l’universale e il particolare, l’effimero e l’eterno, tutti ugualmente carini e di buona compagnia. E il trionfo del «bene gli altri». La persecuzione antisemitica è poi sempre un gran «tiremm innanz» per mettere tutti d’accordo, tipo gli abituali «ha parlato male di Garibaldi» o «abbasso il ta lidomide», con la commozione «giusta» in più. Lo prova più di un recente Premio Goncourt: come fa a salvarsi da un’accusa di filisteismo razzista e senza cuore ogni minima riserva sulla compiacenza attuale del bestseller nello sfruttare il martirio degli ebrei non con la modalità di Mann o anche di Feuchtwanger, ma per arrivare agli stessi effetti diuretici a suo tempo ottenuti in Fabiola e nel Quo Vadis mediante i cristiani in pasto ai leoni… Lo stesso calcolo cioè dei furbi commediografi proletari inglesi attuali, che sfruttano di preferenza il lato pittoresco, e pretendendo di star facendo del neorealismo dipingono naturalisticamente la comunità israelitica dell’East End londinese come un complesso di vocalisti uso Filumena Marturano: nell’ultimo spettacolo di Lionel Bart, tuttora all’Adelphi Theatre, una vecchia mamma ebrea vende sottaceti davanti a una trattoria kosher cantando strofette con tutte le rime cockney pensabili per la parola «goi», e parla tutte le notti col marito morto raccontandogli le tresche del figlio maggiore con una donna sposata, «e per di più protestante».
Il punto è questo, pare: una purée di «buoni sentimenti» eccessivamente «giusti» può riuscire non meno fastidiosa di un étalage di libidini insane, e altrettanto sconveniente (dal momento che volendo franare in un orribile gioco di parole il migliore amico del pregiudicato è diventato lo spregiudicato: chi oserebbe oggi mostrarsi così poco spiritoso da rifiutare il sonetto del ruffiano confesso o il bassorilievo del grassatore impunito?).
Ma la massaia può star tranquilla, comunque; e ben contenta dei soldi spesi. Di Via col vento e Passaggio a nord–ovest ormai diffida; non si sente soddisfatta se non crede di trovarsi di fronte a un testo «intellettuale» e «impegnato», con le carte a posto sia per la Cultura sia per l’Attualità. Come ha ragione ancora Angus Wilson quando riattaccandosi all’avvertenza iniziale della Porter sentenzia: «Passeggera? Forse: ma di una middle class…».