CLEOPATRA SHOW
Cleopatra, nella sua bruttezza, è talmente più incredibile d’ogni previsione che diventa una féerie di nonsensi, un divertimento paradossale, di una ambiguità continua, perchè di fronte a ogni sciocchezza e follia non è mai chiaro se va presa sul serio o se intende far ridere. La maledizione dei Tolomei è tremenda, non si è salvato neanche Corneille: césar – Antoine, avez–vous vu cette reine adorable?
Antoine – Oui, Seigneur, je l’ai vue: elle est incomparable. (La Mort de Pompée, III, m).
Ma per fare questi film, cioè abbrancarsi a più mani a una storia fornita d’ogni ghiottoneria che volendo si può (e non si dovrebbe) desiderare, è chiaro che le soluzioni non sono molte più di due. O prendere la Storia di petto, in buona fede, magari con del vecchio panache alla DeMille. O aggirarla – potendo - con un’ironia alla Shaw. La via scelta parrebbe invece qui la «via di mezzo» di Dryden, nella prefazione ad All for Love (che non per nulla comincia con un compleanno di Antonio assediato nel tempio di Iside). Sarà cioè doveroso migliorare la rozzeria di Shakespeare, senza però arrivare al cicisbeismo di Racine: quindi Ippolito non sia un gioviale cacciatore di «irsutaggine amazzonica», ma neanche «un Monsieur Hippolyte che ha imparato le belle maniere a Parigi»; e Antonio «non può essere un personaggio di perfetta virtù, perchè altrimenti sareb be ingiusto renderlo infelice»; nè Cleopatra «deve apparire solo malvagia, o diventerebbe impossibile compiangerla».
Il risultato è di un ridicolo involontario ed enorme. Basta cominciare dalla netta divisione del film in due parti: l’episodio di Cesare tutto risolto in «ora del cocktail», e quello di Antonio impostato invece sul breakfast. Non c’è scena di Cesare in cui Rex Harrison non trovi bottiglie pronte e servizi di bicchieri, non si versi da bere, non prenda il ghiaccio dal secchiello, e non giri per la stanza con il suo drink in mano. Sempre i suoi tavolinetti con su i rinfreschi, fin dal primo incontro; e sempre dei gran piatti di frutta, anche, con la loro uva in cima. L’episodio Cesare–Cleopatra dura molti anni, tanto vero che il figlio Cesarione cresce fino all’età pubere e fa in tempo a ricevere gustose lezioni di buongoverno. In quell’idillio è sempre vendemmia, l’uva non manca mai. Ma viene poi mangiata in due modi ben distìnti. Durante conversazioni pacate, trattative politiche, intimità domestiche, riposi, ironie e sieste, piluccando normalmente e ironicamente i chicchi con due o tre dita. In circostanze di passione, invece, alzando il grappolo sopra la testa arrovesciata, labbra socchiuse, tutto un addentare dal basso bagnandosi quindi il mento. E morsicando gli acini impetuosamente, come in ogni rispettabile «peplum». (A Milano si è visto anche a mostre eccellenti, da parte di insigni primedonne, con «fabulous entrées» da Iolas, morsicando con passione il grappolo portato in tassì).
Cesare normalmente veste «in lungo», come una duchessa di Niccodemi che riceve in casa: un peplo scarlatto da pomeriggio, interamente plissé, accollatissimo, manica lunga, orlo alla caviglia. Nulla lo distingue da Alda Borelli nella Nemica di Niccodemi, come è anche giusto. (Manca però purtroppo un giovane Gassman che come ai bei tempi le si avventa contro urlando «babba! babba!» a quattro zampe, con finte reciproche molto calcistiche davanti a un canapè). La sua incoronazione invece è tutto un Messico, un Montezuma, con musiche però da Chinatown, a campanellini. Ma almeno Rex Harrison infila qualche ammicco nelle sue formule di politesse da café society. Dà l’impressione di star cantando Cole Porter? Quindi bene. Ma la Taylor gli tiene testa come una Shirley Temple che tenti Noël Coward da vecchia, tipo un’anziana Deanna Durbin che provi a indovinare una Lady Windermere.
Con Antonio siamo invece sempre all’ora del breakfast. E l’antica trovata, sfruttata da Citizen Kane in poi da una quantità di film belli e brutti, di utilizzare una serie di prime colazioni successive per indicare il graduale deteriorarsi di un rapporto maritale. Prima bacini, insomma, poi giornali sempre più invadenti fra i corn–flakes e le caffettiere, finchè si arriva all’insulto aperto, allo schiaffo, al divorzio. Adorabile da questo punto di vista è l’intera parte Antonio–Ottavia: tutto un «bacon and eggs» a Manchester o a Liverpool, con i due coniugi seduti ai due lati estremi d’una lunga tavola col loro succo di grapefruit davanti, candelieri e marmellate in mezzo; e si scambiano «nasty remarks» e frecciate fra le teiere, interrompendosi di colpo («not in front of the servants») ogni volta che entra la cameriera col porridge, per fare delle osservazioni disinvolte sul tempo.
Come film americano è piuttosto orribile perchè risulta mal girato, mal montato, con una musica sciocchissima tipo Grand Canyon, tuffi inconsulti negli Ercoli e nei Macisti, e salti logici dissennati perchè molte scene importanti sono state estromesse dalla versione finale. Così parecchi personaggi notevoli spariscono a un tratto senza motivazione, e ne imperversano improvvisamente altri di cui non si sa nulla perchè è saltata l’inquadratura che spiegava chi sono. Scompare fra l’altro la morte di Cesarione, rendendo incomprensibile una disperazione finale di lei. Perciò non piace al pubblico. Oltre tutto, sembra un film economicissimo, i soldi spesi non si vedono mai, pare girato quasi tutto in interni, in primi piani, con modellini artigianali, e scene arrangiate all’ultimo momento portando via i regali della Prima Comunione alla figlia del portiere di Cinecittà.
Tutti i materiali usati provengono evidentemente dall’industria in serie; e praticamente di ogni oggetto chi vive a Roma è in grado di indicare il prezzo, e il negozio dove è stato acquistato: dalle triremi di celluloide con cui gioca lei nella vasca, agli attrezzi per il massaggio, alle inaudite passamanerie e chincaglierie, alla biancheria da bagno e da letto: federe, lenzuola e salviette della Rinascente, e quelle ciniglie bordate di rose rosse che riappaiono a ogni Fiera del Bianco sotto l’insegna di «La lunga estate calda» (non per nulla esibite nel film nelle tre misure: bagno, faccia, bidet). Le corazze di Antonio sono invece appese a un portabiti dell’Upim, con sopra appiccicate due aquile dorate comprate nel negozio di bronzi e maniglie in via Quattro Fontane, angolo via degli Avignonesi (ed è un portabiti che avrebbe una parte importante; in assenza di Antonio lei gli rivolge lunghi discorsi alla Oh–my–God, e una volta perfino lo colpisce con un gladio).
Non a caso: uno degli imbarazzi involontari del film è che tentando una rappresentazione di fasto regale proietta invece nell’antichità faraonica i paradigmi locali della «signorilità» secondo le immagini della piccola borghesia ebrea di Brooklyn.
Qui non si sa mai come spiegarsi basicamente. (Chi per esempio ci spiega la gran differenza fra i musicisti d’origine ashkenazita come Gershwin e Bernstein e gli autori dei migliori musicals di Broadway, e invece i compositori cresciuti fra la Sinagoga romana e Santa Cecilia, non già in uno «shtetl» dell’Europa orientale?). Da noi pare assai poco sviluppato il gusto alla Philip Roth per la descrizione sociologica e di costume dei gruppi etnici e degli strati sociali, che analizzando con qualche rigore le «medie» e i comportamenti (che so, il «salotto bono» della famiglia impiegatizia «bene», il pranzo d’affari del commendatore milanese, il matrimonio nel generone romano), si rischia facilmente di franare nel macchiettismo o nel razzismo. Senza contare che la borghesia ebrea da noi frequentata in città e in campagna ha uno stile piuttosto alto–borghese, con case tradizionali, bei mobili antichi, quadri di valore, assiduità ai concerti, biblioteche ereditate, ecc. Hanno invece modelli precisi e meno facoltosi (e lo intende benissimo il pubblico americano) per esempio i critici della «Partisan Review» quando giudicano la narrativa di Malamud e Bellow e Rosenfeld e Roth in termini di «local happenings of American–Jewish urban life»; e gli autori di commedie casalinghe (tipicamente ebree, così come quelle di Eduardo sono tipicamente napoletane) tipo The Goldberg Family con la vecchia mamma Molly Picon, o di sketches colmi di «typical Jewish wit» per i cabarets satirici. E Vance Packard impiega pagine e pagine del basico The Status Seekers per spiegare le differenze di pregiudizi nell’arredamento fra gli ebrei d’origine italiana e quelli d’orìgine polacca.
La «signorilità» che si riflette in Cleopatra sembra appunto quella della droghiera polacca o del lavandaio rumeno al primo scalino della prosperità: il luccichio nuovo, le cornici spesse, le tendine a volants, la tappezzeria di carta che simula un pesante damasco, le stoffe ostentatamente ricamate, il finto Luigi XV comprato ai grandi magazzini, gli stili fastosi imitati con materiali economici, i soffitti bizantini dei cinema di trent’anni fa, il gesso e lo stucco dorati con la porporina, dietro cui si vede fisicamente il banco di delikatessen kosher, il cinesino col ferro da stiro a vapore. E lo stile dei convenevoli è il medesimo, in tutto il film. Come se in una Lucrezia Borgia si facesse dire al Valentino: «Scusate il disturbo, non mi siedo neanche, ma passavo di qui e ho pensato di fare un salto di sopra per farvi un salutino».
I luoghi sono divisi molto semplicemente: le scene egiziane si svolgono in décors latini, e viceversa. I palazzi reali dei Tolomei rappresentano di solito la Stazione Ostiense o la piazza principale di Sabaudia, con anche un po’ di Latina e Pomezia.
Di là dalle finestre, il Rockefeller Center. Ma normalmente siamo in una hall di Hótel Hilton, con quella mescolanza tipica di marmi grigi, mogani scuri, e ciuffi di kentie e ficus da un quadrato nel pavimento, che sono il penultimo «cri» nel fasto alberghiero americano del dopoguerra. In queste sterminate distese di marmi lucidati a piombo, deserte se non fosse per qualche branda viola e poche palme in vaso, Cleopatra pare sempre una vecchia viaggiatrice grassa che urla al facchino di portarle giù le valigie, con il suo tassì lì pronto. Altro che qualche Rothschild in villeggiatura. O i sontuosi divanetti in stile «Christian–Bérard–Machine–Infernale» di Lily Volpi a Sabaudia, coi letti di Tomaso Buzzi in travertino.
Bisogna però notare che in queste stazioni di pullman non manca mai il suo angolino «cosy»: un bel salottino con divanino a due posti Louis–Philippe, due poltroncine dorate simmetriche, un tavolino rotondo col suo vaso di fiori sopra, il suo portacenere di cristallo, le bomboniere di nozze, e non di rado qualche pouf di raso e un servizietto di liquori: la bottiglia di cristallo quadrata con i suoi sei bicchierini, tre da una parte e tre dall’altra.
Ma anche gli altri ambienti non scherzano. L’ufficio di Cleopatra è l’antro dello scienziato pazzo, con globi surrealisti, pozioni che bollono, mappamondi del Dugento, anelli di Saturno da luna–park e librerie svedesi verniciate con la cementite.
Mobili invece semplicissimi: armadi finto–Quattrocento, lucerne fiorentine, pochissimi ferri battuti, seggioloni da notaio nel quartiere Prati. Il resto non va guardato: sono tutti mobilacci di compensato e di faesite, buttati lì come viene viene. Neanche una bella dormeuse. Nemmeno un buon Piranesi alle pareti. Ma sullo yacht c’è una gran bella savonarola da Cena delle beffe.
La parte latina è tutt’altro che male. C’è un Foro Romano delirante, rifatto in forma di piazza San Pietro, con obelischi Piacentini e lettighe Busiri–Vici e folle di dons di Cambridge che si scambiano dei bons mots strettamente accademici: tutto un understatement alla Compton–Burnett e un nascondere il sorrisetto nella toga. Non fanno vedere neanche un colonnello tipo un’india da viceré, col suo baffo rosso e la risata militare da «jolly good chap», magari come Filippo d’Edimburgo sul campo di polo. Non si è neanche riflettuto che in casi di espansio nismi, nazionalismi, colonialismi, avevano ancora lì Kipling pieno di esempi a disposizione. Si sono fermati a Rattigan.
La villa di Cesare sull’Appia Antica è soprattutto Beverly Hills: con la sua piscina, la sua biblioteca in finto–legno, i suoi armadi a muro spaziosi. Forse, come nella realtà, boiseries colme dell’Opera Omnia del generale Perón. La gens Julia gira in toghe da giardino, praetextae da orto, pepli da patio e tiare da trampolino.
Ma Cleopatra, sempre pronta per andare alla Casina delle Rose: con cuffie di petali di nylon, per cui le si immagina sempre una doccia sopra la testa. E c’è un gran bel commiato di senatori dopo un barbecue–party, con dei «grazie per la bella serata» alla padrona di casa in anticamera, e scambi di buonanotte sul pianerottolo, che sono puro «i miei rispetti alla sua signora», «grazie, presenterò».
La morte di Cesare aggiunge la sfacciataggine all’ingiuria e all’insulto. Cleopatra la vede nel braciere magico della fattucchiera, che funziona esattamente come un televisore, con una tecnica di ripresa anche abbastanza disinvolta: campi lunghi del corteo, carrellata su per la scala, particolare del pugnale di Bruto, primo piano del «tu quoque»… Certo, molto più moderno della vasca dei Visiteurs du sdrài Carnè, dove quindici anni fa gli amanti folli vedevano (anche là per virtù magica) un duello a molte miglia di distanza, ma senza montaggio. I funerali di Cesare sono invece molto ordinari: scalinata del monumento a Vittorio Emanuele, bandiere del Comune, banda dei Carabinieri, mobili dell’Anagrafe. Ancora a piazza Venezia non va male un «Guerra, guerra!» della Norma: con le lettighe bloccate dalla folla come i tassì durante i discorsi di Mussolini. Né va trascurata l’orazione di Ottaviano ai senatori, ripetuta per ben tre volte: è una lezione di procedura civile in un anfiteatro dell’Università di Macerata o Camerino, fatta da un assistente volontario ai fuoricorso che vengono tutti insieme a prendere la firma alla vigilia degli esami.
Il grande show del film è l’entrata di Cleopatra a Roma: momento «cruciale», perchè in un colpo solo lei deve riprendere Cesare e conquistare il Senato e il Popolo Romano. Il film lo risolve con un corteggio di numeri di rivista. Quindi, in teoria, bene. Invece, tra siparietti e stelle filanti e nuvole di polvere d’oro si riconoscono tutti i quadri: dei Dapporto 1949, dei Gisa Geert 1951, dei Katherine Dunham ripetuti in varie tournèes sempre uguali… Né più nè meno che una celebrazione di ventanni di Spettacoli Errepì: un quadro per ogni rivista di ogni anno… Già che erano su quella strada potevano almeno sfrenarsi tipo Folies Bergère. Una certa chicca è comunque la discesa di lei da un’enorme sfinge, lungo uno scivolo di legno con frangia di passamaneria ai bordi, comprata evidentemente in una chincaglieria di via Tuscolana.
Altri oltraggi al pubblico sono forse deliberati: sfondi di paesi laziali veri, con chiese moderne, capitanerie di porto, caserme della Guardia di Finanza costruite dopo la guerra. Davanti, forse pensando alla «gilded shell / red and gold» di Eliot, naviga un Bucintoro da Carnevale di Viareggio carico di tende porpora e di palme secche (evidentemente morte durante le riprese, e non sostituite). E un dileggio del Giulio Cesare di Hàndel («Presti ormai l’Egizia terra / le sue palme al vincitor»)?… A bordo, comunque, un buffet freddo del più realistico Ruschena, servito da figurine da album Perugina che intrecciano un Sacre du Printemps alla Delia Scala su una moquette Upim da poche lire al metro con piatti e bicchieri della Standa.
Sono poi parecchie le cose veramente squallide del film, e non fanno neanche ridere. La sceneggiatura è indecente, e i dialoghi spesso vergognosi: con l’avverbio che impazza, e l’abuso degli «awfully» preposti a ogni aggettivo. «Literally?» domanda Cleopatra sgranando gli occhioni. E Cesare dopo l’incendio della Biblioteca di Alessandria dichiara «I am extremely sorry» come un cameriere che si scusa d’aver versato due gocce di vino sulla tovaglia. I «cattivi», tutti con la barba per distinguerli.
Richard Burton recita malissimo, vestito e comportandosi come Bob Hope nella giungla. S’infila fazzolettini orlati nell’ascella della corazza come avrebbe fatto Oscar Wilde nella manica della redingote. Ma il vero dramma è che grida distrattamente in tutte le direzioni, e lo si confonde continuamente con le comparse; non ha mai quella presenza magnetica che distingue l’attore dai generici. La formazione del secondo triumvirato, poi, è un «a me questo», «e a me quello» veramente da bar sport, non si è mai vista al cinema semplificazione più crassa.
Azio, infine, è una battaglia che lascia perplessi; intanto, perchè non si vede. Cioè, da principio viene risolta con un commando di Guardie Svizzere che giocano alla battaglia navale su una scacchiera di finta malachite con quei modellini di torri e d’alfieri che si fanno a Volterra con l’alabastro locale e si vendono a Roma in via Due Macelli ai turisti. Sarebbe lo Stato Maggiore egizio che segue le manovre. Ma sullo sfondo del mare si muovono modellini di navi così oltraggiosamente falsi che quando alla fine brucia un’infinità di triremi indubbiamente vere, tutto il pubblico è persuaso da un pezzo che la battaglia sia stata girata in un catino. Cosa sarà successo? Certamente sono state montate delle scene di raccordo, fatte appunto in catino dopo l’incendio della flotta vera. E come mai Cleopatra compare alla battaglia in pullover di cashmere celeste, con un incredibile paltò di cammello dell’anno scorso, con maniche normali, collo di leopardo, e cappuccio da sci? Chiaramente è un abito privato della Taylor, adatto a far spese di mattina in qualche via delle Repentite o delle Rabbonite: e lei lo portava arrivando sul set. Ivi le ipotesi non possono essere che due: o è stato utilizzato un provìno e non la scena definitiva in costume; o nessuno si è accorto dell’errore se non quando era troppo tardi per rigirare le scene, dopo l’incendio delle triremi sullo sfondo.
Fino alla fine si rimane sul ridicolo. Le trattative con Antonio nascosto nella tomba di Cesare già sono una sfacciata parodia del processo di Radamès con Amneris nascosta; e la tomba è una chicca di per sé per il concetto della morte che rivela, un Escuriale di finta onice ricostruito a Forest Lawn da un architetto bavarese della Secessione viennese. La morte di Antonio è interamente alla pellerossa, il solito sceriffo che esce solo, da Sfida infernale a Mezzogiorno di fuoco. E quella di lei, non è che una natura morta di fichi rovesciati per terra, col suo aspide che scappavia. Cariiino… Forse mai sono trasudate da un film americano zaffate così violente di caldo, fatica, stanchezza, sabbia, polvere, occhiaie, sudore, sete, odor di piedi. Gli attori sono tutti brutti. Non un bell’uomo fra tanti guerrieri, non una bella donna fra tante baiadere. Orrendi, sporchi, mal truccati, con il rimmel che cola, vestiti in maniere ridicole, recitano confusi, stravolti, disfatti dalla spossatezza, si muovono avanti e indietro come a Caracalla, non sanno mai dove guardare. A cominciare dalla Taylor: sempre sudata, disordinata, non lavata, cenciosa, unta, grassa, vestita di scampoli comprati a qualche liquidazione di fondi di magazzino tipo Klein o Bloomingdale’s. Nei reparti dei tessuti d’arredamento, però: mai d’abbigliamento. Lei cambierà sessanta abiti, sempre tipo camicia da notte con vestaglietta estiva sopra, a mezze maniche, e il suo corpetto ricamato ad aspidi fin dai tempi di Cesare. Ma in realtà ha sempre addosso un pezzo di tenda, una fodera di poltrona, un cuscino scompagnato, una spugna da bagno, un tappetino da automobile. Ogni tanto s’appunta uno scampolo di lamé alla vestaglia, o inalbera un en–tête da Carmen Miranda o Yma Sumac, con gli ananas; o un feltro da concorso ippico sopra un prendisole d’imprimé nero a stelle marine, di raion. Ma di solito rimane sul bottone di madreperla e le collanine di conchiglie comprate dal tabaccaio a Torvaianica. Anche qui, il fatto che sia così vistosamente ebrea riesce imbarazzante: come vedere Mosè interpretato da un egiziano, come le Aide giapponesi o le Traviate etìopi.
Ne vien fuori così, invece di una regina tolemaica, il personaggio di un’anziana chiromante mitteleuropea, eccessivamente grassa, di quelle ordinarie che non si lavano fino alle sette del pomeriggio, e girano per la casa spettinate in camicia da notte, golose, mangiando cioccolatini e succhiandosi le dita e pulendosele nel didietro della vestaglia. Se è male illuminata, la si può scambiare per la Folle de Chaillot; e quando vuol diventare regina, dice a Rex Harrison «make me a queen» con meno aplomb di quando Ethel Merman muggiva «call me madam».
Si sbaglierebbe però a credere che Cleopatra possa essere l’ultimo film di una vamp. E in realtà il primo di una nuova carriera trionfale, se il cinema e il teatro vanno avanti come promettono, con ninfomani ubriacone di Tennessee Williams, vecchie drogate di O’Neill, zie disfatte di Lillian Heilman, madri ingorde di Albee e Shaffer e Moravia, vedove oscene di Kopit. Senza contare il ruolo già lì pronto di Erodiade in una Salomè diretta da Visconti… Eppure, pochi anni dopo, nel tardo ‘67, quale indimenticabile arrivo delle ultime Dive – Liz Taylor e Grace Kelly – all’estremo Gran Ballo del Settecento Veneziano, a Ca’ Rezzonico, in adeguati costumi e acconce maschere. Piovigginava parecchio, sull’avvento di centinaia di lance e gondole festive all’unico sbarcadero. Fra imprecazioni di scafisti e gondolieri irriferibili. (Si contemplavano le risse o resse abbigliati da mendicanti rococò, incantati, sulla balconata. All’interno, Tomaso Buzzi andava schizzando col pennarello i convitati e le tavolate agghindatissime).
Ma le due divine si reggevano intrepide in piedi per le entrées davanti ai fotografi, sotto le cotonature parigine altissime del famoso Alexandre, accanto ai consorti acquattati. E poi, da vicino, quelle due celebri paia d’occhi apparvero assolutamente memorabili.