LA BELLA FUORI USO
Quando la favolosa Belle Livingstone è morta nell’inverno 1957, in un seminterrato di New York, che lei chiamava «una stamberga da topi», era oramai una vecchia di ottantadue anni, grassissima, sfasciata, carica di ricciolini bianchi e di ricordi tragici o allegri, in miseria quantunque le fossero sempre passate fra le mani somme enormi, e ancora con un po’ della vitalità di un tempo. Si sapeva che negli ultimi anni aveva provato a pasticciare un libro di memorie al quale nessuno credeva; ma adesso che il libro è fuori (e forse gireranno un film a Hollywood), con un successo enorme che non può più giovare alla «vecchia ragazza», ci si accorge che non si era solamente accontentata di passare come protagonista attraverso i decenni più incredibili dei tempi moderni – la New York degli sfrenati anni 1890, pazza per il vaudeville, la Londra del principe Edoardo, l’epoca d’oro di Montecarlo, le prime crociere in Oriente, e tutta l’èra del proibizionismo – ma li ha attraversati con gli occhi bene aperti; e soprattutto li sa raccontare con una verve indiavolata.
Queste memorie, intitolate Belle Out of Order, sono scritte con un gusto troppo vero per sospettare che qualcuno le abbia dato una mano: tutt’al più si sa che negli ultimi tempi un’amica le aveva chiesto: «Belle, ci metti dentro tante porcherie?», «Sta’ a sentire, tu,» aveva risposto lei «io scrivo per gente che le sa, le cose, e non ha bisogno che gliele insegni io». E così è andata a finire che dalle mani di una «vecchia cattiva ragazza» con una carriera davvero straordinaria, prima come «bellezza professionale», e più tardi come tenutaria di speakeasies, è venuto fuori un libro di grande divertimento, di grande interesse per la storia sociale di un cinquantennio, e non un libro indecente.
Belle aveva sempre detto di se stessa: «Io sono come Mosè; non sono nata; mi hanno salvata dalle acque». Ha sei mesi quando infatti un brav’uomo del Kansas la trova abbandonata sulla riva di un fosso, se la porta a casa, la alleva con una certa cura; e ha diciassette anni quando scappa dalla casa di questi genitori adottivi, per andare a fare la ballerina con una compagnia di guitti. Il padre adottivo, che era proprio un brav’uomo, le corre dietro per fiere e mercati del Michigan; e quando finalmente la trova, sulle scale di un albergo un po’ lercio, la prima cosa che lei fa è di correre vicino al primo tipo che passa di lì (era un viaggiatore di commercio, e si chiamava Richard Wherry) e gli chiede «mi offre una aranciata?»; lui gliela offre; e la seconda cosa che gli chiede, un minuto dopo (neanche finita l’aranciata), è «ci sposiamo stasera?». Il viaggiatore dice di sì anche stavolta, il padre non può più dir niente: loro due effettivamente si sposano la sera stessa, e subito dopo lei riparte da sola e non si vedono più.
Non era gran che bella in volto; però aveva un corpo magnifico, e una vivacità straordinaria. Passa poco tempo, e già tutti parlano delle sue «gambe poetiche» in calze rosa, l’impresario Barnum le offre un contratto per mille dollari alla settimana; appena arriva a New York per fare del vaudeville è un grande successo, la chiamano «la Bella di Manhattan», «il più bel corpo della sua generazione», diventa popolarissima, e continua ad andare molto in giro.
Negli anni più brillanti della vita notturna di New York, quando veramente le ragazzine saltavano fuori in reggipetto e puntino da grosse torte portate in tavola alla fine dei pranzi per signori soli, Belle diventa la regina di tutte le feste dove gli uomini politici importanti, i grandi avvocati, i più grossi industriali, arrivano in frac lasciando regolarmente a casa le mogli (perchè, come diceva lei con comprensione, potranno avere tutte le perle vere che vogliono, però non sanno nè pettinarsi nè amare).
Theodore Roosevelt, che era un ricco giovanotto appena rientrato dalla campagna, le capitava in casa molto volentieri, e si sdebitava regalandole porcellane meravigliose. Il ricchissimo «Diamond» Jim Brady le faceva organizzare cene di mezzanotte dove lo champagne doveva scorrere. E lei, molto saggiamente, ragionava: «Viviamo in un’epoca di matrimoni combinati e di convenienza. Questi poveri mariti stanno in casa come in una caserma e non vedono l’ora di prendere una boccata d’aria fuori. Ma la cortigiana e l’amante sono due tipi lontani fra di loro come il Polo Nord e il Polo Sud. Qualunque donna riesce a fare l’amante, con poca fatica; non ci vuol niente. Però cortigiana si nasce: ci vuole vocazione, eleganza, spirito; bisogna saper trattare con l’uomo e col soldo. E poi la vera differenza è che la cortigiana vive sul suo, non diventa mai un oggetto di possesso personale: gli uomini che la mantengono si sentiranno sempre ospiti quando sono da lei, mai padroni di casa».
Ma il vero paradiso della cortigiana negli ultimi anni del secolo era naturalmente Parigi. Basta aver visto Gigi al cinema per sapere tutto. Oppure Londra, dove il principe di Galles, agitando la barba fra champagne e sottane, dava per sempre il nome di «età edoardiana» al lato inglese della «Belle Epoque». Le ragazze americane piovevano in Europa a centinaia, tutte un po’ folli. E a questo punto anche a Belle viene una gran voglia di fare un giro in Europa, dove i lord e i principi stanno sposando a tutto spiano le ballerine californiane in tournèe e i nobilastri senza un soldo sposano invece le ereditiere di Boston e Baltimora.
«Capitava a tutte le ballerine,» racconta Belle «e per capire quando arrivava il momento, bastava osservare quando veniva fuori il manuale di belle maniere; appena si vedeva una ragazza della compagnia darsi da fare con le posate per imparare a stare a tavola, era fatta: c’era un lord dietro la porta».
Ma a Manhattan lei era una regina; e anche senza aver mai letto Henry James sapeva bene che nel Vecchio Continente la ragazza americana che vuol far colpo deve sbarcare con una certa grandiosità. Non ha ancora finito di esprimere il desiderio, e le arriva la lettera di un notaio: il buon Richard Wherry, il marito di cui non aveva saputo più niente dopo la sera del matrimonio, è morto lasciandole centocinquantamila dollari netti. Poche settimane più tardi, dopo un ricevimento indimenticabile d’addio offerto da «Diamond» Jim Brady, e dove vengono per salutarla mezzo Congresso e quasi tutta la Borsa Valori di New York, la Bella di Manhattan parte, con tutta la grandiosità che ci vuole. Arriva a Parigi: «Lungo gli Champs–Elysées, sulle loro splendenti vittorie, passavano queste affascinanti bellezze, coperte di pizzi e di piume, muovendo nuvole di profumo» dice lei; ma capisce subito la lezione: «Il giorno dopo, avevo più pizzi e più piume e più profumi di tutte loro». Le signore parigine la battezzano subito «la donna più pericolosa della città», assegni e gioielli piovono da tutte le parti, Belle stravince, e a questo punto è matura per Londra.
Vedersi e capirsi subito, per lei e il principe di Galles, è la stessa cosa: diventano inseparabili, si raccontano tante storie, vanno insieme dappertutto, lei sa bene come farlo ridere. Poi la regina Vittoria muore, e il principe le succede sul trono. Lui le aveva sempre detto: «Belle, tu non hai bisogno di una corona, perchè cammini a testa alta anche senza»; la vigilia dell’incoronazione, le manda una squadra di addobbatori a coprirle di fiori la facciata della casa, e ricorderà per sempre lo scherzo che lei aveva l’abitudine di fargli: il principe prendeva in mano una coppa di champagne, la sollevava in alto, più in alto che poteva, magari sollevandosi in punta di piedi, ma non era mai abbastanza in alto per lei, che riusciva in ogni caso, alzando la gamba come se facesse una spaccata, a portargliela via di mano con un colpo di tacco. «Il vero spirito americano!» gridavano tutti. Reggimenti di gentiluomini la inseguivano, isolati o in gruppi, le facevano la corte, la invitavano nei loro castelli, tanto che a un certo punto, da americana con la testa sulle spalle, lei si domandava: «Ma cosa succede? Sono poi io che sto salendo, o sono loro che vengono giù?».
E poi ricomincia a viaggiare e a sposarsi. Per parecchi anni non aveva più pensato al matrimonio «perchè tanto mi divertivo lo stesso, e ricevevo tanti regali senza sciupare energie».
Arrivavano sempre più abbondanti gioielli, abiti di Parigi, assegni di migliaia di dollari da gettare in qualche casinò della Riviera: era una pessima giocatrice, ha sempre perso tutto, mai vinto una volta, ma lei ai soldi non ci pensava: la prima cosa era divertirsi. Una delle sue scommesse più celebri è stata del resto quella di fare il giro del mondo con solo cinque dollari, e sempre nel lusso.
Scommessa vinta: un grosso industriale di conserve comincia a portarla a cercare turchesi nell’Arabia Deserta «con 85 magnifici cappellini e una cameriera sola»; in Egitto, il suo vecchio amico (però solo platonico, fa notare lei) Lord Kitchener la porta in gita a Khartoum e le fornisce uno yacht per andare avanti; poi va a caccia di elefanti nelle foreste di Ceylon; e quando arriva in Giappone, trova un giovane conte italiano che le propone di sposarlo (lei lo chiama Fiorentino Ghiberti Laltazzi, ma è sempre molto imprecisa con tutti i nomi che cita).
Belle telegrafa subito a Londra: «Non solo ho i soldi per finire il viaggio, ma anche una proposta di matrimonio». Ri sposta immediata: «Hai vinto. Prendi i soldi e l’uomo». Ma lei fa appena in tempo a passare una breve luna di miele a Yokohama, tornare a Londra, mettere al mondo una figlia, e le muore subito anche questo marito.
Il terzo è stato un banchiere di Cleveland, mezzo tedesco, da cui non ha avuto altro che un figlio e un divorzio; e il quarto, un altro banchiere, però inglese stavolta. Va benissimo per qualche anno, finchè un bel giorno molto quietamente lui le dice: «Belle, non abbiamo più un soldo: li hai spesi tutti». E altrettanto quietamente, lei lo pianta.
Ma intanto erano passati parecchi anni. La parola «cortigiana» sembrava oramai non meno anacronistica che «etèra» o «cercatore d’oro»: Belle aveva una cinquantina d’anni, era ingrassata, le tasche erano vuote, e gli uomini non lasciavano più cadere il monocolo quando la vedevano. Dopo essere arrivata a dormire sotto i ponti del Tamigi con i vagabondi, che, dice lei, sono bravissima gente, prende finalmente una nave e torna in patria. Quando arriva è la fine del 1927, e le rimangono in tutto due dollari nella borsetta.
«Non avevo più la mia bella figura, non avevo la protezione di un marito ricco» dice. «Non avevo più niente; ma c’era sempre il vecchio spiritaccio».
La grande trovata che rimette Belle Livingstone a galla, e per la quarta o quinta volta le rimette in mano una fortuna non meno cospicua delle precedenti (e liquidata altrettanto in fretta), è stata quella di aprire gli speakeasies chic. Sono gli anni più duri del proibizionismo; la gente è pronta a tutto, a spendere somme enormi pur di procurarsi una bottiglia di orribile whisky di contrabbando fatto probabilmente col petrolio. «Perché, poveretti, dopo aver speso tanto per un bicchierino, devono per forza berselo in una cantina lurida, in un seminterrato schifoso pieno di topi e di cimici, invece che in un localino grazioso e accogliente?» si chiede Belle; e in poche settimane trova i capitali, e comincia ad aprirne quattro (che poi aumentano).
Li gestisce sempre lei, direttamente, con risultati disastrosi perchè come amministratrice è una pazza; ma non si può dire che la gente non si diverta. Le sue intenzioni sono proprio queste: «Rendere graziosa e civile come in Europa l’arte del bere, che in America è solo grossolana e volgare», e avere come clientela «il meglio della città, perchè dopo mezzanotte facciano il peggio». E tutta la gente migliore della città affolla i suoi locali, arredati con «bizzarrie del Vecchio Continente», ottima musica, e lei sempre in moto con file di perle, stole di pelliccia, sciarpe, veli. Non di rado le capita di avere, fra i suoi distìnti ospiti, un Rockefeller in una stanza e Al Capone nella stanza vicina; e in questo caso, invece dei soliti venticinque o trenta dollari per bottiglia, mette fuori dei conti di mille dollari per volta, serenamente e imparzialmente, a tutti e due. Tutte le volte che la polizia capita dentro a fare una retata, gli agenti si mettono un garofano rosso all’occhiello della divisa prima di entrare.
Una sera però deve essere successo qualche cosa di grave, perchè portano via tutti, compresa lei che scappava per i tetti con un pigiama di raso scarlatto, e la tengono per un mese in galera a Harlem, mettendola assieme alle prostitute «perchè pensavano che mi sarei trovata meglio». Sono stati necessari comunque una legge fatta apposta per lei (il Volstead Act) e l’inizio del New Deal, con un generale cambiamento di umori, per frenare tutte le sue attività e i suoi entusiasmi.
Quando viene fuori, sta finendo tutto. Le restano più di venticinque anni da campare ancora, ma dei quattro mariti, dei due figli, dei «tanti amici interessanti», del mare di soldi buttato via, non le rimane più niente. Belle Livingstone invecchia ripensando agli anni favolosi, ma nessuno vuol sentir parlare dei suoi ricordi, perchè i tempi sono cambiati, per qualche anno il proibizionismo non interessa più, e non è più neanche come all’epoca di Mamita e di Tante Alicia, la nonna e la zia di Gigi\ la sua esperienza non può servire a nessuno, e nessuno crede che la «vecchia cattiva ragazza» sia capace di tenere la penna in mano.
Nel suo seminterrato di Manhattan, la vecchia pasticciona rimasta sola si dà da fare per anni davanti ai fogli di carta, e un giorno comincia a scrivere: «Dai tempi della lampada a petrolio a quelli delle luci al neon, posso dire di aver avuto l’onore o, se preferite, il disonore – di conoscere e trattare intimamente quasi tutte le più famose cortigiane mie coetanee. Sono ancora una delle poche in grado di esprimere ammirazione per i drammi vissuti da quelle donne eleganti e spiritose perchè racconto una esperienza che è stata anche la mia; ma oggi, quando vedo queste tribù di Circi dilettanti e stupidine in tutte le città d’America, pronte a fare di tutto per un paio di calze di nylon o per un pasto da tre dollari, mi viene la malinconia e vorrei morire: che queste poverette non si mettano in mente per carità di sapere che cosa è una “vera” cortigiana. Ma purtroppo la vera cortigiana è una specie estinta, come il bufalo delle praterie…».