MARSHALL MCLUHAN
Nel mondo culturale anglosassone oggi non pare che esista un nome più popolare e citato di Marshall McLuhan: traboccante nel giornalismo alla moda e nella conversazione à la page, in una vasta competizione fra «promotion» pubblicitaria ed «escalation» accademica. Ma un enciclopedismo così ilare e torrenziale e ingordo andrebbe ora avvicinato con cautela, può richiamare in mente Papini: tutta questa letizia non avrà per mira la santità?
Le sue idee sono ormai notissime, sulle ali di slogan fortunati come «il mezzo è il messaggio» (e anche «il massaggio»). I mezzi elettrici, prima di tutti la televisione, trasformano gli individui e il mondo e la cultura. Gli individui sviluppano una quantità di «sensi» nuovissimi: facoltà percettive simultanee che funzionano come prolungamenti degli organi fisiologici. Dunque il mondo ridiventa un villaggio forestale e tribale dove tutti gli abitanti partecipano a qualunque fenomeno mediante questo sensorio complesso. E di conseguenza, la cultura abbandona i suoi connotati tradizionalmente «tipografici» – lineari, frammentari, uniformi, ripetibili, tipicamente «successivi» – per assumere un aspetto organicamente istantaneo, simultaneo.
Infatti, a differenza di ogni tecnica «meccanica» precedente, i mezzi elettronici hanno «esteso» le possibilità del sistema nervoso centrale in un «abbraccio globale» di vastità sconosciute alla «cultura alfabetica» dell’èra Gutenberg. Ma questi mezzi non si limitano a funzionare come «prolungamenti» passivi e servizievoli del sistema nervoso o degli organi sensoriali. Se la tecnica diventa «fisiologica», la fisiologia e anche la psicologia verranno reciprocamente influenzate dalla tecnica; e i «media» non saranno più affatto «neutrali».
Ecco la tesi centrale di McLuhan: i «media» costituiscono un’industria che trasporta informazioni. Ma il «contenuto» di un mezzo di comunicazione è il mezzo stesso: «messaggio» e «massaggio» nello stesso momento. Olé.
Poi gli argomenti proliferano e si sdanno: a partire dalla celebre e inutile differenza fra mezzi caldi (come la radio e il cinema) e mezzi freddi (come il telefono e la televisione). I mezzi caldi dànno tante informazioni, e quindi richiedono uno scarso grado di «partecipazione e completamento» da parte del pubblico.
I freddi, il contrario. (Per i più giovani, però cool significa hot). E in Understanding Media vengono in seguito capitoli e capitoli d’analisi dei mezzi più vari: dagli alloggi ai fumetti, dagli orologi alle biciclette, dalla pubblicità al grammofono. Però, neanche un paragrafino sul teatro: come si permette?
McLuhan mette le mani avanti. Avverte che queste «estensioni dell’uomo» non avvengono tanto al livello delle opinioni e dei concetti. Piuttosto, agiranno alternando senza parere le forme e i modi della percezione. Per esempio: avvolgendo in una maglia sensitiva foltissima gli spettatori della televisione, indipendentemente dal programma che guardano. (Però: qui non si capisce davvero la faccenda della radio che infiamma, come la fotografia, mentre la televisione raffredderebbe, come la conversazione. Forse c’è qualche svista: il «villaggio globale» non prevede le discussioni calcistiche davanti alla tv nei bar sport?). Ma poi, grandi lodi della tradizione «orale», di un modo di pensare e di esprimersi contestuale e concentrico.
«Il pensiero ebraico e orientale affronta problemi e soluzioni all’inizio di una discussione, nel modo tipico delle società orali. Dopo di che l’intero messaggio è più volte ripetuto sui cerchi di una spirale concentrica e con apparente ridondanza.
Se si è preparati a “capirlo”, subito dopo le primissime frasi ci si può fermare ovunque si voglia e ottenere ugualmente il messaggio nella sua totalità. Può essere stato questo metodo a ispirare F.L. Wright quando progettò il museo Guggenheim su una base a spirale e concentrica. E una forma inevitabile nell’èra elettrica, nella quale lo schema concentrico è imposto dalla qualità istantanea della velocità elettrica. Il concentrico, con la sua infinita intersezione di piani, è infatti necessario all’approfondimento della conoscenza». (Qui, semmai, andrebbe osservato che il museo Guggenheim è chiaramente costruito in base al principio del «minimo sforzo, massimo rendimento».
Infatti, si sale in ascensore fino in cima: questo è l’unico intervento dell’elettricità. Dall’alto, si scende a piedi guardando i quadri lungo un dolce declivio. Ma se si fa solo una metà dei giri della spirale, si vede solo una metà dei quadri. Come se si appendono vari televisori. E nelle retrospettive affollate non si percepisce nè approfondisce molto).
«Ogni invenzione o tecnologia» ripete McLuhan «è un’estensione o un’autoamputazione del nostro corpo, che impone nuovi rapporti o nuovi equilibri tra gli altri organi e le altre estensioni del corpo». Dunque, riassumendo: da un lato, una cultura «alfabetica» mutilata e frammentata, disintegrata in uno sfaldamento di «dissociazioni della sensibilità» (usando l’espressione di Eliot in un senso che a Eliot ripugnerebbe). Dall’altro, contrapposta, una cultura «elettronica» tutta unificazione dei sensi e sviluppo del cervello.
Però, queste sensazioni, McLuhan ce le «comunica» mediante un «mezzo» che è pur sempre alfabetico e frammentario, ancorché alla sua strana maniera. E se sia caldo o freddo, non si capisce: però si vede bene che non ha affatto una struttura «spirale e concentrica». Certamente il suo volume è «più volte ripetuto» in ogni sua parte: ma secondo uno svolgimento lineare che suggerisce talune pratiche dei tempi andati. La «confettura dello scapolo», per esempio: ottenuta versando la frutta successiva delle quattro stagioni in una medesima albanella di vetro piena d’alcol al sole. Oppure, il «patchwork»: cioè quei mosaici di brandelli di stoffe preziose o triviali cuciti insieme con tutti gli avanzi di casa dalle nubili sfaccendate fino a ottenere coperte e tende: e magari il tappeto «pezzotto» della Valtellina.
Si capisce, il paragone più degno e cortese ricondurrebbe al «centone da monaco medioevale»: la compilazione dotta ed eclettica – per definizione, «smisurata» – che accumula vanvere e ambagi da proporre alla degustazione dei Manganelli non ancora nati. Ma la smania da palinsesto può riuscire altrettanto frivola e vagamente «camp» che la debolezza per i paraventi a collages, vittoriani e «spiritosi». E alla fin fine, paravento per paravento, collage per collage, il super–collage di McLuhan più che un Trionfo dell’Elettricità potrebbe apparire come una réclame della Coccoina.
Understanding Media. The Extensions of Man (ovvero Gli strumenti del comunicare), così farraginoso e tedioso come strumento di divulgazione scientifica, diventa piuttosto attraente come documento d’autobiografia abbandonata e vulnerabile. Così come gli arredamenti e le suppellettili nelle regge di Re Faruk non raccontano certo una Storia del Gusto, ma il carattere di un personaggio.
Da questo autoritratto, vien dunque fuori un professore scolastico e «spregiudicato», con il «complesso» dell’Eco della Stampa, e l’ideale inconfessato di fare un «Reader’s Digest» tutto da solo. Con quale verve puntigliosa cita la fonte e la data dei più irrilevanti articoli di quotidiano, delle più banali interviste, dei dispacci Reuters, dei cataloghi di Sears Roebuck! (Neanche Mike Bongiorno mette i puntini sulle «i» con una cordialità così ferma, quando si tratta di correggere le risposte poco esatte a un indovinello)… Ma anche, con quale signorile nonchalance butta là i nomi mescolati di Joyce e Kennedy, Le Corbusier e Peter Sellers, Lumumba e Perry Como, Pio XII e Jack Paar, Hitler e Marilyn Monroe, Agatha Christie ed Elias Canetti, Bertrand Russell e il motto «panem et circenses», Stravinsky e Bartók e reporters o specialisti chiamati Tobias Dantzig, Edith Efron, Ted Szulc… Cita con uguale reverenza «Life» e Giulio Cesare, Bergson, Mumford, «tv Guide». Sa tutto sui fumetti. Non ignora nulla delle automobili. Non gli sfugge una tappezzeria o un volantino. Tesoreggia e accumula tutto con la stessa seriosità ponderosa. Nei momenti di «pausa che ristora», sfarfalla tra una disinvoltura Acli e un umorismo Fuci. Credo che non sussista più un dubbio: questo è finalmente il Libro sognato (e forse scritto) da Bouvard e Pécuchet.