ERNEST HEMINGWAY

Immaginiamo scioccamente Giacomo Leopardi a sessantanni, fra Napoli e Recanati, nell’atto di illustrare ad uso dei futuri Momigliano e Flora i luoghi e le circostanze delle sue riuscite poetiche più alte e più serie: dunque, questa è la torre antica sotto la quale passavo due volte al giorno, e certi giorni anche tre; ecco il colle dell’Infinito, un po’ meno ermo perchè ci passa la nuova strada carrozzabile; qui abitava Silvia che si chiamava in realtà Teresina, e aveva un papà magro e una mamma grassa; eravamo tutti molto più giovani e molto più tristi, ci si annoiava molto e si soffriva e ci si lamentava e la domenica era il giorno più infelice della settimana. E se non basta, immaginiamo pure D’Annunzio diventato in tarda età l’Orio Vergani di se stesso; Rossini uscito da quarant’anni di silenzio per comporre non la Petite messe solennelle ma. un rifacimento della Cambiale di matrimonio; magari Joséphine Baker che si ri–infila le banane del ‘25 per eseguire alla televisione «J’ai deux amours / mon pays et Paris…».

Sono immagini passabilmente macabre, però anche le prime che si associano alla lettura di A Moveable Feast, l’inedito di Hemingway che non è romanzo e in fondo non è libro di memorie e forse non è neanche festa e non è mobile, se non «qual piuma al vento»: ma dà la sensazione prima di tutto di una «visite guidée» attraverso fatti e luoghi resi già noti fino allo stordimento dalla pubblicistica e dalla divulgazione.

Siamo nella Parigi della celebre «generazione perduta», inventariata e canonizzata non meno della Grande Galleria del Louvre. Arriva un pullman carico di studentesse di high school, che hanno certo studiato Hemingway a scuola insieme agli altri classici, da Melville a Salinger, però forse in cuor loro si sentono indifferenti a tutte quelle corse dietro guerre e corride, leoni e pescispada, oggi tutto sommato datate e ridicole come i baffetti di Adolphe Menjou, rispetto ai problemi più gravi e più seri dellavita di tutti i giorni. Le più sveglie avranno visto magari in volumi ormai ingialliti certi saggi intitolati Hemingway in the Early 1950’s dove per esempio Philip Rahv constata i «danni irreversibili» sofferti dalla leggenda hemingwayana per i suoi eccessi di «clamorosa autocommiserazione e anche più clamorosa presunzione» che rivelano «gravi difetti di personalità, immaturità morale e intellettuale»: specialmente quando il narratore tende a confondersi emotivamente col suo protagonista, e allora perde ogni capacità autocritica e diventa «fatuo o sdolcinato» (Edmund Wilson). Una volta perduta la distinzione «fra uomo e artista», il fiducioso abbandono a miti e totem fondamentalmente infantili finisce per esporre crudamente la sostanziale incapacità di concepire «un amore adulto, un coraggio adulto, un impegno adulto, contro cui se è necessario ci si possa almeno rivoltare con dignità» (Leslie Fiedler).

Le più indietro saranno almeno al corrente della romantica leggenda per cui alcuni decenni fa c’erano diversi giovani americani che andavano all’estero non come turisti, o come funzionari governativi, o come borsisti di fondazioni, ma come Esuli: e tutte le volte che si ubriacavano a Parigi o facevano un bagno a Juan–les–Pins non lo vedevano come un atto concepibile anche a Detroit o a Palm Beach ma essenzialmente come un gesto di Rivolta, o almeno di Ricerca, o per male che andasse di Esperienza. Ricerca magari del senso ultimo della vita, del mondo, e in ultima analisi di se stessi. Esperienza, curiosamente, il più dissimile possibile dalla «comune esperienza»: perchè i lettori della narrativa d’allora gradivano una finestra aperta su avventure esotiche – evasioni, sì – e non uno specchio omologante che riflettesse le proprie realtà quotidiane.

Una guida patentata si mette a disposizione del pullman di studentesse; e racconta. Rapido, facile, sentimentale, quasi affascinante.

Racconta episodi in gran parte noti, aneddoti di cui si sono già sentite precedenti versioni, o addirittura già registrati nell’Encyclopaedia Britannica. Ma il «tono» è assai gradevole, autentico di quarant’anni fa, come le fotografie di Lady Mendl pettinata à la garçonne e i dischi di Bricktop a 78 giri venduti da lei stessa nel suo localino di via Veneto.

Le studentesse sono molto contente. Ce n’è per tutte. Comincia: «Allora ci fu il brutto tempo»; ma ci si accorge subito che dice così per dire. E la normale clausola d’inizio di tutta la narrativa d’azione: «Allora cominciammo la salita», «Allora vedemmo il vecchio per la prima volta», «Fu allora che sentimmo i cani».

Dopo, infatti, diventa subito tutto bello: «Non c’è mai una fine a Parigi», come dice il titolo dell’ultimo capitolo, pienamente d’accordo con le canzoni di Cole Porter e la copertina della Guida Michelin. «Era un piacevole caffè, tiepido e pulito e amichevole»… «Era chiaro e freddo e piacevole»… «Era meraviglioso camminare giù per le scale sapendo che mi era andata bene con il lavoro»… «Noi guardammo, e lì c’era tutto: il nostro fiume e la nostra città e l’isola della nostra città»… «Come siamo fortunati ad aver trovato questo bel posto!»… Tutte contente, le ragazze. A partire da quelle che leggono di solito i giornaletti di «romance»: e li vogliono ottimisti, sentimentali, digestivi, «cosy».

«Una parte di noi moriva ogni anno quando le foglie cadevano dagli alberi e i loro rami erano nudi contro il vento e la fredda luce invernale. Ma si sapeva che sarebbe sempre venuta la primavera, come si sapeva che il fiume avrebbe ricominciato a scorrere dopo il gelo… «Le stanze erano grandi e comode con grosse stufe, grosse finestre e grossi letti con buone lenzuola e trapunte di piuma.

I pasti erano semplici ed eccellenti e la sala da pranzo e il bar foderato di legno erano ben riscaldati e amichevoli. La valle era larga e aperta, così c’era un bel sole… «Ma Parigi era una città molto vecchia e noi eravamo molto giovani e niente era semplice là, neanche la povertà, nè il denaro improvviso, nè il chiaro di luna, nè il giusto e lo sbagliato, nè il respiro di qualcuno che giace al vostro fianco nel chiaro di luna»… Contente anche le ragazze che non perdono neanche un film di Audrey Hepburn, e i loro sottoprodotti tipo Il mio amore con Samantha (A New Kind of Love): sempre con lui e lei a Parigi, fra tanti venditori di fiori e di croissants, e lui che scrive in una soffitta oppure al caffè, e ha sempre un amico grasso con la voce chioccia, e quando esce è amico di tutti, dei bouquinistes e dei camerieri, anche della vecchina con le violette e del pensionato con il basco e i baffetti e il filone lungo di pane; e quando incontra una ragazza volgare le tiene testa disinvolto e magari rude, però tutta questa disinvoltura e rudezza sono impiegate per riuscire a non dormirle insieme, a tirarsi indietro «clean–cut» come prima, in omaggio ai princìpi monogamici della Mamma Americana. Qui le ragazze riconoscono perfino il dialogo: «Camminiamo giù per la rue de Seine e guardiamo in tutte le vetrine e in tutte le gallerie».

«Sì, sì. Possiamo camminare dappertutto e fermarci in qualche nuovo caffè dove non si conosce nessuno e nessuno ci conosce e lì prendere un drink».

«Possiamo prendere due drinks».

(Stacco. Qui viene inquadrato un tipico caratterista «gallico» che ripete «oh–là–là»).

«Poi possiamo mangiare da qualche parte».

«No. Non dimenticare che dobbiamo pagare la biblioteca».

(Come sopra: «oh–là–là». Un paio di volte).

«Allora andremo a casa e mangeremo lì e faremo un buon pranzo e berremo del Beaune della cooperativa che puoi vedere appena fuori della finestra col prezzo del Beaune in vetrina.

E poi leggeremo e poi andremo a letto e faremo l’amore».

«E non ameremo mai nessun altro».

«No, mai».

«E prenderemo tutti i libri del mondo da leggere e quando viaggeremo ce li porteremo dietro».

(C.s.: «oh–là–là», per un piccolo coro di avventori).

Contente anche le ragazze che amano leggere Kristin figlia di Lavrans e Bibi una bimba del Nord: «Nel freddo della mattina, appena si faceva giorno, la cameriera entrava nella camera e chiudeva la finestra e accendeva il fuoco nella grossa stufa di porcellana. Così la stanza si faceva calda, e poi c’era una colazione con pane fresco o tostato e squisite conserve di frutta e grossi bricchi di caffè, uova fresche, e per chi lo voleva anche del buon prosciutto»… Quest’ultimo brano fa molto piacere anche a una ragazzina un po’ regressiva, che ha dodici anni ma rimpiange quando ne aveva cinque e vorrebbe sempre tornare indietro. C’è poi un intero capitolo che è la gioia di un’altra ragazzina che pensa soltanto alla pesca, ed è convinta che nella vita sia molto importante: questo capitolo è dedicato solo all’importanza e alla poeticità della pesca. Ed è contentissima anche una saccente antipatica, che è ancora in ginnasio ma ha già in mente la tesi di laurea, la vuol fare sulla Generazione Perduta, ma siccome in America se ne sono già discusse cinquecentomila, lei cerca almeno qualche episodietto nuovo o seminuovo tra le sue «fonti».

Qui lei legge subito le pagine sulla Stein; e trova poco. Su Sylvia Beach: niente. Su Pound: niente. Su Madox Ford, Pascin, Ernest Walsh, Evan Shipman, Wyndham Lewis: qualche incontro al caffè. Ma quando si arriva a Scott Fitzgerald, l’antipatia vien fuori. Prima, il racconto del viaggio di loro due a Lione per recuperare un’automobile, nel giugno del ‘25. E da una lettera di Fitzgerald alla Stein, pubblicata adesso, si sa che lui trovava Hemingway «a peach of a fellow and absolutely first–rate». Dal resoconto di Hemingway viene fuori invece un Fitzgerald lamentoso e maniaco, pieno di vanità infantili e di terrori ridicoli. Sull’episodio seguente si accanirà invece la pedante in possesso di qualche metodo formalistico del «New Criticism»: battezzandolo magari la Storia delle Quattro Ingenuità.

La prima è di Fitzgerald: invita Hemingway a colazione e gli racconta che la moglie sostiene che lui «non ne ha abbastanza» per soddisfare una donna. Hemingway propone di andar di là a guardare, e qui commette la sua prima ingenuità: per provare a Fitzgerald che «va benissimo», non trova di meglio che proporgli di andare al Louvre a controllare sull’organo maschile delle statue (senza riflettere che nelle statue è simbolico, mai realistico). Fitzgerald è ancora più ingenuo: ci va. Ma se non è malizia, il più ingenuo di tutti rimane Hemingway, che racconta ancora la storia e non spiega come «ce l’ha» lui.

Quando però le ragazze del pullman si accorgono che questa guida che le portava in giro per il set di An American in Paris altri non è se non Hemingway stesso, la loro sorpresa è pari almeno a quella del giovanotto di Sunset Boulevard quando si rende conto che lo chauffeur della diva franante è il celebre regista Erich von Stroheim. Ma la commozione dura poco, sono ragazze d’oggi esigenti e dure, senza cuore e invece sensibilissime a tutto quello che sa di «anacronistico» o di «immaturo». Se la guida è Hemingway, e ha aspettato tanto a impegnarsi in questo lavoro, ci si aspetta più da lui che da un altro. Fa un libro di ricordi? Benissimo, si pretende tanto come quando Churchill scrive i suoi. Così come non si va Chez Maxim’s per mangiare una minestrina e basta. E si rimane delusi quando ci si rende conto che la minestrina è tutto, e ci sono in questo libro meno cose che in una lettera di Fitzgerald, in un capitolo della Autobiografia di Alice Toklas, in una vecchia recensione di Edmund Wilson; o addirittura nelle due paginette appena uscite di Kenneth Tynan su «Playboy» di maggio, per raccontare un bizzarro incontro all’Avana fra Hemingway e Tennessee Williams, nel 1959. Williams, non si sa bene se fa apposta o no (comunque rischia molto), non fa altro che parlargli delle sue gite al mare con il torero Ordónez, l’unica persona cioè a cui Hemingway volesse bene negli ultimi anni: fino al punto di rimangiarsi i suoi vecchi giuramenti di non mettere più piede in Spagna finchè ci fosse Franco, pur di stargli vicino. («Molto simpatico, molto accessibile,» dice Williams «mi ha fatto perfino vedere le sue cogidas». «Le sue cosai» urla Hemingway. «Le ferite delle corna del toro,» va avanti Williams «ma naturalmente senza mai togliersi il costume da bagno»).

Lo stile, allora? È quello dei primi libri, certamente: un monumento alla congiunzione e, un accumulo di semplici frasi coordinate come in quella Bibbia tradotta in inglese trecentocinquant’anni fa che fornisce ai lettori anglosassoni di Hemingway un irripetibile «composto» di aggancio realistico più memoria ancestrale (e invece ribalta il lettore italiano in un piccolo mondo casalingo e anoressico e «traduttorese» dei nostri più stralunati e irreali anni Quaranta).

E si capisce che questo repêchage stilistico è la conseguenza di una reazione, lo spavento dopo il disastro critico di Across the River and in to the Trees, il romanzo veneziano del 1950 che sparava sinistramente in tutte le direzioni dando un’immagine abbastanza spossante del taedium vitae. Però scegliendo V accidia sbagliata: quella dei rotocalchi, di «Life»; neanche l’esasperata commedia di Beckett di fronte alle limitazioni di un mondo che è fatto tutto sommato soltanto di parole. Che senso hanno infatti, ci si può chiedere, le affermazioni e le negazioni della vita per uno che altro non fa se non abitare al Gòtti e mangiare da Cipriani e bere dei Martini e cacciare le anatre e commettere galanterie con alcune damine veneziane che poi non sono quelle vere che si conoscono ma evanescenti astrazioni di un maturo narcisista che finge di essere un colonnello dell’esercito americano essendo invece realmente una «star» della café society… Torna terribilmente fuori qui la confusione osservata tanti anni fa da Edmund Wilson fra autore e personaggio: frutto di mancato distacco critico; e tanto più pericolosa per lo scrittore intento a «costruire» il personaggio di se stesso. Il guaio degli scrittori, non solo di Hemingway, è che più mettono «se stessi» nei loro protagonisti, più li riducono (involontariamente, si capisce) a macchiette lamentevoli. Ora, se uno si sente macchietta, poco male: obiettivo raggiunto. Ma per uno che presume al tamente di sé, che trasferisce al personaggio fittizio le qualità che ritiene ammirevoli nel personaggio che ha costruito di se stesso, quando vien fuori la macchietta ugualmente, può giungere un colpo di dolore smisurato: specialmente quando ci si rende conto che i miti a cui ci si è aggrappati e sostenuti finora sono tutto sommato marginali e pittoreschi, e allora mezzi miti, o pseudo–miti. Come la caccia e la pesca dopo la corrida, uffa.

Il primo rimedio dopo l’impasse veneziana già era stato abile: The Old Man and the Sea non rischia nulla perchè sta attentissimo a nulla profferire nel campo delle emozioni adulte, di natura sessuale o sociale o psicologica. Aboliti i personaggi femminili, pietra d’inciampo abituale per Hemingway. Abolite anche le solite amicizie maschili che cadono sotto le Intimazioni di Omosessualità da parte di Leslie Fiedler contro la narrativa americana en bloc. Una trama che non si potrebbe immaginare più «sicura» e antisettica. E il tendone dell’allegoria che, volendo, arriva a ricoprire tutto. Stilisticamente? Bene. Quasi recuperata quella sublime secchezza che fu una «rivelazione» di tanto momento quarant’anni fa… E un «arnese» per gli editors del Minimalismo.

Ma qui le osservazioni sul Vecchio e il mare possono continuare trasferendosi sulla Festa mobile: in che misura l’imitazione di una trovata felice rasenta la maniera? Fino a che punto l’antica antiretorica diventa una nuova retorica? Cos’è che dà questo sapore di anacronismo e di riesumazione? Non sarà successo a Hemingway quello che càpita a più di una signora anziana, che verso i cinquant’anni si veste con broccati e velette, e tutti le dicono ma come stava bene a vent’anni con quei bei chemisiers semplici semplici, magari di rigatino… E lei arrivata ai sessanta ricomincia a mettersi gli stessi chemisiers di rigatino dei suoi vent’anni, ma chissà perchè non le stanno più tanto bene come prima?… L’eccesso di aggettivi come «buono», «carino», «grazioso», più frenetico che nelle «Piccole Poste» di «Grazia» e di «Amica» potrà poi atterrire o deprimere, magari. Cosa avrà avuto in mente quest’uomo? Non c’è più luogo o persona o oggetto in questo libro che non siano belli e buoni, carini e graziosi. La loro ripetizione martellante e ossessiva diventa invece tragica se si pensa che «carino» e «grazioso» sono le ultime parole di un uomo disperato. Così come le sequenze della piscina, nel film incompiuto di Marilyn Monroe, non sono niente: ma diventano improvvisamente strazianti se si riflette che sono gli ultimi strattoni di una creatura che sta per uccidersi.

America Amore
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