SAUL STEINBERG
Saul Steinberg era «un vero classico» nel portamento alto e cortese, e nell’abbigliamento: uno «stile Caraceni» addirittura stilizzato, nei ricevimenti a Roma o a New York. E un «tratto» sempre eccellente. «Come mi piace Gadda. Come avrei voluto conoscerlo». Ma lo legge in italiano? (gli si domandava).
E lui: «Ma certo, specialmente L’Adalgisa. Quando ero studente del Politecnico, a Milano negli anni Trenta, frequentavo soprattutto le sartine di Brera; e passavamo le sere di primavera passeggiando al Parco. Il dialetto milanese di Gadda è per me il linguaggio dell’amore». Eravamo davanti a un ascensore, uscendo da un party molto artistico sul West Side. Si avvicinò Jackie Kennedy, e lui le spiegò con grande entusiasmo chi fosse Gadda. (Lei si occupava di editoria, all’epoca).
A Roma veniva festeggiato, soprattutto come pittore (ci teneva moltissimo), da Luisa Spagnoli, deliziosa collezionista e amica, in compagnia di Paolo Milano e Toti Scialoja e Leo Castelli, sodali transatlantici. Ma sullo sfondo riapparivano ancora gli «anni di formazione» milanesi, con l’invenzione di un umorismo surreale e giovanile (fra Grosz, Novello e Klee) nelle vignette per il «Bertoldo» di Mosca e Guareschi e Carletto Manzoni. Fra mucche romantiche col fiore in bocca, vedovone mussoliniane con ombrelli come manganelli, gagà e gagarelle da Biffi Scala tipo «bagnino, sposta l’onda» e «barman, allungami un Davide», critiche cinematografiche di Pietrino Bian chi (con commenti di Bertolucci e Zavattini) e irresistibili elenchi di luoghi comuni giornalistici (tipo oggi con «aprire un tavolo» o «spezzare una lancia» o «il fil rouge»), per sputtanare con gli aggettivi e gli avverbi il conformismo più leccaculista di regime. Anni d’apprendistato decisivi: arrivando al «New Yorker», Steinberg era già pronto, con lo spirito e il design. Attrezzatissimo per quelle copertine (poi anche poster: la Galleria di Milano, la skyline di Manhattan…) dopo anni attentissimi tra l’Architettura e i Navigli e le gallerie e i cinema e i caffè. E il suo capolavoro, The Passport, del 1954, è anche un albo–campionario di architetture fantastiche: dalle Piazze San Marco smisurate e scervellate come aeroporti per ceffi gesticolanti alle Ville d’Este ristrutturate da Coppedè pasticceri per streghe di Hänsel e Gretel fino a certe Las Vegas come proliferazioni dementi di citazioni da Max Ernst, Richard Lindner, Picasso… L’imponente critico Harold Rosenberg, che gli dedicò i saggi di The De–Definition of Art, scrisse: «Personaggi come De Kooning e Steinberg hanno ridotto il gap che separa New York dalla Parigi del passato».
Tornava dalle nostre parti, ma per itinerari fra curiosità segrete.
Si scherzava una volta sulle cartoline: dalle città d’arte, mandare sempre la stazione ferroviaria! Dall’Oriente (Medio o Estremo), naturalmente un distributore di benzina… L’ultima arrivò da Ascona: per annunciare di aver gustato finalmente il «musso». Squisito. Ma senza allusioni mussoliniane rétro: il musso è un asino prelibato, pare.