J.D. SALINGER

Il celebre romanzo di Salinger, The Catcher in the Rye, è uscito in America una dozzina di anni fa e andava benissimo.

C’era dentro tutto. Un nipotino di Huck Finn come protagonista, ma senza navigare lungo un gran fiume, contro i vasti orizzonti di un gran mondo che sorge, un po’ Cinemascope; meno innocente, alle prese con problemi più gravi, curvato su se stesso, perchè dopo il Dottor Freud il coraggio e la gelosia, la carità e il compromesso, l’amore sessuale o l’orrore della morte sono irrimediabilmente più complicati che presso Mark Twain, e ormai ciascuno deve risolverseli da sé come se fosse la prima volta; non si sa mai fino a che punto funzionino i modelli offerti dalla società. Tanti totem e tabù, uno più indicativo dell’altro: il viaggio da Pencey College a New York e il grande albergo e le scritte oscene sui muri e lo spettacolo dei Lunt e la sala delle mummie al museo e l’uso della parola «vecchio» e il maestro bisessuale e la buona sorellina e il nascondiglio nel guardaroba, insistentemente suggeriti come simboli di esplorazione psicologica, società contemporanea comica e sinistra, odissea topografica e intanto sentimentale, immutabilità del passato, incomprensione fra generazioni, naturale bontà dell’infanzia, ovvia corruzione e stupidità del mondo adulto, cupidigia mortuaria, brusca frenata di fronte alla commozione con lacrima. Poi un efficacissimo «parlato» fra l’inventato e il mimetico, devota applicazione dei risultati migliori dell’Hem ingway «classico», annettendo anche il suo simpatico trucco di dividere sempre tutti non tanto in buoni o cattivi ma in amici e nemici, in «dritti» e «stupidi». E poi, i «vecchi», comunque.

Ne risulta sempre un gran bel giochino d’effetto, nè più nè meno che quando Nancy Mitford divide gli «in» dagli «out», e Norman Mailer lancia la suddivisione tra «hip» e «square».

Simili osservazioni andavo svolgendo parecchi anni fa nel primo saggio italiano sul romanzo, non ancora tradotto col titolo E giovane Holden, concludendo con qualche dubbio su una «cifra» stilistica affascinante ma così indifesa che basta un azzeccato pastiche di John Wain perchè non stia più in piedi o sembri diventata ridicola – e con una obiezione sulla «esagerata scaltrezza nell’offrire al consumatore d’oggi ingredienti e sapori talmente condizionati al suo gusto stagionale, da temere che domani potranno “datare” anche terribilmente (come certe carrozzerie d’automobili che ci sembrarono meravigliose soltanto l’anno della loro presentazione. E in seguito, vintage)».

Ma veramente per render giustizia a libri come questi bisognerebbe recensirli insieme al loro pubblico: come si fa con i film di Bergman, i romanzi di Moravia, e con ogni prodotto artistico indirizzato a destinatari specifici e tagliato sulla misura delle loro predilezioni. Non tutti gli autori condividono i propositi di Dickens che intendeva «esser letto a ogni piano della casa, dai saloni alle cucine» (come del resto Giuseppe Verdi e Guido Milanesi, solo che oggi non sembra più possibile, tra gli ombrelloni che hanno sorpassato in quantitativi e autorevolezze le portinerie d’una volta). Mozart invece scrive per una società elegante e Byron per adolescenti romantici, il padre Teilhard de Chardin per scienziati in crisi e Adriano Celentano per minorenni in disordine. E c’è poi chi nasce con la vocazione del bestseller. Quello però che sta succedendo dappertutto (e in America è cominciato da un pezzo) è che il bestseller ormai non può più assolutamente accontentare tutti; e i suoi lettori per tanti che siano tendono a configurarsi in un gruppo sociologico.

La massa che decide i successi, per esempio, non è già più costituita dalle signore borghesi pronte negli anni Trenta a identificarsi con Scarlett O’Hara (siamo circondati da Rosselle coetanee), e aggiornatissime oggi da noi a commuoversi su Micòl Finzi–Contini, ma coincide piuttosto come composizione numerica con gli studenti universitari e liceali, gli stessi all’origine del trionfo dei «paperbacks culturali» che raggiungono tirature enormi smerciando Burckhardt e Mallarmé a 95 cents in stazioni e drogherie. E questi ragazzi entusiasti, avidi di buona cultura possibilmente anche agevole, sono prontissimi ad adottare chi si presenti usando i loro stessi gerghi e falsetti.

Naturalmente hanno adorato subito Salinger, e il suo mito facile e astuto dell’infanzia che non finisce mai. Niente sesso, quindi, sostituito da un narcisismo senza limiti (e con l’aria che tira fra la gioventù americana va benissimo, sono passati secoli da quando Temple Drake in Sanctuary poteva anche sembrare un tipo non troppo infrequente di studentessa–scappa–da–casa), e da una quantità di tormenti didattico–sentimentali del genere «se la mia girl friend non ama sinceramente Cervantes, come sarà possibile andare insieme al tè danzante della scuola?». E in mezzo a tante incertezze mai che capiti a questo Telemaco moderno di incontrare un signor Leopold Bloom: nelle storie di Salinger compaiono solo dei Votini e dei Franti eterni, e tutt’al più una piccolissima Ifigenia di tre o quattro anni, ma fa solo un paio di gesti misteriosi e ingenui, e non sa dare al suo povero Oreste indicazioni contro l’esaurimento nervoso, la tipica «tragedia del nostro tempo» che ha sostituito le Furie o il Puritanesimo o la Belle Dame Sans Merci come nemico numero uno del Protagonista alla Moda.

Poi c’è il fatto dell’isolamento. Salinger da molti anni è il più inaccessibile dei numerosi letterati–eremiti americani che industriosamente costruiscono la propria leggenda mondana abitando lontani dal mondo, in trappe nei boschi o in celle di cemento in cima a montagne, non lasciandosi avvicinare da nessuno, nè tanto meno fotografare, e mai scendendo a valle o in città; coltivano religioni orientali con effetti pessimi, e a intervalli lunghissimi si compiacciono di vender caro un frammento di prosa all’«Harper’s Bazaar» più chic del momento. Noi naturalmente possiamo immaginare come riderebbero Dickens e Stendhal, Balzac e Dostoevskij; ma il pubblico americano ama ancora molto l’idea del «guru» nascosto nella sua tanina, che si prepara delle minestrine Zen, e intanto non perde una notizia pubblicitaria o mondana; senza telefono ma aggiornatissimo con la televisione, sfogliando rotocalchi dalla mattina alla sera, senza che mai nessuno consigli «esca, si distragga, veda un po’ di gente, le farà bene anche per la letteratura». Salinger fa in fretta a épater con poca spesa lasciando cadere i nomi di Lao Tze e Shankaracharya e Sri Ramakrishna; ma le citazioni parallele di Zsa Zsa Gabor e di Milton Berle, del senatore Dirksen e del dottor Hauser, della Magnani e del profumiere Charles of the Ritz, l’attenzione ai pettegolezzi e alle mode, ti pica di chi si immagina i parties delle sarte in città abitando in campagna, sono un segno per lo meno bizzarro che qui un saggio eremita sta scrivendo specialmente per un pubblico filistèo che per apprezzarlo deve per forza essere al corrente di tutte le deplorevoli sciocchezze che rendono la società moderna così inabitabile, condannando lo scrittore alla Trappa e i suoi personaggi al breakdown. Non che i buoni critici non se ne siano accorti. Mary McCarthy, Leslie Fiedler, Frank Kermode lo scrivono da tanto. Però il fatto più curioso è la coincidenza fra la pubblicazione dell’ultimo libro di Salinger, Franny and Zooey, il suo fantastico successo di vendite, un disastro critico quasi totale (e contemporaneamente i ritardati entusiasmi italiani per Il giovane Holden…).

Questo volume di duecento pagine stampate larghissime si compone di due storie, una corta (Franny) e una lunga (Zooey), già pubblicate anni fa sul «New Yorker»; di una presentazione da parte dell’autore di «queste due prime puntate critiche di una serie narrativa in corso su una famiglia di abitanti della New York del ventesimo secolo, i Glass»; di una dedica al direttore del «New Yorker», fatta «in uno spirito il più possibile prossimo a quello di Matthew Salinger, di anni uno, quando insiste nell’offerta di un fagiolo freddo a un suo piccolo commensale»; e di una lunga nota intorno al «torto estetico delle note». I Glass sarebbero una famiglia mezza irlandese e mezza ebrea di ex–bambini prodigio, un tempo famosi a una popolarissima trasmissione radiofonica tipo Botta e risposta, e ora cresciuti e sposati o sistemati alla televisione o morti. Il maggiore, Seymour, si è suicidato nel bellissimo racconto A Perfect Day for Bananafish; anche un altro fratello è morto; un altro è gesuita; una sorella è sposata e fuori casa; poi c’è Buddy che è professore in un collegio ma inaccessibile in campagna. Dunque, praticamente, «quasi tutta la gamma» dei fruitori e utenti americani: non solo «dalla A alla B». Rimangono una ragazza e un ultimo fratello non ancora pietrificati dal matrimonio o dalla morte, appunto Franny e Zooey.

Lei ha una crisi religiosa, e il libro è tutto qui, col suo contenuto esposto da Salinger stesso come se fosse riassunto da un presentatore radiofonico o chiosato da un esegeta post mortem.

Nel primo pezzo, uno sketch universitario, Franny va a trovare il suo boy friend a Yale per vedere insieme la partita dell’anno, ma lui chiacchiera scioccamente di letteratura francese e di football (secondo Salinger: secondo il lettore lui è molto gradevole e lei una rompiscatole detestabile); allora lei si sente poco bene al ristorante, e così gli rovina la giornata. Nel secondo, un bozzettone domestico, lei è a casa e cerca Dio e la Verità in un libretto verde che parla di un «semplice contadino russo» che ha scoperto «l’efficacia della preghiera ininterrotta» e perciò gira per le steppe con una espressione miracolata alla Maria Schell. Zooey sta in bagno, legge vecchie lettere, antiche cartoline, massime di Kafka e di Epitteto, delle Bhagavad Gita e di Ring Lardner; parla con la madre; passa nell’altra stanza; tenta di consolare Franny. Altro, in fede, non c’è.

La prima impressione è che l’Holden originale si sia scisso come un’ameba nei sette fratelli Glass, tutti uguali come se immaginassimo sette piccoli Hemingway insieme alla caccia grossa o sette piccoli Bassani tutti in giro per una sola Ferrara. Il padre bofonchia fuori campo. La madre quando arriva in vestaglia e bigodini è una Filumena Marturano da teatro dialettale irlandese, una distributrice di buon senso, e come tutti i caratteristi da commedia ha la sua frase d’entrata ogni volta: offre alla figlia un brodino di pollo, ma ripetutamente, con tali insistenze, da farlo diventare o un fastidioso ribobolo o un simbolo preoccupantemente eucaristico, alla ventesima volta ci si domanda chissà quali epifanie potrà rappresentare, per i credenti. Proprio questa supposizione di simboli abusivi è l’aspetto più irritante del libro, come ogni volta che un romanzo o un film sottintendono che la Poesia deve consistere nella interminabile contemplazione di un oggetto irrilevante e nella insistente ripetizione di gesti insignificanti. Ecco la trappola dove franano gli allocchi dell’alienazione: come dimostrano anche alcuni entusiasmi per il film più ridicolo di questi anni, il giapponese L’isola nuda, stilizzazione stupida e sadica del vecchio film di successo The Yearling (Il cucciolo) stupido ed edificante.

Esempi. Nella lunga scena in bagno (un sancta sanctorum?) che occupa più di metà di Zooey, nulla viene risparmiato dei particolari della toilette, nè la rasatura, nè la pulitura delle unghie, nè la scarpa nè la giarrettiera. Gli oggetti sulle mensole vengono elencati tutti, e i medicinali nel loro armadietto ricordati uno per uno. E se una tendina viene alzata, la si abbassa qualche pagina dopo, e il tubetto di dentifricio viene lasciato aperto solo per poterlo chiudere un po’ più avanti. Di ciascuna radio si annuncia la data di fabbricazione, delle lampadine i watts, dei televisori i pollici, della vasca da bagno la capienza in galloni. Tutto questo chiaramente non conduce da nessuna parte, dal momento oltre tutto che il ritmo e il tempo della narrazione sono ancora naturalistici e non se ne vien fuori. Mancano sia i pregiudizi di scuola dei narratori «obiettivi» france si, sia la delirante inventiva degli «elenchi» del Gadda, perfino la fenomenologia volgarizzata dell’ultimo Moravia. E per quanto vagamente allucinatoria per virtù d’insistenza, la piatta descrizione inutilmente ossessiva di un’arma o una porta o un «buongiorno» in un contesto naturalistico mi pare che manchi di senso e di ragion d’essere, a meno che l’arma non spari, come voleva Cechov, la porta non caschi in testa, e il «buongiorno» non sia come minimo la parola d’ordine di Mata Hari.

Naturalmente si sa anche troppo che ghiottoneria pseudointellettuale sia stato questo buddhismo finto–stoico da «Reader’s Digest» negli anni fra il ‘55 e il ‘60, dappertutto. Basta prelevare un campioncino di Zooey per arrivare a una scoperta critica illuminante: «Zooey aprì lo sportello dell’armadietto, guardò dentro, poi prese una lima da unghie e chiuse lo sportello.

Prese la sigaretta che aveva posato sulla mensolina di vetro opaco e tirò una boccata, ma era spenta. Sua madre disse “tieni”, e gli tese il suo pacchetto di sigarette king–size e una bustina di fiammiferi. Zooey prese una sigaretta dal pacchetto e arrivò fino a mettersela fra le labbra e ad accendere un fiammifero, ma la pressione dei pensieri gli rese impossibile l’accensione anche della sigaretta; soffiò sul fiammifero e si tolse la sigaretta di bocca. Scosse leggermente, impercettibilmente, la testa. “Non so” disse… Poi impiegò qualche tempo ad accendersi la sigaretta.

Espirando il fumo, appoggiò la sigaretta sulla mensolina di vetro opaco dove stava l’altra sigaretta spenta, e prese una posa leggermente più rilassata. Cominciò a infilare la lima da unghie sotto le unghie, che erano già perfettamente pulite…».

Il tono si riconosce subito. Nessuno mi convincerà che questi brani non siano opera di Monica Vitti; non per nulla poche pagine dopo Zooey guarda giù dalla finestra, e come nell’Eclisse che cosa non ti vede? Mattoni storti e stormir di platani, puntualmente.

Franny e il suo boy friend sono la stessa coppia del film di Antonioni, lo sportivo simpatico e la bas–bleu noiosa (soltanto che al confronto Antonioni diventa Monicelli). E l’ansia, l’incertezza, la ricerca vengono sempre rappresentate mediante un futile aggeggiare con oggettini pedantemente descritti, e privi di senso anche dopo un esame prolungato con lentezza artistica. Ad ogni portacenere che toccano c’è da chiedersi se sarà un altro pretesto per «tirarla in lungo» o una nuova metafora della condizione umana; mentre sostanzialmente è lo stesso giocherellare della damina del Settecento con il suo ventaglio, il baloccarsi dell’Amica di Nonna Speranza con scrigni fatti di valve e scatole senza confetti. Magari, altalenare sperimentale fra bianco–e–nero e colore?

In più, tutto un repertorio di pretenziosità seccantissime: sillabe enfatizzate, una parola sì e una no, per indicare su quale vocale casca il manierismo o il falsetto; numeri capricciosi, maiuscole eccentriche, sottolineature arbitrarie, ripetizioni ritmiche, vezzeggiativi ricercati, accostamenti furbetti di concetti e di nomi: spesso san Francesco di Sales avvicinato a Damon Runyon e questo a un profeta cinese. Ostentazioni ridicole come le farfalle di Nabokov: meditazioni per dieci ore di fila, telefonate al Dio della Morte, la quartina in stile haiku lasciata dal suicida, la sfera di cristallo con la sua nevicata dentro; la macchia sul soffitto, però di un certo colore, però fatta con una pistola ad acqua, però diciannove anni prima; le «estasi masochistiche», i «palpeggiamenti dell’onniscienza»; e battute da Suzie Wong o Butterfly tipo: «Sai, come ridono gli orientalisti…»; e massime da cioccolatini tipo: «Una volta sposati, non si riesce più a sedersi vicini al finestrino in treno»… Ancora qui le vecchie solfe dell’ossessione scolastica (professori e compagni compaiono anche in sogno, carichi di quaderni e matite), e i falsi problemi basati su compiti in classe e seminari di religione; talismani; amuleti; lettere semistracciate maneggiate stregonescamente; bambini piccoli che ammiccano emblematicamente e subito spariscono; e infine la Camera della Morte. Stavolta appartiene non alle mummie ma al fratello suicida, lasciata intatta con le sue carte e il telefono; e da questo apparecchio Zooey chiama Franny per consolarla fingendo d’essere l’altro fratello, quello inaccessibile. Questa è la gran scena madre; e monta, monta, preparata con retorica accuratezza di effetti. Quando però il telefono del morto finalmente parla, si rimpiange l’Oratore delle Chaises di Ionesco, che almeno non si sente. Qua invece nulla distingue il «messaggio» che ne vien fuori dall’omelia di Chaplin alla ballerina in fondo a Limelight-. «Ricordo che verso la nostra quinta trasmissione … Seymour mi disse di lucidarmi le scarpe, mentre stavo uscendo. Io ero furioso. Gli spettatori erano tutti cretini, l’annunciatore un cretino, i produttori dei cretini, e non me ne sognavo neanche di lucidarmi le scarpe per loro. Dissi a Seymour che oltre tutto non potevano neanche vederle. Ma lui mi disse di lucidarle lo stesso. Disse: le luciderai per la Signora Grassa.

Non sapevo cosa diavolo stesse dicendo, ma faceva una faccia tipicamente da Seymour, e così me le lucidai. Non mi disse mai chi era la Signora Grassa, ma mi lucidai le scarpe per la Si gnora Grassa a ogni trasmissione… Questa immagine terribilmente chiara della Signora Grassa mi si formò nella mente. La vedevo seduta nella sua veranda tutto il giorno, ammazzando le mosche, con la radio a tutto volume dalla mattina alla sera, e un caldo terribile…».

Ma anche Franny aveva una sua Signora Grassa, e subito la riconosce, infatti: «Non me la sono mai immaginata in una veranda, però con gambe molto, molto spesse, molto venose. La vedevo in una orrenda poltrona di vimini. E aveva anche il cancro, per di più, e la radio accesa tutto il giorno… Anche la mia!…».

Allora Zooey aumenta la dose terapeutica. Bisogna andare avanti, bene o male, bisogna recitare per la Signora Grassa comunque: «Non m’importa dove recita un attore. Può essere in una filodrammatica estiva, può essere alla radio, può essere alla televisione, può essere in un maledetto teatro di Broadway, completo del pubblico più snob, più abbronzato, meglio nutrito che si possa immaginare. Ma io ti dirò un terribile segreto.

Mi stai a sentire? Non c’è nessuno là fuori che non sia la Signora Grassa di Seymour. Ivi compreso il tuo professor Tupper, cara mia. E tutti i suoi maledetti cugini. Non c’è nessuno da nessuna parte che non sia la Signora Grassa di Seymour. Non lo sai?

Non lo sai ancora, quel maledetto segreto? E non lo sai – stammi bene a sentire–non lo sai chi è realmente la Signora Grassa}…».

Signora mia, l’audience non sarà un dato statistico, mediatico?

Suspense, emozione. E poi un colpo di scena alla Ponson du Terrail: «La Signora Grassa è Gesù Cristo!». Altro che il classico «Remember that your grandma was a big fat woman», come cantano e ricantano i travestiti corpulenti nei locali sgangherati.

Così tutto è chiaro. Chaplin si trasforma nel popolare vescovo mediatico Fulton Sheen, lo Zen abbraccia la «Domenica del Corriere», e la morale della storia diventa «lo spettacolo deve andare avanti a ogni costo!», cioè la stessa morale di Annie Get Your Gun e della canzone di Neil Sedaka che si sente in tutti gli intervalli al cinema anche da noi: «Ecco qui, / come ogni sera / i tuoi gesti fan la gente divertire, / questo re / dei pagliacci / ride e piange nel suo mondo senza amor». Cioè, alla fine dello Zen, il vecchio Leoncavallo.

America Amore
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