MINORILITÀ
A Londra e dintorni, l’espressione «teddy boy» ha un significato preciso. E del resto, basta vederne uno solo una volta per non sbagliarsi più: sarebbe come non riconoscere un carabiniere in alta uniforme. Si tratta essenzialmente di poveri ragazzacci smunti, «dandies» da pochi soldi, che credono di distìnguersi (o conformarsi) indossando i panni tipici dell’epoca edoardiana, cioè dell’inizio del secolo. «Teddy» era appunto il nomignolo del principe di Galles, figlio della regina Vittoria, che salendo al trono in età già avanzata col nome di Edoardo VII ha dato il nome alla parte finale della Belle Epoque britannica.
I loro abiti seguono regole fisse, come una vera uniforme: redingote lunga e nera, un po’ lisa e sbrindellata, calzoni neri strettissimi, scarpette usate a punta (una puntina assurda), camicia di pizzo, con un jabot ciancicato e sporco, nastrino di velluto nero o viola al posto della cravatta, gilet fantasia di broccatello un po’ indiano o giapponese, con draghi e pagode, e qualche filo d’oro, tanti capelli, ciuffo in avanti, basettoni lunghi, faccia pallidissima da malato, garofano appassito all’occhiello (oppure il biglietto di ritorno in autobus, piegato in due). Eventualmente un bastoncino da passeggio. Ma una volta che hanno fatto la fatica di vestirsi, è difficile che trovino la forza di fare o dire altro.
Sono in fondo dei piccoli narcisi un po’ esibizionisti, e oscuramente e confusamente provano a manifestare il loro disagio di vivere nel mondo d’oggi, che capiscono poco, andando a cercare una ispirazione sartoriale in un’epoca diversa. Ma in sostanza hanno finito per attaccarsi all’epoca sbagliata. Non hanno molto in comune, infatti, col sovrano di cui portano il nome, amante soprattutto delle sottane e dello champagne, pieno di vitalità, di gioia di vivere, e voglia di fare scherzi scollacciati.
Tristi, invece, magri, e fiacchi come sono, questi smunti che una birra basta a stendere in terra per tutta la notte, si contentano di girare per qualche cinema o sala da ballo, addentando una polpettaccia di carne coperta di salsa rossa quando l’appetito morde, la sera tardi; e tutt’al più faranno qualche urlo ai film di Elvis Presley o ai concerti di Tommy Steele. Non sono generalmente loro che vanno in giro per Londra con le catene da bicicletta intorno al pugno, o con la lametta di rasoio nella patata per sfregiare l’avversario. Se al «teddy boy» si toglie quel particolare vestito, non rimane più niente.
Le vere bande di delinquentini minorenni americani vanno in giro bardate in tutt’altra maniera, tipo «motociclista mascalzone» alla «gioventù bruciata». Fino a poco tempo fa avevano capelli tagliati cortissimi, e non ricci. Ma questa moda del «crew cut» sta passando, e in America si vedono oramai le pettinature più straordinarie, che richiedono ore di messa in piega per farle star su. E una moda lanciata dai cantanti bambini della televisione, tutti coi capelli lunghissimi e folti: Frankie Avalon, Ricky Nelson, Fabian, e più di tutti Edd «Kookie» Byrnes, detto appunto «Mister Pettine», perchè è diventato famoso con l’eseguire la canzone Lend, Me Your Comb (cioè: «Prestami il pettine») passandosi continuamente un pettinino sul ciuffo.
Questi portano blue jeans, maglietta a T bianca o rossa, scarpacce da pallacanestro, oppure stivaletti da «marine» a mezzo polpaccio, giacca di cuoio o di raso colorato. Se appena possono, hanno una grossa motocicletta nera, magari da starci su in tre, con tutti gli accessori: casco, guantoni, occhialoni di plastica.
Coi «teddy boys» non hanno nessuna parentela comune, se non qualche simpatia per le canzoni del juke–box (ma quelle piacciono a tutta la gioventù). L’automobile in questo momento sembra molto meno popolare della motocicletta, e la rivoltella addirittura non la vuole più nessuno, perchè preferiscono il pugnale. Dunque sembra che in ogni caso lo strumento scelto debba essere il più semplice, che faccia tutt’uno fisicamente col corpo di chi lo manovra.
Quanto al termine di «teenager», dal momento che vuol dire «ragazzo o ragazza dai tredici ai diciannove anni», è un po’ difficile non passare attraverso questa fase, tanto più per chi ne abbia già compiuti dodici. È vero però che i delitti commessi in questa età si sono fatti così frequenti, che oramai il solo sentir la parola, spesso abbreviata nel suono gentile di «teen» (che si pronuncia, addirittura, tin), basta a far venire in mente immagini sinistre, attività criminose, assassini, sangue. Tanto più lo si è visto attualmente: questi tipi di delitti si sono ripetuti così feroci tutte le notti a New York City, da prendere il posto più importante nelle prime pagine dei giornali, e provocare discussioni accese, interventi da tutte le parti.
Si capisce che la caccia a «Dracula» e alle altre figure fantasma chiamate «l’uomo del mantello» e «l’uomo dell’ombrello» ha fatto parlare di sé più di tutti gli altri episodi simili, nel colmo di queste estati sciroccose e torride. Non si vedevano da parecchio tempo titoli così grossi, storie tanto diffuse, e un numero così enorme di fotografie di ragazzacci portoricani carichi di ricci neri e sorridenti in mezzo ai poliziotti, con le loro camicie a fiori stracciati. Ma non passa veramente giorno senza che qualcuno muoia in malo modo qui. La ragazzina che passa per caso, il cliente che entra nel bar, il bagnante sulla spiaggia di Coney Island, ammazzati generalmente senza ragione, per accidente, o per il gusto di vederli morire. E capitato lo stesso ai due ragazzotti di sedici anni pugnalati da questo Dracula di diciotto o venti, che non li aveva mai visti e non sapeva neanche chi fossero.
Il Central Park di notte è una lunga striscia di terreno selvaggio tipo giungla, circondato dal buio e da un muretto che non serve a nulla. I giardini pubblici dovrebbero essere chiusi dopo le dieci e mezza di sera, ma la polizia e il municipio riconoscono che non c’è niente da fare. Inutile mettere i cancelli.
Verrebbero spaccati immediatamente; e le lampade, lo stesso.
La giungla d’estate è umida, afosa. L’erba è piena di bottiglie rotte, lattine di birra vuote, cartaccia, sporcizia, rifiuti. L’aria è pesante. Il buio, in certe zone, completo. Chi entra non può non sapere che è uno dei posti più pericolosi in città. Centinaia di persone camminano adagio, silenziose, e non si capisce mai chi sia l’inseguitore e chi l’inseguito, chi la vittima e chi il carnefice. Cosa cercano? Avventure emozionanti, chissà, marijuana, eroina, uomini e donne di tutte le età e di tutti i colori, rischiando a ogni passo di sentirsi una mano intorno alla gola, dita che frugano in tasca, una lama fra le costole. La polizia non entra quasi mai nel parco di notte.
Ci sono tanti cartelli: «Vietato andare in bicicletta», «Vietato pattinare», «Vietato l’ingresso ai venditori ambulanti», «Depositate le immondizie negli appositi recipienti». Nessuno che dica: «Vietato ammazzare». Ma frequentemente, in questi giorni, càpita che qualcuno venga fuori rotolandosi dal folto, e lasciandosi dietro una striscia di sangue si trascini a morire davanti a qualche porta delle case intorno.
Camminare per queste strade, specialmente verso Harlem e il West Side, è un giro che porta attraverso posti fra i più miserabili del mondo. Le case sono vecchie, grosse, crollanti per l’incuria e il disordine. Dalle facciate grigie e marrone cascano letteralmente i pezzi, sulle scale di ferro arrugginite, davanti alle finestre dove si protendono fuori per respirare i vecchi e le vecchie che vivono con altre dieci persone nella stessa lurida stanza, sopra i marciapiedi pieni di porcherie rovesciate fuori dai bidoni aperti. Si cammina fra cattivi odori soffocanti, nell’afa ferma, in mezzo a donnacce sfatte che articolano suoni incomprensibili, uomini muti e sozzi con l’aria torva, animali randagi che mangiano rifiuti sotto un tiro continuo di latte vuote e di sassi, bambini stracciati che rischiano la vita ogni momento fra le ruote delle macchine, e i loro fratelli più grandi, in pantaloni stretti e pettinatura «a coda d’anatra», identici alle fotografie di quelli che sono già in galera. Non conviene camminare sul marciapiede. Si divertirebbero tutti a sputare in testa dalle finestre, gridando magari «non ce l’hai l’ombrello?». Ma non conviene troppo camminare neanche in mezzo alla strada, e tanto meno fermarsi. Vengono vicini a gruppi, con aria minacciosa, le mani nella cintura, a chiedere se si è della polizia, cosa si fa lì, cosa si vuole. «Questo è il territorio dei Dragoni. Via!». E si va via.
Sono quasi un milione questi portoricani di New York. Buoni e gentili in patria (dicono), fanno presto a diventare mostri depravati dalla miseria quando la fame li spinge a trasferirsi qui.
Ma la vera infamia è che molti sono stati trasportati qui come bestie da un defunto politico italo–mafioso che aveva bisogno di voti, e per assicurarseli ammassava molte migliaia di questi infelici in certi slums del West Side di sua proprietà, così schifosi che nessuno voleva abitarli.
Il colore della pelle, la pronuncia barbara e inintelligibile, la difficoltà di imparare la lingua e di inserirsi nel resto della popolazione, l’incapacità di fare un lavoro seriamente, li riducono presto in una condizione tanto miserabile e disperata che tutto diventa possibile nella «piccola Puerto Rico» di New York, e oramai si crede a tutto il peggio, perchè se ne sono lette e sentite di ogni genere: le continue aggressioni ai passanti, in pieno giorno e nelle strade affollate; i bambini di dodici e tredici anni mandati in giro dai parenti a smerciare l’eroina, e drogati loro stessi; le incredibili percentuali della prostituzione, della tubercolosi, della sifilide; le ripetute uccisioni di poliziotti nell’East Harlem; il chilometro e mezzo di «catacombe», tra la 111th e la 112th Street, nel West Side, chiamate così perchè si tratta di una fila di cantine collegate fra loro, dove i drogati senza casa dormono divorati dai topi, nelle condizioni più degradanti. Sono quelli che per farsi l’iniezione non hanno più neanche la siringa, e sono ridotti a usare prima una scheggia di vetro, e poi un contagocce da rimedio contro il raffreddore. (Ma quel Puerto fu mai Rico?).
Se si gira per caso a fare delle domande, con un interprete o due, a queste donne abbrutite, che parlano solo un dialetto mezzo spagnolo incomprensibile, e dimostrano sessantanni ma poi non ne hanno più di trentadue–trentatré (hanno avuto i primi figli a quattordici, quindi sono già nonne da un pezzo), vengono fuori delle storie che fanno spavento, proprio perchè si somigliano tutte. Loro sono venute da Puerto Rico qualche anno prima; l’uomo che avevano insieme se ne è andato, e non si sa dove sia; loro hanno fatto qualche basso mestiere, e hanno cambiato parecchie case, una peggio dell’altra. I figli? Li vedono poco, non sanno se vanno a scuola o no, se lavorano o no; qualche volta, certo, portano a casa dei soldi, ma di solito dormono tutto il giorno e vanno fuori di sera; però sono abbastanza buoni, affettuosi; una volta andavano anche in chiesa.
E quando finalmente qualche poliziotto ne vede due, che vengono fuori da una cantina al tramonto, e frugano nei sacchi della spazzatura in cerca di qualche buccia di pomodoro marcio da mangiare, e poi scappano cercando di far sparire un coltello avvolto in carta da giornale, si comincia a ricostruire la storia di qualcuno di loro. In mezzo alle sigarette, ai pettinini, tra il sorriso sfacciato per il fotografo e la risposta spavalda al sergente che interroga, viene fuori che uno dei ragazzi era andato a offrire della marijuana alla madre di un altro. Però adesso dice che aveva parlato di erba, non di marijuana. Quale erba?
L’erba del parco. La donna, mandata a chiamare, sembra che confermi invece il fatto della marijuana, o almeno così pare all’interprete, perchè lei, in realtà, più che parlare, abbaia, e questi rumori riescono praticamente incomprensibili.
Allora la «gang» di uno di questi ragazzi – sarà stata quella dei Dragoni, dei Vampiri, dei Cappellani – se la prende con quella dell’altro (Vescovi, Pescicani, Bucanieri, o Baroni, o Cappellani Rinnegati). Fissano un incontro, una sfida. Ma poi, in quel posto, che si chiama la Cucina del Diavolo, càpitano tutt’altre gangs, non quelle interessate: e in queste sostituzioni di persone e di luoghi stupefacenti per l’incomprensibilità, l’inutilità di tutto quello che succede, compare a un tratto il finto Dracula di diciotto anni, in mantello di raso nero orlato di rosso, e accoltella i primi due che riesce a raggiungere, «perchè ne aveva voglia» (non per rapinarli: in questo caso si vedrebbe il «movente».
No: erano poveri ragazzacci stracciati. Non avevano un soldo in tasca, e lo si vedeva benissimo. Ma muoiono ugualmente con la gola tagliata).
Ci saranno poi tutte le storie commoventi e inevitabili: la ricerca affannosa, la cattura, la madre che urla in spagnolo «Spirito Santo! Spirito Santo!», e porta una Bibbia in carcere al figlio, che gliela ributta sulla faccia. Ma lei continua a dire che era buono. Le madri dei ragazzi uccisi dicono: «Bisogna ammazzarli, strozzarli, bruciarli vivi». I vicini di casa organizzano cerimonie macabre e vistose. I preti, durante il servizio funebre, fanno dei sermoni di fuoco e indicono processioni espiatorie con tante candele, scene di isterismo, voti, fioretti, promesse.
I giornalisti vanno a scoprire se al ragazzino piacevano le ragazzine oppure no, perchè si vestiva di raso, perchè si lasciava crescere tanto i capelli. Il governatore, il sindaco, i parlamentari, i capi della polizia interrompono le vacanze, e la pubblica agitazione li trascina indietro, nella città che cuoce, insiste perchè facciano qualche cosa.
Ecco, un problema fra i più grossi che l’America deve affrontare oggi, non meno grave di quello della integrazione dei neri.
New York passa per essere la città più pericolosa del mondo, e lo è. Bisognerebbe costruire nuove case per le decine di migliaia di persone che arrivano tutti gli anni in miseria nera e non si possono mandare indietro perchè sono cittadini americani come tutti gli altri. Bisognerebbe mandarli tutti a scuola, e trovare il modo di farli lavorare. C’è però l’inconveniente che spesso anche tanti ragazzi ricchi e sani fanno i delitti dello stesso tipo inutile, insensato; e non si è ancora capito, benché si vada avanti da secoli a discuterne, se lo facciano perchè la loro natura sia fondamentalmente già cattiva, o se vengano spinti invece da tv, dischi, giornali, film (la polemica sui flippers, si sa, risale ai Manichei).
Si potrebbe, certo, come hanno ripetutamente proposto, istituire un coprifuoco per i ragazzi, arrestare tutti quelli che si trovano in giro dopo le dieci di sera, mandare in un’isola di lavori forzati (descritta, naturalmente, come «un ridente riformatorio») tutti quelli che appartengono alle bande e ne portano i giubbotti colorati, il segno più chiaro di «comportamento antisociale». Ma per adesso New York continua a essere piena di quindicenni e sedicenni che sono in giro tutte le sere solo per aggredire il prossimo, senza ragione, neanche quella di fare una rapina a scopo di lucro. Se appena possono, uccidono, perchè è una cosa che li diverte. E quando li prendono, si mettono a fare gli spiritosi. Basta aprire un giornale a caso: ecco in prima pagina la brutta faccia sorridente di uno di sedici anni, con la sua camicia a fiori e il suo ciuffo che richiede un’ora per essere pettinato.
Cosa ha fatto? Ha fatto a pezzi un vecchio di 74 anni, insieme a due altri. Gli hanno anche portato via quindici dollari, cioè diecimila lire; e lui ha l’aria soddisfatta di uno che finalmente è riuscito a fare quello che voleva. Al poliziotto che lo ha preso, dice: «Amico, hai trovato l’uomo giusto». Chiede un pettine appena prima che gli mettano le manette; e se gli chiedono se è vero che ha fatto fuori il vecchio, risponde: «Certo, aveva più di novantanni per gamba». Ride, scherza coi suoi amici che sono ammanettati tutti insieme: «Io invece ne ho un paio per me solo!» fa. E quando finalmente lo portano via, saluta tutti col gesto del pugile che scende dal ring: «Ci vediamo tutti fra cinque anni!».