LA NINFA E IL LIBERTINO

Dopo una fanciullezza del tipo cosmopolitico passata negli alberghi della Riviera; dopo un incontro a dodici anni col proprio archetipo amoroso, Annabel Leigh, morta subito poi; dopo una carriera universitaria e il fallimento del matrimonio con una Valeria che fugge insieme a un autista–zarista parigino (e muore poco dopo in California «essendosi sottoposta, dietro eccellente retribuzione, a un esperimento della durata di un anno, praticato da un autorevole etnologo statunitense, per saggiare le reazioni umane e sociali a una dieta di banane e datteri assimilati mantenendo la posizione a quattro zampe»); dopo esser giunto anch’egli in America, il professor Humbert Humbert affitta una stanza in una cittadina del New England e ne sposa la proprietaria, una vedova di cui non gli importa nulla, col solo scopo di farla morire e ottenere la tutela legale sulla figliola dodicenne di lei, Lolita. I fantasmi che hanno hanté la sua intera esistenza, e l’ossessione della perduta Annabel, qui prendono corpo. Non ha rilevanza che Lolita, posseduta da Humbert la prima notte che passano insieme, risulti già perfettamente corrotta (debellando Laclos sul suo stesso terreno).

«Entro quei limiti di età tutte le ragazzine sono nymphets? Certamente no. Oppure, noi che sappiamo, noi viaggiatori soli, noi nympholepts, saremmo da tempo impazziti. Né il bell’aspetto offre sufficienti criteri di giudizio; e la volgarità, o almeno ciò che una determinata comunità definisce tale, non diminuisce ne cessariamente certe misteriose caratteristiche, la grazia fatale, il fascino elusivo, ingannevole, che distingue la nymphet dalle sue coetanee, dipendenti incomparabilmente più dal mondo spaziale dei fenomeni sincroni che da quell’intangibile isola di tempo incantato dove Lolita giuoca con le sue simili». La febbrile corsa in macchina a due da una città all’altra, da un letto e da un motel a un altro, che ne segue, termina con un grottesco omicidio, asilo psichiatrico, carcere, decadenza e caduta.

Ma l’episodio più straordinario dell’intero affare è l’intervento del governo britannico.

L’autore di questo romanzo Lolita, Vladimir Nabokov, nato a Pietroburgo nel 1899, figlio di un facoltoso parlamentare liberale, poi assassinato, ha descritto la propria deliziosa infanzia in Speak, Memory (Gollancz, Londra, 1951), è fuggito in tempo dalla Rivoluzione, ed è stato studente al Trinity College, Cambridge, dal 1919 al 1922. Poi visse tra Parigi e Berlino, scrivendo romanzi russi e una vita di Gogol; nel 1940 passò in America, e pubblicò libri in inglese – fra cui The Real Life of Sebastian Knight, tradotta anche in italiano – e insegna Letteratura russa alla Cornell University di Ithaca. Ha tradotto in russo Alice nel Paese delle Meraviglie. Gode di stima altissima come scrittore distinto e originale, collabora frequentemente al «New Yorker» con rarefatti bozzettini, squisiti, raccolti in volume (Pnin, Doubleday, New York, 1957), che parlano tutti di una specie di sant’uomo donchisciottesco, vero étourdi moderno, il professore universitario Timofej Pavlovic Pnin, emigrato russo, che insegna al Waindell (pron. Vandal) College, con una bella dentiera nuova, un figlio non del tutto suo, e una camera ammobiliata; che si lascia affascinare da Cronin, Van Loon, e dal lavabiancheria in moto, non sa distinguere la pubblicità dalla Verità, siede felice sul treno sbagliato, oppure parte col treno giusto ma per tenere la conferenza sbagliata, dice immortali cose sulle pompe della psichiatria contemporanea (inventando incredibili generi di Parentado Pianificato, e il Test delle Coppe Lavadita per Bambini), ma non sbaglia mai nel citare Puskin e Lermontov. Suo cugino, Nicholas Nabokov, è segretario generale del Congresso per la Libertà della Cultura.

Su Lolita (che potrebbe anche essere una allegoria dell’America, infantile e corrotta com’è, avida di gelati e di fumetti), la prima cosa da osservare è che viene pubblicata nella collezione di quei Traveller’s Companion, simili a Penguin verdolini è difficile trovare alcunché di più pornografico in lingua ingle se, però sono generalmente molto ben scritti – stampati a Parigi dalla Olympia Press (8, rue de Nesle) e impediti di entrare in quasi tutti i paesi del mondo, per esplicite disposizioni di una Convenzione di Ginevra sui materiali indecenti. Tanto che i primi recensori americani lepidamente finsero di averlo letto fuori delle acque territoriali (limite di tre miglia marittime, secondo la prassi degli Stati Uniti), grazie alla compiacenza di capitani di nave. Poi bisogna ricordare i giudizi concordemente pieni d’ammirazione dei critici e lettori qualificati: da Graham Greene, il primo a lodarlo, collocandolo ben alto nella classifica natalizia dei libri migliori del 1955, nel «Sunday Times», a Maurice Nadeau che ne ha parlato benissimo in parecchie sedi, e ne caldeggia la traduzione presso Gallimard; a Maurice Cranston, che scrive sul «Manchester Guardian»: «non c’è un solo brano indelicato, non una parola che non si possa pronunciare davanti a una zia vergine; ma è un libro forte, inquietante…». E John Hollander, sulla «Partisan Review»: «qui ammiccano le ombre di Stavrogin, Lewis Carroll, Tiberio, Popeye… una parodia semiseria della Manon Lescaut fatta da Thurber… un genio comico che alterna una presa in giro di Turgenev al pastiche proustiano, alla rigorosa analyse de l’amour alla maniera di Constant».

Dopo averlo lodato in francese («loin de solliciter les esprits animaux par ses charmes, ce livre agit sur eux comme un cautère, les stérilise avec son humeur corrosif»), il Professor F.W. Dupee riconosce che Lolita è in parte un capolavoro di commedia grottesca, ma in parte un selvaggio deserto dove ulula il lupo vero – riparlandone sul numero 2 della «Anchor Review», in gran parte dedicato al libro di Nabokov: e giudica «un interminabile spasimo d’orror comico» (peggio di Charlus flagellato dai giovinastri) le scene all’Enchanted Hunters, l’albergo suburbano pieno di paralumi, sofà, tavolini, riviste, riproduzioni di Van Gogh, carta da gabinetto rosa; dove inquietanti bambine piccole in blue jeans entrano leggendo sui loro giornalini che «Mr Uterus comincia a costruire un materasso spesso e soffice per il caso che un probabile bambino vi debba essere adagiato un giorno», e dove finalmente Lolita, ben sveglia nonostante le pillole che Humbert «credeva» sonnifere, conduce praticamente a termine la seduzione da lui appena cominciata.

«Questo è un paese libero!» grida Lolita quando sua madre, specie di finta Marlene Dietrich, vuole mandarla a letto.

Ma, finalmente intervenuto di persona in un saggio apparso nella medesima «Anchor Review», l’autore di Lolita onestamente osserva che anticamente in Europa (e fino al diciottesimo se colo ovvi esempi vengono dalla Francia) la letteratura deliberatamente lasciva e scollacciata non era incompatibile con spunti di commedia, satire vigorose, lampi capricciosi di finissima poesia; è solo nei tempi moderni che il genere «pornografico» implica mediocrità, commerciabilità, e rigorose regole tecniche.

L’oscenità, dice Nabokov, deve attualmente essere diluita con la banalità, perchè ogni tipo di godimento estetico ha da essere interamente rimpiazzato da semplici stimoli sensuali, di natura meccanica, che richiedono l’uso di vocaboli tradizionali per agire direttamente sul paziente. Vecchie ferree prescrizioni devono essere osservate dal pornografo perchè il paziente provi il suo solito senso di soddisfazione sicura, come del resto l’amante delle storie poliziesche si aspetta e pretende tanti dialoghi; e così, nelle storie indecenti, l’azione deve essere limitata a una «copulazione di clichés». Lo stile, la struttura, immagini e metafore, artifizi grammaticali o sintattici, e tutto, non devono mai distrarre il lettore dalle sue ebbrezze. La storia deve consistere in una alternanza di scene sensuali. I passaggi fra queste vanno ridotti a suture di semplicissimo disegno, meri collegamenti, che si possano anche saltare alla lettura, ma che diano però tutte le spiegazioni, altrimenti il cliente si sente defraudato, come i bambini quando sentono una fiaba che non presenta lo svolgimento solito. E poi, le scene di libidine devono seguire una linea di «crescendo», con nuove variazioni, nuove combinazioni, nuovi sessi, e un graduale aumento del numero dei partecipanti (come in Sade, dove a un certo punto si fa sempre entrare il giardiniere). La fine del libro deve essere molto più piena di cose oscene che non i primi capitoli; e questo spiega le difficoltà incontrate da Lolita (dove succede il contrario), presso gli editori americani.

Uno suggerì di cambiare Lolita in un ragazzo, farlo possedere da un proprietario terriero dentro un granaio, fra i topi, in un paesaggio desolato e assolato, e di riscriverlo tutto usando quelle frasi secche e forti, «realistiche», come «Lui fa il matto.

Facciamo tutti i matti, però. Anche Dio fa il matto, chissà. Siamo tutti matti, ecc.». Un altro ha detto che questo libro non insegna niente; altri che è anti–americano (chi perchè simbolizza la vecchia Europa corrotta dalla giovane America, chi per la corruzione opposta, chi ancora perchè il libro non tiene conto di uno dei tre tabù americani fondamentali, gli altri due essendo l’ateo che vive bene e muore serenamente, e il successo del matrimonio misto tra bianchi e neri, con tanti figli e nipoti tutti felici). Ma c’è anche chi ha osservato che il simbolo è semmai di un affare amoroso tra l’autore e la lingua inglese (o con il romanzo «romantico»).

Siamo seri, dice Nabokov, rovinando tutto; ed espone le sue teorie estetiche. Insomma, conclude, dopo tutto non siamo poi bambini, nè delinquenti minorenni analfabeti, nè collegiali inglesi che dopo una notte di orge devono paradossalmente leggere i classici in edizioni espurgate. Io non mi sento nè didascalico nè moraleggiante. A me piace raccontare.

Gli interventi del governo inglese, che fanno diventare curiosa la storia, sono stati ripetuti presso il ministero francese dell’Interno, con richiami agli accordi internazionali e con pressioni fortissime, perchè le leggi sulle pubblicazioni oscene fossero applicate al romanzo di Nabokov anche su territorio francese, invocando la ragione che – quantunque già proibito nel Regno Unito – poteva suggerire cattive idee ai turisti britannici in giro per il Continente; ma il fatto straordinario è che veramente il ministro francese decretò il sequestro di Lolita. E la scrittrice Gerda Cohen ha raccontato recentemente su «Twentieth Century» cosa le è capitato all’aeroporto di Croydon, dove scendendo dall’aeroplano con un Lolita regalato sotto il braccio, si è vista fermare dai doganieri, sottoposta a domande sconvenienti, e pressoché additata agli altri viaggiatori come partigiana del libertinaggio, durante un lungo interrogatorio che le ha poi fatto anche perdere l’autobus per Londra.

La situazione paradossale adesso è questa: che il libro non si può più vendere in inglese in Francia, ma vi sarà presto in vendita nella traduzione francese; non è mai stato formalmente dichiarato osceno da un tribunale inglese, però non può essere introdotto nelle isole britanniche; non potrebbe neppure essere legittimamente esportato dalla Francia, ma la dogana americana, che l’ha esaminato, ha ritenuto che non vi si trovi nulla di riprovevole, permettendone da allora in poi l’importazione.

In Italia, mi pare di averlo visto, in qualche città. Il proprietario della Olympia Press si sente vittima di una infame ingiustizia, e così finalmente si è saputo chi pubblica quei libri verdolini che hanno fatto ritirare la licenza a tanti poveri tenutari di bancarelle: si chiama Maurice Girodias, e confortato dalla solidarietà di finissimi uomini di lettere, ha espresso la sua indignazione per la vicenda dando alle stampe una plaquette di 105 pagine intitolata L’affaire «Lolita»: Défense de l’écrivain. La Cohen, che è andata a trovarlo, ormai apertamente incuriosita, nel suo bell’ufficio parigino foderato di candidi marmi, a pochi passi dal boulevard Saint–Michel, racconta di aver trova to un signore pettinato col crew cut, con un bel vestito ben tagliato, molto stretto, e un’aria di cinica tolleranza. Girodias le ha detto: «Io pubblico due tipi di libri: pornografia facile, che si vende da sé, e la cosiddetta letteratura indecente di valore, come per esempio Henry Miller. Questa non si vende molto.

Ma una categoria guadagna per l’altra. Abbiamo lo smercio più forte nel Medio Oriente, dove la gente fa quello che può per consolarsi dalle forzate astinenze del Ramadan; in nessun altro paese va tanto Miller come nel Libano». Ma una cosa dà noia soprattutto al brav’uomo: solo la sua casa editrice viene bersagliata di persecuzioni, che lo danneggiano economicamente, mentre nessuno disturba la casa editrice rivale, l’Obelisk Press, più cheap ma specializzata esattamente nel medesimo campo. Questo perchè la rivale è controllata dalle potentissime Messaggerie Hachette, che sono in ottimi rapporti con le autorità, e possono così diffondere tutti i libri erotici che vogliono, senza ostacoli.

Qualche anno dopo, Girodias mi viene a trovare a Roma perchè sta organizzando a Francoforte un festivalino di film osé come i romanzetti dell’Olympia Press. Lì ne vediamo parecchi in pochi giorni, e cultural–pretenziosetti, in compagnia anche di George Melly, cantante fantasista da piano–bar ed esperto di vini oltre che giornalista eccentrico per l’«Observer». Il mio rapporto su quei filmini uscì sull’«Espresso» intitolato Sull’Honda del piacer.

America Amore
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