W.S. BURROUGHS
Ecco un romanzo fra i più belli di questi anni, dopo Il Maestro e Margherita di Bulgakov e Insaziabilità di Witkiewicz: ma occorre avvertire subito che The Wild Boys per la rigorosa precisione metallica dei suoi intarsi verbali è perfettamente intraducibile, come Mallarmé, come Valéry, come riorchestrare una composizione di Webern.
Il successo tecnico, stilistico, è impressionante. Burroughs parte da una spinta di fantascienza picaresca, come il Burgess di A Clockwork Orange, attratti tutt’e due da una voglia matta e perversa di confutare le previsioni del futuro secondo Huxley e Orwell.
Macché mondo nuovo spietatamente automatico e cibernetico!
Tante celebrate divinazioni si appoggiavano infatti all’anacronistica credulità in un perfetto funzionamento di macchine sempre più complesse, con una disumanizzazione sempre più asettica dell’uomo e della donna. Semplicemente, non prevedevano che le macchine funzionano malissimo, si rompono continuamente (basta vedere come tira avanti New York, e, nel suo piccolo, Fiumicino), e che è presuntuoso segnare limiti alla cialtronaggine e alla «zozzoneria» della natura umana. E nemmeno sognavano, quelle prestigiose sintesi, che già ben prima del 1984 fenomeni quali la conflittualità, l’assenteismo, e tutta una serie di disturbi fra l’indisposizione femminile e la paranoia automobilistica avrebbero messo pesantemente in crisi i rapporti fra uomini e macchine, e tutti i loro sviluppi possibili.
A Burroughs non interessa affatto congegnare un fantasioso idioma anglo–russo come quello dei ragazzacci di Burgess e del film di Kubrick, intanto perchè sembra convinto che in futuro di giochini verbali se ne faranno pochissimi: si starà zitti, per lo più. E poi, francamente, non gli interessa proprio la vecchia «trama». Gli importa piuttosto di visualizzare con la più spietata freddezza una collezione di fissazioni sceltissime, erotiche ed esotiche, ricorrendo a vertiginosi virtuosismi di taglio, montaggio, assemblage e collage.
The Wild Boys sembra dunque un’illustrazione esemplare del metodo esposto da Roland Barthes nel saggio famoso sull’Attività Strutturalista, poco addietro. Due operazioni: taglio e montaggio, appunto. Prima, cioè, ritagliare i frammenti di un simulacro, unità significative appartenenti a uno stesso discorso attuale, o a una medesima classe virtuale. Quindi, ricomporre con questi frammenti mobili un simulacro analogo e dissimile, giacché l’attività strutturale e funzionale del montaggio ha messo a punto un oggetto nuovo, o sta manifestando una nuova categoria di quel manufatto.
Com’è buona regola nell’alta retorica e nella bassa cucina, Burroughs parte qui da una quantità limitata di ingredienti per raggiungere un enorme numero di combinazioni. Dispone di questa felice partenza fantascientifica, e di una ricca esperienza teppistica fra il Marocco e il Messico. Computer ben temperato, ed efficientissimo trovarobe, congegna dunque un 1976 e un 1988 senza più benzina in un mondo invaso da un gangsterismo frenetico, da fellinismi e bunuelismi intermittenti, e da prevedibili sviluppi della moda stracciarola: «Abiti da barboni della Bowery apparentemente macchiati di orina e di vomito ma esaminati da vicino si rivelano fitti ricami d’oro fino, cappelli di feltro stagionati su vecchi drogati, abiti di seta gialla da coolies cinesi, completi alla Graham Greene per agenti segreti e malandati che sono cattivi cattolici in missione senza crederci troppo…».
I ragazzi selvaggi vivono in branchi nel deserto marocchino, si riproducono ritualmente per partenogenesi, esercitano le crudeltà più vistose, e stanno conquistando l’Africa e il mondo nonostante l’intervento dei governi e il disappunto dei turisti.
Di tutto questo, a Burroughs importa poco. Nell’abilissima costruzione del suo manufatto, riversa piuttosto brandelli di fumetti eccezionalmente Kitsch su misteriosi templi indiani e agenti della Cia tutti d’un pezzo; osceni album pornografici sulle prodezze dei bambinacci messicani marchette; battute patriot tiche di colonnelli appartenenti sia alla tradizione di Kipling sia alla maggioranza silenziosa del Middle West; rozze tenerezze fra taglialegna alla Jack London; preziosi sentimentalismi «anni Venti» fra giovinetti dorati alla Fitzgerald; ispezioni cliniche e dermatologiche; quadretti dell’orrore su una Monaca Verde che tortura i piccoli focomelici; e molti, molti altri ritagli e rifiuti di filmini di quart’ordine e di paperbacks da edicola losca, con un gusto dello spaventevole mortificante molto più perentorio di ogni fantasia di Andy Warhol.
Con un’iterazione che sembra teorizzata, anche questa, da Barthes («una parola può essere erotica a due condizioni opposte, ambedue eccessive: se viene ripetuta a oltranza, oppure al contrario se è inaspettata, succulenta per la sua novità…»), passa e ripassa continuamente nel fittissimo tessuto dell’assemblage il flash ossessivo di una sodomia stilizzata, ricorrente come una cellula sonora privilegiata in una composizione seriale. Ma forse a Burroughs interessa soprattutto lo sguardo, in cui il narratore si identifica programmaticamente, totalmente, smascherando, ribaltando i pregiudizi del Nouveau Roman: volta a volta obiettivo fotografico e cinematografico, occhio d’avvoltoio, o di pesce, polaroid indiscreta, zoom malevolo, pupilla di voyeur incollata al buco della serratura o alle macchinette del peep show, con un’attività inesausta e febbrile di cambiar lente e di mettere a fuoco. Il risultato è strepitoso.
Anni e anni dopo, a un’infelice mostra–vendita romana di suoi modesti quadri e schizzi vari (in un’ottima galleria di Piazza Mignanelli), ho provato inutilmente a parlargli. Era del tutto «andato» o «stonato», malgrado l’occasione di promotion e vendita. Mutismo. Nessun suo accenno, fra gli scoraggiati astanti («nella astanza», si usava dire allora) a un pranzo dai galleristi, dopo. Eppure si offrivano in commercio operine opinabili, però sue, benché passate di moda. E magari qualche anziano visitatore era in vena di frugali acquisti come investimenti. Macché.
Assenza.
Allora, più cortesi memorie. Il compito e sentito «Thank you» di Beckett dopo un totale e richiesto silenzio al suo fianco, in una prolungata e animata prova da lui diretta di Waiting for Godot ai Riverside Studios londinesi, con gli ex–detenuti californiani di St. Quentin – Estragon e Vladimir ad Alcatraz! -, quando ormai erano morti i suoi registi fiduciari, e dunque si sobbarcava alla fatica di correre sgolandosi e agitandosi continuamente in palcoscenico per spiegare e illustrare a quegli americani del tardo Novecento i lazzi e i gorgogli del tradizionale va rietà pecoreccio nelle periferie londinesi, un secolo prima: le annate germinali di Chaplin, evocate in Limelight. E il grande flashback sardonico e guitto di Laurence Olivier nell’Entertainer di John Osborne… Togliendo qualunque sospetto di pensosità o profondità. Che lezione di stile. Come star vicini a un Vate che spiega gli storici «vieni avanti cretino» dell’Ambra Jovinelli ai detenuti immigrati di Rebibbia.