MARY MCCARTHY
La Donna Saccente appare frequentemente, nelle società più seriose e ridicole: come istituzione culturale o come personaggio di commedia, macchietta da cocktail–party o calamità di costume. Non soltanto in Italia o in Francia: il più efficace profilo della «megera letteraria» contemporanea si deve ai professori Horkheimer e Adorno, in un capitolo della Dialettica dell’illuminismo più cannibalesco delle Preziose ridicole.
In tutt’altre società – meno seriose, non già meno seriealligna invece, per tradizione, la Donna Brillante. Anche lei «dice la sua». Sempre; generalmente su tutto. Sa, anche, tutto.
Ma con malizia, mai con sussiego. Nei paesi anglosassoni, si tratta d’una professione full time: praticamente, un servizio pubblico.
Donna Brillante non sarà dunque la gran romanziera. Per Ivy Compton–Burnett o per Muriel Spark, l’ironia non è che uno strumento. Come la struttura perfidamente antiquata delle loro storie. Deve servire, prima di tutto, a un fine. Fornire una risposta non equivoca al dubbio fondamentale: «Perché mai, oggi, uno scrittore intelligente e moderno, se ha delle “tesi” non narrative da sostenere, dovrebbe scegliere proprio la narrativa come “mezzo” per comunicarle? Non esistono altri “canali” più adatti?». Così, le autrici di Daughters and Sons e di Memento Mori entrano di diritto nella «grande tradizione» di Jane Austen e di George Eliot, anche se nella loro indifferenza al nostro secolo finiscono per risultare molto più «nuove» della flebile Sarraute o della molesta Duras.
Nemmeno saranno Donne Brillanti, a ogni costo, le signore che praticano la Recensione. Nell’Italia di Pietraio Bianchi e Alberto Moravia questa professione non esiste ancora, tanto vero che manca perfino il vocabolo per definirla, quale sarebbe il femminile di recensore? Ma su quasi tutti i giornali inglesi molta critica (preferibilmente cinematografica) viene normalmente esercitata da signore, che si chiamano quasi sempre Penelope.
Penelope Gilliatt, Penelope Mortimer, Penelope Houston… Però, anche se esercitano la professione con brio, la loro qualifica sul mercato rimane indiscutibilmente quella di «donna critica». Cioè, un’attività fondamentalmente burocratica, legata come risulta a una scadenza settimanale inevitabile: dunque affine al mestiere della columnist, la «spiritosa per forza» che deve sempre sorridere e far sorridere in data fissa – anche «con lo strazio nell’anima» – come nei Pagliacci di Leoncavallo.
Spesso la Donna Critica tende a trasformarsi in Donna Pensosa, come per rivelare una vocazione profonda alla saccenteria.
Ma non di rado questa seriosità appare come un mero travestimento per la frivolezza. Nessuno riesce più volubile della Saccente. E non sempre la Seriosa resiste alla tentazione d’intervenire nelle più disparate questioni (purché «alla moda»), nei più lontani dibattiti (purché à la page), sugli argomenti di smodata attualità e diversissimo peso specifico: purché scottanti.
Magari con scarsa competenza specifica, e confuse conoscenze dirette. Identificandosi con la (il?) bas–bleu, la Seriosa divora insieme la strategia nucleare e la scultura pop, la chirurgia cardiaca e la pubblicistica del dissenso, la scenografia d’opera, McNamara, e il Piper Club.
Si risentirebbe moltissimo, la bas–bleu, se Dean Rusk o Douglas Sirk o Godard, o i Rolling Stones, o il Dottor Barnard, emanassero dei giudizi letterari sulla sua opera, magari sulla base di qualche frettolosa informazione giornalistica. Però nessuno la tratterrà dall’emettere giudizi musicali o militari o diplomatici o medici, quando si tratta di saltare con entusiasmo o sarcasmo sul vagone della discussione «che fa notizia». Anche sulla sola base di qualche articolo di quotidiano. Anche quando la sua «posizione da chiarire», in fondo, rimane l’unica possibile per una persona decente: i «no» alla guerra o al razzismo, da cui solo un insensato potrebbe mai dissentire. Così riesce a trasformare in una boutique o in una villeggiatura anche le «cause» più gravi e più tragiche. Perfino il Vietnam…
… Né più nè meno come nel Trenta, quando una famosa amica di Maiy McCarthy partì per la Spagna in guerra dopo aver chiesto a tutta la New York radicale quale abito da sera portarsi dietro. Come anche oggi, del resto: quando il teatro più «avanzato» rivela a un pubblico di mezza età che i nazisti – trentanni fa – erano malvagi. E magari introduce il nuovo termine di Shoah.
Mary McCarthy rimarrà invece per sempre il prototipo top della Donna Brillante. Anzi, ha esordito, una trentina d’anni fa, addirittura in qualità di «donna brillante per donne brillanti»: così come esistono rarissime specie, i «musicisti per musicisti» e i «poeti per poeti»… Sempre molto bella, molto elegante, molto tranchante: ma a questi tre requisiti indispensabili per qualunque Donna Brillante, sovrappone continuamente l’uso di un’intelligenza incantevole, inflessibile. Non ha soltanto scritto dei gran bei saggi che lasciavano il loro graffio chic su tutta un’epoca; e perfino un eccellente romanzo «ben confezionato» quando ha deciso d’arricchirsi in una volta sola e senza troppo dolore… Né sarà, giustamente, una «miglior cuoca», così come Ezra Pound poteva essere «il miglior fabbro». (Rammento ancora che il suo primo marito Edmund Wilson ricordava sbigottito il pentolone di allpurpose food cucinato ogni due o tre giorni e servito a colazione e a cena… Come del resto, proverbialmente, chez Niccolò «Nica» Tucci, a New York). In realtà, attraverso i dilemmi culturali di alcuni decenni intricati, ha distribuito con vera generosità una quantità di giudizi certamente «brillanti», ma (alla distanza) profondamente giusti. La sua qualità, la sua classe, vengono fuori proprio «alla distanza»: ogni sua scelta è libera, e denota un animo nobile. Così Mary McCarthy ha finito per redimere addirittura un intero cognome, ormai imbarazzante e quasi compromesso, dopo quel tristo senatore.
Nuove «donne brillanti» appaiono poi frequentemente. La Whitehom, la Brophy, la Freeman, sgallinano in Inghilterra su due terreni inesauribili: i dissennati pregiudizi borghesi, e i bizzarri incontri di viaggio. In America (e di rimbalzo, in Italia) la Sontag scavalla invece nel campo della Cultura Alta. Lavorano enormemente; e sembrano eccezioni considerevoli alla solita regola per cui l’importanza accordata a un’autrice dev’essere direttamente proporzionale al peso specifico del marito scrittore. Come dote primaria, hanno lo zelo: nella verve amarognola, nella ieneria spiritosa, nella svagata soperchieria. Si divertono molto, giocano continuamente. Trasformano Mein Kampf in «Mein Camp», e Homo Faber in «Homo Fabergé». Ma una spina le tormenta aspramente: c’è sempre un annoso flirt con la Narrativa, che non va bene davvero.
Perciò vengono volentieri paragonate alla McCarthy, e la pubblicità dei loro volumi ricorre anche a fascette maligne e villane, che dicono «Mary, fatti in là». Però il paragone sta malissimo in piedi. Susan Sontag sembra una zanzarina eccitata da troppi pollini, mentre la grande Mary è una fortezza volante munita di giroscopi cospicui. A parte ciò, la McCarthy è stata una bellezza famosa, mentre la Sontag può a malapena definirsi «un tipo». E comunque, Mary si è formata quasi soltanto sui classici, mentre Susan frequenta esclusivamente i modernissimi.
Qui Susan ha avuto talento, abilità, fortuna: come Ardengo Soffici che va a Parigi e ritorna a Firenze parlando degli impressionisti per primo. Certamente, il primo viaggiatore che avrà «importato» il cubismo in Libia o il nouveau roman nel Libano avrà avuto notorietà e successo, nel Libano e in Libia. Gli Stati Uniti sono una cassa di risonanza indubbiamente più poderosa, per qualsiasi operazione; e anche, nel loro costante isolazionismo culturale, paiono inspiegabilmente in ritardo, sovente, per molte «specialità» europee. Soprattutto sul terreno della speculazione teorica. (A New York, ancora negli anni Sessanta, a cena col meglio della «New York Review of Books», le domande più frequenti ai visitatori stranieri erano: «E bravo, questo Lévi–Strauss?», «Dove pubblica, Bachelard?», «Vale la pena di tradurre un po’ di Barthes?»). Ecco i moventi della fortuna di Susan Sontag: un’importazione massiccia e tempestiva di formule e tecniche messe a punto dalla «nuova critica» francese, in un vasto ambiente intellettuale che non le conosceva di prima mano, e le giudica attractive, engaging, fascinating, tantalizing, ed eventualmente refreshing. Ma ecco anche i limiti di un’assimilazione così supponente: mai una riflessione teorica e anche ironica sul senso dell’eclettismo intelligente dei «modelli» come Roland Barthes.
L’attività del «nuovo critico» nutrito di strutturalismo è morfologica.
Tende a conoscere un organismo letterario «dall’interno», non a emanare un giudizio di valore. Esplora un’opera tralasciando tutte le vicende e le circostanze che si trovano «al di fuori». Strumento privilegiato di conoscenza, saggia temi, sistemi, costanti stilistiche: alla ricerca delle strutture formali che corrispondono alle strutture dell’immaginazione… Penetrare in un’opera! Ecco il sogno affascinante della nuova critica francese: «installarsi in una struttura per cogliervi insieme i moti dell’immaginazione e i disegni della composizione»… Questo è il senso delle operazioni delicate e ardite di G. Poulet e M. Raymond e Ch. Mauron e J.-P. Richard e J. Starobinski e J. Rousset e L. Goldmann e R. Barthes, del loro cauto possibilismo nel «tentare» su un’opera moderna questa o quella finissima chiavetta selezionata negli arsenali di Valéry e di Heidegger, di Husserl e di Focillon, di Spitzer e di Blanchot, di Auerbach e magari di Lukacs (e messa a punto collaudandola «in profondità» sui testi di Mallarmé, di Racine, di Flaubert…). Col sospetto che tramite le ideologie vi si possa introdurre il contesto, di soppiatto… O magari contaminazioni fra Ovest ed Est, tipo Divan di Goethe… Negli entusiasmi divulgativi di Susan Sontag, invece, strutturalismo e «nuova critica» appaiono come una cattedratica operazione culturale in tutto omologa al programma politico di De Gaulle: ristabilire oggi la supremazia francese del Seicento, coi medesimi strumenti oratori del Seicento. Cioè, irradiare alcune parole magiche e intimidatorie (grandeur, profondeur, rayonnement, foisonnement) in un mondo senza più Salons che ormai pronuncia compattamente Càravelle, Càmembert, Citroen, Càlvados con l’accento sulla prima sillaba… (Mentre il fascino savio e ostinato di Mary McCarthy «funziona» ancora, come trentanni fa, sulla sua decisione di veder tutto coi propri occhi, e ragionar solo con la propria testa. «Pagando di persona», intrepidamente, come i reporter della «vecchia scuola».
Analizzando sia Madame Bovary, sia la guerra del Vietnam, senza «effetti» e a tutti i livelli: dai trattati internazionali alle condizioni igieniche nei lebbrosari, al gergo burocratico degli ufficiali «indottrinati»).
Mary, la andai a trovare nel suo pianterreno a New York, nel ‘59. Poi ci si rivide per anni a Roma: abitava in un ammezzato sopra un autosalone in via Salaria; ma la sua amica di riferimento, Carmen Angleton, stava nel palazzo Gaetani Lovatelli.
Ci si vedeva abbastanza spesso, mentre invano spingevo alcune avventurose amiche intellettuali a precederla in The Group scrivendo in gruppo le loro vivaci esperienze recenti e correnti. Ma più tardi, quando uscirono le sue lettere a Hannah Arendt, trovai che le descriveva i comuni conoscenti, come Chiaromonte e Moravia, aggrappati per prima cosa al telefono fisso in anticamera in ogni casa ov’erano invitati. Rilevava che almeno un giovane scrittore lombardo la aiutava con la pelliccia; ma, aggiungeva, è a Roma da poco e diventerà come gli altri.
A Parigi, Mary fu «la prigioniera del Huitième», perchè in quel costoso e scomodo arrondissement doveva restare legalmente domiciliata durante le pratiche del divorzio in vista dell’ulteriore marito Jim West. Dava il suo meglio ai Premi Formentor. A Salisburgo si stava con Gabriele Baldini, in un albergo movimentato dalle trame delle giornaliste inglesi coi protagonisti di The Sound of Music. Da St–Raphaël si andava a St–Tropez, dove lei si bagnava nel mare gelido proclamando: «I’m such a nordic woman!». (Ma ne seguirono artrosi). Negli ultimi anni, si era trasferita con Jim a Parigi, in fondo a Rue de Rennes; e aveva tappezzato l’appartamento di «carte di Francia», nonché imparato a cucinare piattini francesi.
Può sconcertare, in The Group, la struttura narrativa assolutamente convenzionale; e ne abbiamo discusso. Però nell’ambito di questo schema di «tutto riposo» tutte le attenzioni dell’autrice si rivolgono alla rappresentazione «critica» del Colore del Tempo degli anni Trenta, risolta attraverso il linguaggio.
(Ma non riproducendolo documentaristicamente: il «ripensamento» è condotto con strumenti impalpabili, ma più espressionistici che non impressionistici, e questa si può considerare una «interpretazione autentica»).
Come critico teatrale, Mary divenne sempre più tranchante.
Anche ad alta voce. «Those gangsters!», quando Valli e De Lullo misero in scena il Sesso debole di Bourdet in un Ritz pieno di ricchi americani «anni Trenta», quando ormai dopo il ‘29 non esistevano più. «Where are the monkeys? I want the monkeys!» a Parigi, dove Luchino Visconti aveva riempito di maschere e giocolieri Dommage qu’elle soit une p…