VISITA A EDMUND WILSON

Il maggior critico vivente è una figura affascinante e formidabile: patrizio americano appassionatamente «patriota» e perpetuamente in esilio in patria, lavoratore di un’operosità e un accanimento ormai leggendari, mente d’una finezza e un eclettismo addirittura sconcertanti… Ma a sessant’anni passati, la sdegnosa solitudine dei due maggiori scrittori americani viventi, Wilson e Faulkner, il loro rifiuto un po’ misantropico e un po’ snobistico di venire a patti con gli Stati Uniti come attualmente si trovano – in nome di una «tradizione americana perduta» e talmente idealizzata da rasentare il Mito – è un partito preso di tale imponenza da richiedere qualche indagine da vicino. E tanto più nel caso del solitario di Cape Cod. A differenza del solitario di quella contea del Sud col nome difficilissimo, Wilson ha indimenticabilmente lavorato nel cuore di tutti i fatti culturali significativi degli ultimi decenni; e quando accadeva qualcosa di importante, lui era sempre là, sul posto, a preparare ragguagli per i suoi contemporanei. Sempre così precisi, e così acuti, da funzionare come cronaca illuminante «a caldo», e (senza ritocchi) «far Storia» più tardi.

Venti libri almeno, monumentalmente, lo provano: dai grandi saggi proustiani e joyciani di Axel’s Castle all’interpretazione ragionata del leninismo in To the Finland Station, dallo scintillante giornalismo letterario degli anni Venti newyorchesi agli svariatissimi interessi della maturità capricciosa e altera. Gli ultimi selvaggi. I manoscritti del Mar Morto. La grammatica russa.

L’imposta sul reddito. Il Dottor Zivago. Il Marchese de Sade. L’etnologia degli Irochesi. La Guerra Fredda. La letteratura popolare della Guerra di Secessione. La cultura canadese… Nonché un suo svago favorito: dileggi e vessazioni per T.S. Eliot.

Tanti anni fa Wilson si era proposto d’inventare un «genere» letterario indispensabile per la salute d’una società letteraria: la recensione «ad alto livello» ma di grande leggibilità. In America non esisteva. Subito il lavoro di Wilson ha superato ogni fastidiosa querelle (anche futura) tra critica recensoria o giornalistica e critica accademica o specializzata, respingendo come aperto nonsenso quella ripartizione in categorie, irrilevante rispetto alla Grande Critica fatta dai Grandi Scrittori.

Con quali mezzi? Sotto quali forme?… Un intenso interesse per i libri di cui si parla (e per i loro autori, per il loro tempo)… Una profonda scaltrezza nell’uso indipendente del mestiere giornalistico… Infine, la puntigliosa passione di «fare soprattutto degli articoli che possono diventare saggi, i quali, a loro volta, diventeranno libri».

Così Wilson dimostrava (intanto) che non c’è nulla che non si possa fare con lo strumento della recensione, «modo» polimorfo capace di tutto, «genere» goloso e invadente e disposto a tutto – perfino a usurpare mansioni e funzioni di qualunque altra forma letteraria… … Ma così (inoltre), il Gran Critico – e Grande Scrittore – sa risultare ugualmente geniale e sottile e sofisticato e impegnatissimo, sia nei vasti saggi che richiedono dieci anni di schedature, sia nei pezzetti «d’attualità» estemporanei e brillanti e apparentemente «buttati giù in una sera». Wilson recensisce tutto con la stessa ilare alacrità di Chaplin imbianchino quando, con una pennellessa in mano, dipinge assolutamente ogni cosa che gli càpita sotto. E l’appetito sembra abbondante come nel ‘25. Né la volgarità nè l’eccentricità nè la scemenza nè la rarefazione riescono ad arrestare la gran macchina della curiosità di questo illuminista dalla testa dura. Divora quietamente, per gli altri e per sé, una gran massa eterogenea di curiosità soprattutto locali: la saggistica di John Peale Bishop, la narrativa di James Branch Cabell, il giornalismo di H.L. Mencken, le memorie di Sheilah Graham (tardiva amante di Scott Fitzgerald), la favolistica in slang, i miti cavallereschi del Vecchio Sud, i fasti yankee del New England. Sogguarda con diffidenza i pallidi prodotti della «seccante» e «deludente» Inghil terra – il «fenomeno» Kingsley Amis, il proustismo di Durrell, le ricorrenti stravaganze dei dons di Oxford – occasionalmente lieto di riconoscere l’emergenza di Angus Wilson, la capacità di Auden, i limiti di Snow, le ire di Leavis, la monotonia di Powell, i pregiudizi di Nicolson… S’incuriosisce continuamente per gli epistolari e gli inediti di letterati recenti e defunti Shaw, Beerbohm, Swinburne – e gli antichi interessi politici si ridestano a proposito di Laski, di Kennan, di Theodore Roosevelt.

Mette qualche bastone fra le ruote a Malraux. Intervista volentieri se stesso, con verve amabilissima. E di tanto in tanto, serenamente, s’abbandona all’eccentricità lui medesimo: e allora, saggi sulle vespe, sui funghi, sulla sintassi ungherese, sui cartoons di Edward Gorey. Ma le sue «extravaganze» più accurate riguardano principalmente i luoghi comuni letterari contemporanei.

E qui il capriccio funziona sovente come castigo.

Finalmente, negli anni Quaranta, si accinge a raccogliere i materiali per lo studio dei fondamenti della patria cultura, arrivando a riunire una quantità enorme di documenti quasi sconosciuti, con scrupolo d’archivista maniaco, e col fine di offrirli alla meditazione e all’ammirazione di un paese che rilutta a trovarsi faccia a faccia col proprio passato.

Se quindi, a un certo punto, quest’uomo volta silenziosamente le spalle a una nazione che non riesce più a riconoscere, e praticamente la rifiuta, e con la medesima alacrità intrepida passa a occuparsi successivamente degli aspetti etnologici delle civiltà primitive degli Zuni, dei manoscritti del Mar Morto, della decadenza di T.S. Eliot, dei significati allegorici del Dottor Zivago, delle traduzioni nabokoviane dell’Evgenij Onegin, della drammaturgia di Ferenc Molnâr (letto nell’originale ungherese), e infine impiega parecchi anni studiando unicamente i costumi degli Irochesi, bisognerà pur cercare di intendere le ragioni per cui questo patrizio americano di origine ingleseolandese, amico–nemico di Hemingway e di Fitzgerald, arriva al termine della sua evoluzione intellettuale a trovarsi in una posizione morale molto simile a quella del nostro Lampedusa (che non per nulla – me l’ha detto lui – lo interessa straordinariamente).

Per capir meglio Wilson, si usa vederlo come «l’ultimo gentiluomo» che si sente d’essere, nella profonda convinzione di rappresentare l’estremo prodotto di una tradizione sociale e culturale, quella dell’aristocrazia puritana del New England, di cui Henry James è stato un frutto fra i più squisiti, e che si è dissolta almeno dai tempi di Theodore Roosevelt. A proposito della storia intellettuale dell’ultimo Ottocento americano, Norman Podhoretz osserva che la società chic della costa atlantica («the men in the clubs of social pretension and the men of cultivated taste and easy life») ha reagito in due maniere caratteristicamente dissimili, a seconda degli umori dominanti in due generazioni successive, alle straordinarie conseguenze dell’espansione economica che ha trasformato l’antica America a partire dal 1870.

Agli inizi della loro Età d’Oro, i giovani patrizi intellettuali laureati a Harvard e a Princeton e a Yale potevano provare tutt’al più risentimento e sgomento, di fronte a un gruppo di fenomeni che si presentavano per la prima volta, con un peso massiccio, a travolgere la «vecchiavita» e le sue «buone cose»: le invasioni di masse di immigranti dall’Europa orientale e meridionale, il predominio della «mentalità commerciale», la «bassezza di spirito» sempre più diffusa; e intanto l’attività politica cessava d’essere l’onorevole vocazione di una classe privilegiata, faceva presto a diventare uno sporco giuoco di boss corrotti. (Ancora oggi, attraverso certi isterismi di Faulkner, singolarmente analoghi ai bizzosi rimpianti di Bianche Du Bois nello Streetcar Named Desire, si sente bene lo sdegno impotente di una classe già dabbene che va in malora, di fronte alle «volgarità» imposte dall’invadenza degli ultimi venuti).

Ma una generazione dopo la situazione appariva ribaltata.

Gli eccessi tipo Febbre dell’Oro andavano temperandosi da soli, e il «crogiuolo americano» aveva fatto il suo lavoro. Così i giovani intellettuali aristocratici, che intanto avevano letto Shaw, Wells, Nietzsche, Ruskin e Morris, avevano molta più fiducia nelle proprie capacità di dominare il «materialismo» della vita nazionale; e per di più sentivano finalmente il coraggio di rivoltarsi contro le repressioni imposte da quelle cupe virtù puritane che avevano reso infelice Twain e fatto scappare James.

I meno ricchi e i più spregiudicati fra questi giovanotti si dichiarano addirittura «rivoluzionari»; e comincia a venir di moda il Greenwich Village.

A questo punto compare Wilson.

«La casa dove abito apparteneva alla mia famiglia e ora appartiene a me; è stata costruita con la pietra delle cave locali alla fine del diciottesimo secolo. Noi avevamo l’abitudine di passare l’estate qui a Talcottville. La riunione di famiglia nella vecchia casa, d’estate, era ancora a quei tempi una caratteristica della vita americana nell’Est, specialmente nello Stato di New York. Man mano che il West si spalancava, le famiglie del nostro Stato cominciarono a disperdersi sempre più lontano, e questi posti diventarono points de repère: avevano una vera funzione unificatrice e stabilizzatrice. Come la mia generazione crebbe, e i più anziani morirono, noi non tornammo più a Talcottville così spesso. Lo trovavamo un posto noioso, e preferivamo andare in giro; eppure ogni tanto mi piaceva venire quassù da solo, quando non trovavo niente di meglio da fare, e passavo settimane ininterrotte di lettura, passeggiando o facendo dei lunghi bagni nel fiume ogni pomeriggio…».

Queste «riflessioni dell’autore a sessantanni», al principio del decimo e ultimo saggio (dopo gli altri nove dedicati alla religione, agli Stati Uniti, alla guerra, all’Europa, alla Russia, agli ebrei, alla educazione, alla scienza, e al sesso) nel breve libro A Piece of My Mind, tra le cose migliori che Edmund Wilson abbia mai scritto, mostrano chiaramente la «specie di radicalismo stoico e pugnace, carico di una viva pietà emotiva per il passato» che Angus Wilson ha notato in tutta l’opera del vecchio savio; e certamente non mi sembra di conoscere un’altra autobiografia intellettuale moderna così semplice e alta, lucida e commovente, se non le pagine di Santayana sul «campus» di Harvard e il Contributo alla crìtica di me stesso di Croce. Le sue poche parole a proposito del mondo morale perduto del padre e degli zii, e del crepuscolo di tutta la loro generazione, sono impressionanti molto più che non le analisi dei giovani eruditi venuti dopo a studiare lo stesso periodo: «Essi erano stati educati a Exeter e Andover e in una Princeton che era ancora la stessa del diciottesimo secolo. In seguito si erano preparati, come i loro padri, per quelle che una volta si chiamavano le professioni colte; ma poi avevano dovuto avere a che fare con un mondo in cui questo genere di educazione e il tipo di ideali che essa osservava non contavano in realtà quasi più nulla. Questi uomini, dal momento che avevano finito gli studi, venivano sottoposti a confuse tentazioni, pressioni formidabili, insidiose diversioni di propositi; e le disgrazie fra di loro furono terribili. Dei migliori compagni d’università di mio padre, non ne rimaneva più nessuno, quando arrivò sulla trentina: tutti gli altri erano morti, e alcuni si erano suicidati.

Mio padre, quantunque avesse molto successo, non si curava di accumulare denaro o di tenersi alla pari con le abitudini di lusso, che dalle nostre parti arrivavano addirittura alla stravaganza.

Come molti americani che avevano studiato Legge, in gioventù aveva pensato di dedicarsi alla politica; e c’è una lettera indirizzata a mia madre da Exeter – scritta nel 1880, quan do lei studiava alla Abbot Academy – dove è incluso un ritaglio di giornale che parla della visita alla scuola di un candidato repubblicano per il posto di governatore: “Questi ragazzi della Phillips Academy” dice il giornale “sembrano proprio splendidi; ci devono essere parecchi futuri governatori in mezzo a loro, e certamente qualche prossimo presidente”. A Princeton mio padre era diventato famoso come oratore; ma la carriera politica in cui aveva sperato era concepita nei classici termini repubblicani…».

Basta voltare una pagina, ed ecco il termine ultimo del dramma: «Alla fine sono arrivato alla conclusione che come americano io appartengo più o meno al diciottesimo secolo (o, tutt’al più, mi trovo non troppo dopo gli inizi del diciannovesimo).

Non guido la macchina, e mi piace poco viaggiare in quel modo; non ho mai fatto progressi oltre la bicicletta. Non posso sopportare la radio; però suono spesso il grammofono, che mi dà, come non può darmi la radio, esattamente la musica che voglio, esattamente quando la voglio. Ho visto pochissimi programmi alla televisione, e non vado quasi mai al cinema (una parola che continuo a detestare come la prima volta che l’ho sentita). Ho smesso di cercare di vedere di prima mano quello che succede negli Stati Uniti; e i miei movimenti seguono tutti un ordine regolare, che mi permette di evitare le cose che mi annoiano e mi dànno fastidio. Vivo di solito in due case di campagna vecchio stile: Wellfleet in Massachusetts e Talcottville nello Stato di New York, con visite di qualche giorno, o settimana, o mese, a New York e a Boston, dove rivedo i miei vecchi amici e tratto i miei affari, e gite occasionali a Washington, Charlottesville e Princeton. Non voglio mai più essere seccato da quel genere di conflitti contemporanei che avevo l’abitudine di andare a esplorare. Non muovo neanche un dito per tenermi al corrente con i giovani scrittori americani; e spero solo di avere il tempo di arrivare alla fine di qualcuno dei classici che non ho mai letto…».

Eppure questa è la voce di un uomo sempre vissuto con la passione del vivere dentro i fatti della cultura, conoscerli di prima mano, capirli, spiegarli, e illuminare gli altri «notabili», col sentimento di consapevole americanismo di una vecchia élite anglosassone fiera di aver superato la crisi decisiva, e con la fiera baldanza congratulatoria degli autori degli anni Venti quando sentono di essersi messe sotto i piedi le forze maligne che hanno fatto a pezzi Twain e Melville. Né d’altronde saprebbero immaginare una prossima alterazione della Grande Atene Moder na, corrosa dai moti più oscuri di una sociologia catastrofica, oltre che dalla repressione dei propri spasmi più vitali e più inconfessabili… Wilson tornerà sempre del resto, inevitabilmente, indietro a questa, che è la sua grande epoca: gli anni in cui lo scrittore era nuovamente pieno di fiducia nel valore delle idee, e il successo commerciale di libri e articoli di un indimenticabile gruppo di coetanei poteva ben dare a lui – come a Fitzgerald, a Dos Passos, a Hemingway, ad Anderson, a Lardner, alla Stein, e a tutto il resto del loro «Ali–Star Literary Vaudeville» – la sensazione precisa di stare lavorando ad arricchire la tradizione in mezzo all’attenzione affettuosa e alacre di una comunità socialmente e intellettualmente omogenea.

Mai dimenticare che Wilson è soprattutto uno straordinario giornalista – e ci tiene molto, l’ha sempre ripetuto lui stesso -, tanto vero che i suoi libri più riusciti sono raccolte di saggi già apparsi sotto forma di articoli nelle riviste più diverse (mentre non è il caso di ricordare le sue scarse opere narrative, che valgono poco, e i suoi versi, che sono addirittura orridi). La sua incredibile attività durante gli incomparabili anni Venti è quella di un uomo talmente entusiasta della vita culturale del proprio tempo da andarne a esplorare gli aspetti più diversi con lo stesso calore di intelligenza, e sapienza, e partecipazione, e simpatia, e con la stessa serietà intellettuale che gli viene dalla tranquilla certezza – ancora secondo Podhoretz – che la Repubblica delle Lettere abbia una esistenza non meno concreta e tangibile della Repubblica francese. Basta del resto osservare il mirabolante pot–pourri di The Shores of Light e Classics and Commercials, per vedere subito come i suoi interessi divorino assolutamente tutto, letteratura di tutti i tempi, arti figurative, musica, spettacoli d’ogni tipo, dal teatro al cinema al café chantant, e più d’un curioso fait divers di costume newyorchese, e lui veramente appaia sempre in moto da Dante a Cechov a John Barrymore a Dorothy Parker, da Jane Austen ai clowns e ai thrillers come a Catullo e a Proust: e la passione è veramente pari alla convinzione che tutto ha un senso e tout se tient.

L’orribile momento della Grande Crisi trova Wilson impegnatissimo in un lavoro tutto «specializzato», per una volta, e di dimensioni assai ampie. Si trattava adesso di spiegare criticamente a un vasto pubblico colto americano il senso dell’epifania dei simbolisti; e non sono certo ancora finite, specialmente da parte dei New Critics, le discussioni sul presupposto che esistesse davvero un pubblico americano così colto e vasto da seguire quelle sottili analisi testuali dell’opera di Proust, Joyce, Eliot, Valéry, Yeats… Non si sono mai più visti, intanto, libri di «divulgazione» a un livello così alto come Axel’s Castle; e del resto una delle conseguenze del disastro economico del ‘29 fu probabilmente quel distrarre o disperdere tutto un possibile tipo di lettori «illuminati»… Già le sue considerazioni sulla rivoluzione simbolista terminavano con la curiosa riflessione che «ricomincia a farsi pressante il problema se è possibile riuscire a fare un successo pratico della società umana, e se, continuando noi a mancare a questo compito, bastino pochi capolavori, anche i più profondi e i più nobili, per rendere la vita degna d’essere vissuta anche per la poca gente in grado di apprezzarli».

Maturo, dunque, per cadere nelle stesse trappole di Gide e di parecchi altri, anche Wilson parte per il suo viaggio in Russia nell’anno più giusto o più sbagliato, il ‘35, e ne ritorna con alcune osservazioni abbastanza singolari sulla somiglianza fra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti nell’eliminare le differenze di classe, sulle loro comuni divergenze con la vecchia Europa un po’ amata e un po’ respinta dall’orgoglioso yankee isolazionista, e sul bene che l’ideale socialista potrebbe sicuramente fare agli americani «molto più che non agli stessi russi».

Da questo momento, e per qualche anno, le straordinarie doti di intuizione e di lucida applicazione di Wilson vengono interamente dedicate a un lavoro che è insieme storico, biografico e ideologico: To the Finland Station, la storia degli sviluppi della dottrina socialista dalle prime origini utopistiche a Marx ed Engels fino a Lenin e Trotzkij. Il cammino dalle letterature classiche al simbolismo rivoluzionario e socialmente innovatore viene cioè ripetuto qui in termini politici, dal liberalismo tradizionale un po’ whig a una specie di radicalismo umanitario, un mitico materialismo dialettico che si propone di cambiare il mondo però sbatte subito contro gli angoli di un individualismo fin troppo risoluto, inevitabili dato il carattere del personaggio Wilson.

Ecco quindi un equivoco che non poteva, anche nel suo caso, durare a lungo. E bastato che i giovani intellettuali americani di sinistra, alla vigilia della seconda guerra mondiale, esagerassero un po’ con quelle fissazioni venute poi di moda anche da noi, di cercare subito in un libro il suo significato sociale, senza guardar troppo se sia bello o brutto, perchè Wilson cominciasse a disgustarsi col pensiero marxista. Durante un esaurimento nervoso, verso la fine degli anni Trenta (se ne vedono tracce nelle meditazioni sulla neurosi e la malattia, nei saggi di The Wound, and the Bow), ebbe modo di riflettere a lungo sulle cause, differentissime, del doppio fallimento degli anni Venti e degli anni Trenta nel suo paese; e ne venne fuori con un rifiuto doloroso e patetico del presente, e insieme del recente passato, sempre più convinto che nulla conti al di fuori della personalità individuale e delle forze dello spirito. A questo punto, alla vigilia della guerra, Wilson si ritira definitivamente nel passato di un’America puritana, rurale e frugale, elegantemente isolazionista, piuttosto libresca, fedele ai princìpi morali di Emerson e di Thoreau; e non arriva mai più al di qua della Amministrazione Theodore Roosevelt, con la sua «grande flotta bianca» che caccia la Spagna dal continente e difende gli ideali repubblicani «storici». I suoi incredibili furori contro l’Inghilterra – e più tardi contro il «traditore» Eliot – sembrano addirittura invettive di un ufficiale bostoniano ferito nella battaglia di Lexington… Questo nazionalismo repubblicano non gli ha però impedito di imparare negli ultimi anni il russo e l’ebraico e l’ungherese per capire bene le finezze di Turgenev e della Genesi e addirittura di Ferenc Molnâr, nè di dedicare qualche settimana o qualche mese a un argomento «extravagante» che lo affascina di tanto in tanto nella cultura europea oramai messa al bando; ma la maggior parte del suo lavoro recente si è venuta svolgendo sui testi dei vecchi scrittori americani da raccogliere nei grossi volumi di The Shock of Recognition, per tracciare nella letteratura nazionale una certa linea «patriottica» e anche abbastanza conservatrice. E alla fine, apparentemente disgustato della civiltà Wasp di tutti i periodi, si è rivolto a uno studio lunghissimo e profondo dei costumi degli Irochesi, cercando di individuare presso di loro la «tradizione americana» più vera, e qualche auspicio di salvezza per un paese che giudica nelle condizioni più preoccupanti e sinistre.

Chiuso nell’amaro egoismo delle due case di pietra, uguale oramai a un rappresentante della tragica generazione di suo padre («troppi miei amici sono morti, o impazziti, o si sono convertiti al cattolicesimo, e fra questi alcuni dei più brillanti; e due si sono uccisi»), lasciando intendere che tutto quello che si fa in fondo non conta nulla, Wilson pare dunque attualmente scomparso; e gli scrittori più giovani, che ne parlano in termini di post mortem, assicurano che, con tutta la sua fede nell’importanza delle cose dello spirito e nella responsabilità degli scrittori per mantener viva questa fede nella civiltà, i soli due modi di trattare il suo caso sono di venerarlo, oppure di ignorarlo del tutto.

Allora ho chiesto di andarlo a trovare.

In estate ho cominciato a scrivergli per vederlo; stavo a Harvard, e le sue brevi letterine di risposta mi arrivavano da Talcottville su una meravigliosa carta di riso; ma partendo da Cambridge il viaggio lassù era troppo complicato. Il giorno dopo che avevo lasciato definitivamente Boston e il Massachusetts per New York, lui però passava nella casa di Wellfleet, in un’ansa appartata del Cape Cod che da Boston si raggiunge neanche in mezz’ora, con l’aeroplanino di linea che mi era già capitato di prendere più di una volta per passare i weekends a Provincetown.

Allora, un paio di telefonate fra New York e Wellfleet com’è vero che mai per incontrare un letterato europeo la trattativa è così complicata… – e finalmente un suo telegramma piuttosto brusco mi fissava un giorno e un’ora per arrivare con questo aeroplanino, aggiungendo che si sarebbe trovato all’atterraggio. Così, partendo da LaGuardia una mattina abbastanza tardi, si trova subito la coincidenza a Logan; ma è un giorno qualunque, e mancano i giovanotti gai con le loro borsine da weekend, nell’abitacolo solito. Ci sono invece una ragazza–gatto, in pelliccia di nylon, che fa le fusa accanto al pilota, un vecchio rubizzo in soprabito blu, altissimo, una grande sportiva arrossata col Placido Don in mano, e due vecchie signore chic, una in tailleur di shantung grigetto, l’altra in princesse cilestrina, una col cappellino di paglia, l’altra col turbantino di velluto, con la veletta tutte e due, a pastìglie, e vanno evidentemente a una cerimonia all’aperto.

Il tardo pomeriggio è stupendo sulla laguna, e si riverberano grandiosamente i raggi del sole che escono dalle nuvole e dalla nebbia, tra i fumi delle fabbriche altissimi. Passato il braccio di mare, l’aeroplano si abbassa, e ai margini del campo ho subito lo shock e l’impressione di vedere l’amico Pietràio Bianchi con un gran panama bianco in testa. La somiglianza fra i due è straordinaria: anche Wilson è piccolo, grosso, deciso, aggressivo, sicurissimo di sé, con la faccia rotonda e il colorito acceso, i capelli grigi tagliati molto corti, e una moglie alta e slanciata che guida la macchina. Tutti lo conoscono e lo salutano, e si ferma a parlare con parecchi. Subito si parte, però parliamo, e attacca subito a dare indicazioni circa certi studi dell’antropologo Lewis Morgan sulla società indiana primitiva. «Mi sento molto più ottimista di due anni fa, quando ho scritto quegli schizzi autobiografici» dice con calore; e osserva che il merito è in gran parte di queste ricerche sui costumi degli Irochesi: lo hanno riempito di speranza… «Dopo la partenza dei missionari, una volta finito il loro la voro, è proprio sorprendente (ma càpita…) che nessuno si sia mai più occupato di studiare la struttura della loro società, o quel vero mistero che sono i loro rapporti col mondo attuale… Del resto anch’io fino a un paio d’anni fa non ne sapevo assolutamente nulla, e me ne sto interessando da un punto di vista storico, non critico… Le mie letture adesso sono specialmente di sociologia… Gli interessi, i più vari… Diciamo, più da illuminista che non da critico letterario… Insomma, tanto per semplificare: Diderot… Toutes proportions gardées, beninteso… «Gli inglesi non hanno mai capito il senso della storia culturale del nostro paese» dice, mentre si arriva alla casa; entriamo.

«Ma noi, come ci riempiamo di orgoglio ogni volta che si riconsidera quel meraviglioso periodo appena prima della Guerra Civile – i grandi anni 1850 – quando sono stati prodotti i più grandi libri della nostra letteratura, Walden, Moby Dick, Leaves of Grass, il meglio di Hawthorne, e magari uscivano quasi insieme Hiawatha e Uncle Tom’s Cabin, ed erano al lavoro contemporaneamente Emily Dickinson e Oliver Wendell Holmes…». La casa è in realtà un complesso di minuscoli villini, con ali e dépendances costruite in successivi periodi, collegate da verande e corridoi dalle pareti chiarissime, con mobili e stoffe di pochi colori, dal marrone cupo al giallone al beige, tantissimi libri a ogni parete e tanti vecchi oggetti. «Poi la Guerra Civile ha interrotto tutto, si capisce; e la letteratura è andata a terra per parecchi decenni, squallidi e senza interesse… Bisognava aspettare almeno fino al 1910, e poi il vero Rinascimento americano non è arrivato che coi grandi anni Venti; e allora è stato splendido, incomparabile. Non potete avere una idea, voi, di cosa sia stata quella fioritura trionfale di tutte le arti, della filosofia, della letteratura, della critica, di tutto…».

Fra molte stanze non grandi, non saprei quale possa essere il suo studio: dati i tavoli, le scrivanie, i libri, i mucchi di riviste, almeno cinque o sei andrebbero benissimo. Sediamo, ed è quasi il tramonto, l’ora dei grandi bicchieri di whisky. «Cresciuti in quel periodo,» dice «come ci si sente diversi dalla gente venuta dopo… Che differenze enormi, intanto, al di qua e al di là di quella linea di demarcazione profonda che è stata la Grande Depressione… Addirittura, è necessario parlare in due modi tutti diversi, rivolgendosi a persone venute fuori durante l’uno o l’altro decennio… Non hanno mai più avuto una idea della nostra libertà, e della dissipazione immensa, di quello straordinario fermento intellettuale che è culminato nel New Deal… Però bisogna sempre tener presente che prima della Depressio ne c’erano anche molti più soldi in giro… e quindi una maggiore libertà… La bourgeois gentility aveva grandi possibilità di coltivare le arti, di viaggiare… E veramente la Depressione colpisce e ferma tutto… Bisogna improvvisamente che il lavoro diventi più pesante e più spiacevole… Un’intera generazione conosce per la prima volta che cosa sia la fatica… Uscivano dalle loro scuole, e non sapevano più cosa fare… Imparavano per la prima volta il valore dei soldi… E certo, adottavano il marxismo… E spesso, sempre non sapendo cosa fare, entravano nella vita accademica… Così, quasi indifferentemente… Si assomigliano tutti…».

Passiamo in un’altra stanza, più chiara, con le bottiglie e i bicchieri, ed è versato nuovo whisky. «Io sono molto tipico di quel periodo. I contatti li ho persi dopo; e i suicidi di parecchi amici cari hanno contribuito a tagliarmi fuori. Dopo la guerra, poi, tutto è ancora cambiato, e ora veramente il paese è una cosa diversa; e la letteratura, anche. E una illusione ottica europea il credere che abbia un senso attuale da noi la letteratura di ieri che voi amate, Dos Passos e Hemingway…».

«E Faulkner, allora?» chiede rientrando la signora Wilson.

Ma lui risponde con un sospiro.

«Dos Passos e io abbiamo in fondo lo stesso tipo di rapporti coi giovani che gli scrittori della fin–de–siècle avevano con noi; ed è molto malinconico. La questione è poi che quelli sono morti; mentre noi siamo qui, ancora vivi… L’unico nella grande tradizione, quella degli anni Venti, mi pare Salinger…».

«E il nostro Updike?…» chiede la moglie.

«Sì, è bravo, viene su bene, anche lui un rampollo del “New Yorker”, molto rarefatto… Dicono che ha scritto un bel romanzo breve, The Poorhouse Fair, molto scarno, molto insolito… Ma cosa c’entra? Io leggo Dante, leggo Puskin, e più si va avanti più preferisco questo tipo di grandissime personalità, che non hanno mai subito influenze da altri… e tanto più grandi per questo… O sentire Verdi, grandissimo, vivissimo, romantico, vero… Puskin, certamente, che ha fatto Gogol, Turgenev, Lermontov, tutti insieme e prima di loro… E Dante, immenso per tutti, per tutti… anche per un vecchio scettico umanista protestante, che lo rilegge adesso, e trema… Ho letto la Divina Commedia nei miei giorni di scuola, verso il 1913-16, e in un lungo viaggio in Italia nel 1921 (Venezia, Pisa, Firenze…) la cosa che più mi colpì fu proprio una Lectura Dantis a Firenze: che bellissime declamazioni… Dos Passos l’ha letta, la prima volta, per merito mio! L’ho persuaso, non la conosceva… Ma l’ha trovata subito straordinaria… piena di suspense, poi, diceva… Vi si è but tato dentro, per una settimana non è più riuscito a far niente… E anche se non pensava, come me, che l’ultimo canto è la cosa più grande in tutta la letteratura d’immaginazione… rimase sconvolto dalla gran forza del pensiero politico di Dante… “Ma allora noi abbiamo sbagliato tutto!” è venuto a dirmi. E non voleva più scrivere… L’ha riletta tre volte, subito!».

Sembra il momento più giusto, quest’ora crepuscolare, per chiedergli se magari anche Scott Fitzgerald leggeva Dante: questo Fitzgerald amico e piuttosto discepolo di Wilson a Princeton, lanciato e consigliato da lui con affetto, e nello stesso tempo sempre considerato niente più che uno sciocchino ignorantello e incapace, pieno per caso di incantevoli doti.

Ma Wilson, col suo bicchiere in mano, brontola, sbuffa: «Cosa volete mai che leggesse… quello… Brava persona… prodigiosamente dotato… ma non sapeva nulla…». «Come, non leggeva?».

«Libri seri, mai». Eppure, nelle note postume del famoso volume The Crack–up, edito proprio da lui, Wilson, «assigning commas, setting accents right», come dice in quella prefazione che è una delle sue cose più commoventi, si parla di Maupassant, di Flaubert, si dànno giudizi… Ma Wilson seccato borbotta ancora che «per carità di patria è meglio non andar tanto a rivangare in quello che abbiamo dovuto metterci noi, in quelle note» (o forse, probabilmente, ma non credo, sono io che capisco male: fa buio e si parla a voce bassa, bevendo…). «Ma allora non li leggeva, Stendhal, Balzac?…». «In francese, certamente no, mai, neanche una riga; li avrà visti magari in qualche pessima traduzione di terz’ordine. Per quanto… no: Stendhal, mi pare proprio che non lo conoscesse».

Proviamo una domanda stupida: vuol bene ai romanzi? Ma me lo risponde immediatamente, che è stupida: «Non ci penso mai; la Divina Commedia certo è un romanzo; e allora! Ulysses cos’è?… Non ho mai pensato a un romanzo come “un romanzo”…». E accende la luce; e andiamo a mangiare.

La cena è semplice e breve (pesce, riso in salsa rossa, crema, vino), con la moglie e la figlia, una grossa bambina di dodici anni che ne dimostra sedici, e va a cavallo sulle dune, bionda, con la sua stessa faccia, silenziosa.

«Però, l’umore va veramente molto meglio che non due anni fa» insiste, davanti al suo tortino. «E sono stati i due anni passati a interpellare capi indiani!». Qui viene fuori tutta la straordinaria storia che ha assorbito i suoi interessi per tanto tempo, ed è stata raccontata in parecchi articoli sul «New Yorker» e nel volume Apologies to the Iroquois, pieno di quei suoi nuovi motivi di speranza che vengono proprio solo dagli indiani, in quanto testimoni di una tradizione americana più autentica delle altre, e prova evidente – secondo lui – della possibilità che una tale tradizione possa essere mantenuta.

E chiaro che l’argomento lo appassiona, e vorrebbe parlarne a lungo volentieri; ma la moglie, che non lo abbandona un attimo e frena le sue esclamazioni, suggerisce che non sarebbe corretto, perchè è un momento difficile, il libro sta per uscire, e non sarebbe opportuno anticiparne brani lunghi o corti a chicchessia.

Quindi lo induce con garbo a ripetere piuttosto notizie già apparse sul «New Yorker» e non soggette a copyright.

(Mi scriverà, poi: «Le mie inibizioni a discorrere sul libro indiano non c’entravano con questioni di copyright, erano dovute semplicemente al fatto che non volevo lasciar riferire di seconda mano le mie critiche al governo federale e statale per la loro conduzione dei casi indiani allora pendenti in giudizio prima che questi non fossero stati risolti, e prima che io stesso decidessi precisamente che cosa ne avrei scritto…»).

Dopo aver creduto per anni – come tutti, del resto – che gli indiani superstiti delle grandi stragi non fossero altro che attrattive patetiche e passive per i turisti, e non si occupassero altro che di finte danze rituali, bevute di pessimo whisky, e fabbricazione di pantofole, Wilson si è dunque reso conto a un tratto, e come per caso, del loro deciso risveglio nazionalistico, della loro identità altamente consapevole; e ha cominciato a interessarsene con passione, forse in seguito alle delusioni provate a contatto degli europei e degli americani bianchi (fra cui non trova proprio più nessuna differenza culturale), forse anche guidato dalla tendenza attuale di tutti i suoi connazionali verso film e spettacoli televisivi di carattere western, che può essere un segno sia di nostalgia per il buon tempo antico quando tutto nella vita era più semplice e sano, sia anche dell’ancestrale rimorso a causa dell’espansione ottenuta per mezzo del genocidio.

Gli indiani di cui si è occupato formano una comunità particolare di oltre ventimila persone, detta la Confederazione delle Sei Nazioni; e vivono a poca distanza da casa sua, nella parte settentrionale dello Stato di New York, e al di là del confine canadese, presso Montréal. Nessuno ne parla mai; ma il loro status è assai curioso: non sono cittadini americani, non votano, non pagano tasse, e i loro rapporti col governo degli Stati Uniti sono regolati da speciali trattati vecchi di due secoli; per trarre profitto dall’osservanza di queste antiche clausole, han no sviluppato una sensibilità giuridica che ha del diabolico, e si attaccano a ogni pretesto per trascinare il governo di Washington davanti a tribunali di ogni ordine e grado. Nel 1916 hanno dichiarato guerra alla Germania; ma non nel ‘41; cercano di essere ammessi alle Nazioni Unite, come entità statuale distinta; sono perfettamente al corrente degli sviluppi dei nuovi Stati che emergono in Asia e in Africa, e sanno tutto delle lotte razziali nelle diverse parti del mondo; scambiano emissari e promesse con Fidel Castro; e naturalmente Kruscev sapeva bene che cosa stava dicendo, quando ribattendo a Dulles che lo accusava di opprimere l’Ungheria, gli ha risposto secco di pensare piuttosto ai poveri indiani conculcati di casa sua.

Uno studio di Joseph Mitchell, The Mohawks in High Steel, racconta la straordinaria storia del risorgere della loro coscienza nazionale, in circostanze incredibili. Da generazioni dunque gli indiani avevano assistito dalle valli dove erano stati cacciati al sorgere di immense imprese e all’accumularsi di immense fortune sulla loro antica terra: dighe, autostrade, fabbriche, grattacieli. Sempre più attaccati ai princìpi che non al denaro, avevano ceduto per poco o niente diverse zone delle loro terre, soddisfatti tutt’al più di venire trattati da pari a pari, quasi come una nazione sovrana. Ma negli anni recenti, osservando crescere le impalcature sempre più alte di tubolari d’acciaio che si usano ormai in tutte le imprese di costruzioni, molti di loro rimanevano tanto affascinati dallo spettacolo dei tubi che andavano su, che dopo qualche tempo di osservazione silenziosa e attentissima hanno cominciato a chiedere di salire, per la sola gioia di arrampicarsi, e a passeggiarvi sopra di notte, con entusiasmo da bambini. Naturalmente è andata a finire che le imprese hanno offerto grosse somme perchè si fermassero a lavorare, in posizioni dove qualunque altro operaio rilutta a spingersi; e gli indiani hanno accettato subito. Sono felici di andare sempre più in alto, correndo sui tubi come quando mettevano un piede esattamente avanti l’altro per traversare i loro torrenti su un palo; non soffrono di vertigini, e non cascano mai.

Attualmente ce ne sono molti gruppi in giro per gli Stati Uniti (e parecchi sono impegnati nella costruzione del grande canale del Saint Lawrence), in cerca di lavoro da un posto all’altro, con la medesima intraprendenza dei loro antenati: con la differenza che questi tornano a casa carichi di dollari, televisori, automobili, invece che di pelli di animali uccisi. Dappertutto dove si trovano, si mantengono uniti e conservano tutte le tradizioni della vita di clan (pochi parlano inglese, e quei pochi con l’accento delle truppe britanniche del ‘700, detesta no specialmente i francesi, sempre per antichi rancori, qualcuno è cattolico, qualcuno protestante, la maggioranza è pagana); saltano sulle loro automobili ogni volta che c’è bisogno della loro opera, partono veramente come in spedizione, ma invece di correre dietro ai nemici, afferrarli per il ciuffetto di capelli sul cranio raso, e scotennarli, naturalmente aiutano a costruire una civiltà che hanno sempre sentito ostile o indifferente; però non se ne lasciano influenzare affatto, e appena finito tornano alle loro baracche, al regime di vita primordiale e matriarcale della loro tribù.

V.S. Pritchett avrà adesso ragione di osservare che in un momento pieno di curiosità per la rivolta «beat» contro il «modo di vivere americano» simboleggiato nei grandi organismi e nell’«uomo dell’organizzazione», allora i veri Beats sono questi indiani… Ma il lato più singolare della ribellione indiana è che si manifesta molto più sottilmente attraverso continue azioni giudiziarie: per esempio, attualmente il grande progetto della diga del Niagara, con lavori per l’ammontare di una incalcolabile cifra di milioni di dollari, è tenuto bloccato da una azione finora vittoriosa davanti alla Corte Suprema da parte di una tribù indiana che non vuol cedere un suo pezzetto di terreno, si oppone con la resistenza passiva a qualunque tentativo di espropriazione – trattati alla mano – e ride in faccia a tutte le offerte di colossali indennizzi che naturalmente le vengono fatte.

Non solo: ma con la forza dell’esempio stanno contagiando buona parte della popolazione bianca, rimorchiata ad avanzare rivendicazioni a cui prima non aveva mai certo pensato: la difesa del paesaggio, tanto per cominciare.

«E gente che pensa continuamente alle proprie origini mongoliche,» spiega Wilson «e sono perfettamente al corrente di quello che sta succedendo in Cina. Sanno benissimo che l’india è riuscita a liberarsi, che il Ghana è ora uno Stato indipendente, e che l’Algeria sta lottando per diventarlo presto. Oramai hanno capito che i bianchi perdono terreno, e cominciano ad essere apertamente stufi, come del resto le altre masse colorate, della loro prepotenza. Dopo decenni di immobilità obbligata, ora trovano che è il momento favorevole per affermare la propria identità nazionale, perchè si rendono conto lucidamente che dopo tutte le nostre chiacchiere contro i russi e i tedeschi, loro sono in grado di ricattarci, facendoci fare la figura degli oppressori, in nome degli antichi trattati… Cuba ha già promesso di appoggiare la loro richiesta di ammissione alle Nazioni Unite… E l’eterno gioco delle minoranze…Come quando si diceva in Europa che le difficoltà dell’Inghilterra sono tante buone occasioni per l’Irlanda… E non senza ragione in una delle loro feste rituali più popolari si vede un serpente bianco che succhia il sangue al serpente rosso, ma poi arrivano un serpente giallo e un serpente nero…».

Nonostante un po’ di gotta, Wilson è andato a vedere numerose cerimonie presso gli Irochesi, sempre benissimo accolto, specialmente dai più giovani; e ha cercato di vederne i significati antropologici e psicanalitici: però si fa tardi, e del resto queste descrizioni finiscono per costituire uno dei capitoli più interessanti di questo nuovo libro, che si chiama Apologies to the Iroquois (cioè «Scuse agli Irochesi»), proprio perchè lui intende sinceramente scusarsi con loro per non essersene mai occupato prima, quale patriota americano pensoso delle sorti della nazione. È inutile aggiungere che li ama molto – si vede benissimo - e sta dalla loro parte fino al punto di dichiarare che gli americani, pazzi come sono ad affidare la società moderna nelle mani dei tecnici che stanno distruggendo la vera essenza del paese, avrebbero tutto da guadagnare ispirandosi alla serietà e alla consapevolezza degli indiani, nella loro difesa dei valori autentici e fondamentali e della «identità» profonda dell’antica America, che non vanno sacrificati o confusi con le dighe e coi grattacieli: «altrimenti ci si dimostra stupidi come chi lascia liberi i castori in un bosco…».

Dopo cena, si chiacchiera a lungo, davanti al camino acceso, di comuni amici, dei loro libri, delle loro mogli; e poi, sopra un po’ di brandy, di quel viaggio in Italia nel ‘21, e dell’altro viaggio, quello da cui è nato Europe Without Baedeker (di cui non parla troppo volentieri), nel ‘45, con Alvaro, Morra, Moravia, Silone. E poi ancora Verdi, «autentico romantico», il Macbeth sentito adorandolo, col libretto alla mano; e Menotti, e Britten, «geni teatrali, ma la loro musica è graziosa anche al grammofono».

E il teatro? Male: Miller, rozzo; Beckett, va benissimo; il resto, non esiste.

E questi scrittori nuovi, insomma?

«Macché. Sto anche degli anni senza occuparmene, perchè non mi interessano proprio niente. Ci sono tante cose che mi importano di più; per esempio, curare una edizione di Classici Americani, che incredibilmente manca. Esiste solo una piccola collana di classici del New England, ma è veramente troppo modesta. E invece bisognerebbe cominciare una grande collezione sul tipo dei Classici Laterza».

(Ancora una sua correzione: «Henry James non era un New Englander e non amava troppo il New England. In uno dei suoi volumi autobiografici dice qualcosa come “nessuno con un minimo senso delle differenze regionali americane avrebbe mai potuto scambiarci per dei New Englanders”. I James erano una famiglia irlandese di Albany, New York, dove si era stabilito il nonno appena arrivato dall’Irlanda. E neanch’io sono un New Englander: la famiglia di mia madre emigrò dal New England allo Stato di New York alla fine del diciottesimo secolo, e gli antenati di mio padre furono tra i primi pionieri a stabilirsi nella parte centrale dello Stato»).

La moglie interviene ancora spesso, a suggerire che un argomento o l’altro può essere off–the–record, e così arriviamo presto alla fine. Cosa sta facendo? Prepara, da anni oramai (dal ‘54), una raccolta di documenti sulla letteratura della Guerra Civile, «fatta da chi vi ha partecipato»: è l’argomento del primo corso mai tenuto da lui, princetoniano, a Harvard, per questo anno accademico; e ne verrà fuori naturalmente un nuovo libro, sui materiali delle lezioni. Ma sono le dieci, e va a dormire.

La signora Wilson mi guida a un alberghetto vicino, graziosamente coloniale, coi vecchi peltri e le antiche caraffe.

Torno a uscir subito, e la notte è buia, fredda: tira vento dal mare, e vien giù una pioggerella leggera, e bagna le canne ai bordi della strada di campagna. Suona un campanilino; non c’è in giro nessuno. La passeggiata e il molo sono deserti. C’è una osteria di falegnami, verniciatori di motoscafi, ma con poca gente: un juke–box spento, una donna anziana in calzoni, poche chiacchiere, birra, freddo. A letto subito.

La mattina dopo la signora Wilson passa con la macchina, per portare la figlia al galoppatoio e me all’aeroporto. Porta tanti saluti, ma lui sta lavorando alle lezioni per Harvard; e lei ne approfitta per cercare di togliere quelle impressioni di ostruzionismo della sera prima: «Lui parlerebbe sempre, di tutto, ma su molti argomenti trovo che non sia opportuno, quando certi giudizi possono poi venire divulgati, oppure se si anticipano delle riflessioni che sono copyright Ai qualche rivista… e allora non è corretto, non le pare?».

«In realtà, legge tutto,» dice poi, già davanti all’aeroplano «ma è naturale che gli interessino specialmente i giovani inglesi o francesi. Quali? Non credo che sarebbe molto corretto renderlo noto; però so che giudica Genet il migliore di tutti: e anch’io del resto penso così». (Lei appartiene a una distinta dinastia dello champagne, in Europa).

Così riparto per Boston e per New York. Stavolta c’è una sola passeggera, ma è molto vestita: colbacco di peluche verde, soprabito beige con una losanga marrone alta un metro sulla schiena, stola di visone chiaro, tacchi alti; e va direttamente a Los Angeles.

Un anno dopo, ricevendo questa intervista sulla «Illustrazione Italiana»: «Speravo che almeno stavolta un italiano mi chiamasse il Wilson, e invece è andata male: nessuno mi conferisce quel vostro articolo che mi piace tanto»… Due anni dopo: «Era uno scherzo. Max Beerbohm una volta ha fatto una caricatura di Ezra Pound in Italia, e l’ha chiamata il Pound. EW».

Poco più tardi, visita dei due Wilson a Roma, e pranzo di quartiere: cioè, aperitivi da me in via del Consolato, pochi passi a un’effimera brasserie spagnola in via Giulia (suggerita da Paolo Milano, ma poco buono), e finalmente da Mario Praz nella «Casa della Vita».

Wilson, a tavola tra Giulia Massari e Franca Valeri, fa i complimenti alle belle manine bianche della Franca. Paolo gli chiede cosa gli faceva da mangiare Mary McCarthy quando erano sposati. Smorfia: un pentolone di allpurpose food ogni lunedì, da riscaldare durante la settimana. Praz e Gabriele Baldini discorrono di ruoli e di cattedre, e non intrattengono troppo l’ospite.

Poi, chez l’Anglologo, un paio di marionette automatiche vengono tratte di sotto i divani, e danzano caricate a molla mentre siamo alle prese con liquori variopinti.

Ne uscirà un magnifico pezzo sul «New Yorker», intitolato The genie of the Via Giulia (ovvero, «genietto»): eccelso ritratto di Praz, «prima di tutto, artista» e «personalità unica che si esprime attraverso la propria arte in connessione con qualunque argomento di cui tratti», nonché inventore di una categoria, ilprazzesco, «combinazione privata e irripetibile di macabro e stravagante e grottesco e incongruo e bizzarro»: «I suoi libri sono gabinetti di curiosità. Nulla Praz assapora meglio che un pezzo di mostruosità poco nota…».

America Amore
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