IL PRANZO IN PIEDI

Il pranzo in piedi finisce per essere il rito sociale preferito dalla maggioranza di quegli americani d’oggi tanto tranquilli da stringerci il cuore, specialmente perchè può svolgersi molti milioni di volte sempre secondo le stesse regole immutabili e fisse. E questo è un grosso sollievo per la padrona di casa e anche per i suoi ospiti, tutta gente quieta, perbene, che odia le novità e le sorprese. In un pranzo, necessariamente, prevale il mangiare sul bere, e non è probabile che gli ospiti pasteggino a whisky. Si corrono quindi molti meno rischi che non a un cocktail–party, magari prolungato, dove se anche a un certo punto vien fuori il risotto o lo spaghetto, o il salmone affumicato, o il pollo in gelatina, si sa che si comincia bene, ma non si sa mai come può andare a finire.

A un cocktail–party, non dovendo tenere il piatto in una mano e nell’altra le posate, gli ospiti avranno sempre il loro bicchiere, anche per evitare il nervosismo della mano vuota, che viene ai timidi quando non sanno dove metterla. Ma i bicchieri usano sempre più grandi. E per di più si tratta di gente che beve tutta volentieri, in ogni sesso e ogni età. Quindi, via un martini l’altro, via uno scotch l’altro, magari meccanicamente, senza badare, senza contarli, c’è sempre il pericolo che a un certo momento possano capitare cose «spiacevoli»: una moglie che mette le mani su un marito non suo; oppure, travolto dai «daiquiri», qualcuno potrebbe cominciare a dire tutto quello che pensa, in faccia a tutti, magari cose che stava covando da un pezzo. E questo è sempre giudicato sconveniente nelle classi medie. In qualunque tipo di società, com’è noto, al contrario del proletario e dell’aristocratico, il borghese cerca di non dir mai in faccia alla gente quello che ha in testa, e abbellisce piuttosto il proprio linguaggio con qualche affettazione un po’ circospetta. Nelle classi medie americane, poi, il parlar chiaro in tutto quello che non riguarda le questioni di soldi è considerato addirittura sconvenientissimo. Due persone, appena presentate, si domanderanno per prima cosa, come se niente fosse, che mestiere fanno e quanti soldi guadagnano, cioè le frasi che tanti europei morirebbero invece di rivolgere a un primo venuto (e che fanno effettivamente morire l’inglese abituato a rispondere balbettando «I suppose…» anche quando gli vien fatto capire che importa sapere se una cosa la sa sì o no – opposizione binaria – mentre quello che suppone o immagina non interessa a nessuno). Ma negli Stati Uniti anche più che altrove chi esprime semplicemente, con una qualche sincerità, le proprie supposizioni, e peggio che mai se sono sentimenti di minoranza, passa per un maleducato abbastanza infido, forse un po’ debole di mente, certo asociale, e comunque uno che non sa comportarsi in mezzo alla comunità.

Meglio, molto meglio, quindi, lasciare l’uso del cocktail–party con tanti liquori ai ricchi, ai viziati, agli spregiudicati, ai mondani.

Rischino loro che qualcuno, perseguitato da una coscienza scioccamente colpevole e intenerito dai martini e negroni, possa scoppiare a piangere per il rimorso di una cattiva azione vista al cinema dieci anni prima, e che da allora lo perseguita tipicamente, americanamente. Oppure qualcun altro, convinto di essere un fallito nella vita, potrebbe scegliere questo momento per proclamarlo ad alta voce, ammettendo di non riuscire «popular», cioè simpatico alla gente, e chiedendo pubblicamente alla moglie di aiutarlo e di stargli vicina. Il disperato monologo di auto–accusa, per quanto possa parere una conseguenza di Dostoevskij, è un altro momento americano fin troppo tipico, e si sa che vien fatto discendere direttamente dalle usanze tradizionali delle comunità più o meno puritane di pionieri, dove pericoli gravi sono sempre in agguato, e c’è bisogno dell’unione e della collaborazione di tutti per farvi fronte.

Se qualcuno pecca, la migliore letteratura dell’Ottocento è lì a dimostrare che diventa infido. E allora, in mancanza di giudici e tribunali sul posto, la confessione pubblica sarà indispensabile perchè la comunità perdoni il colpevole, lo riammet ta nel proprio seno, e gli conceda un fucile per combattere insieme a tutti gli altri contro i Sioux che stanno arrivando. In tempi più recenti, a seconda della «popolarità» di un individuo, la comunità può invece far concedere o no un’apertura di credito, che servirebbe a mandare i figli a scuola o a comprarsi l’automobile: basta dare informazioni buone o cattive quando la banca locale le manda a chiedere.

Meglio, meglio quindi, in una famiglia tranquilla, organizzare un buon pranzo, e lasciar perdere i liquori forti. Quelli vanno bene quando si è soli o fra pochissimi amici seduti. Le scene provocate dall’ubriachezza, ai parties o nei pubblici esercizi, sono dovute anche al fatto che generalmente quando uno ha bevuto troppo e si sente male, non fa come da noi, non va a dormire; insiste, invece. Da noi, non si tiene a farsi vedere in giro in quegli stati: la gente non gradirebbe. Anche nei paesi più sperduti e indietro, l’ubriaco della domenica sera, in piazza, viene considerato un po’ come «il più stupido del villaggio».

Ma per gli americani, così abituati a provare i loro sentimenti collettivamente, sembra che anche soffrire e star male insieme agli altri dia un certo sollievo. Il vero orrore sarebbe arrivare a casa, e doversela cavare da soli. Non per nulla cercano sempre di andare, anche per divertirsi, durante le vacanze, dove c’è più gente. Se un posto è solitario, per loro è un brutto posto. E si capisce anche la mania per le radioline portatili: rappresentano una compagnia, un surrogato della conversazione che non sanno sostenere, e un altro ancora dei tanti papà putativi che li accompagnano per tutta la vita, dando consigli e ordini, come il padre vero non si è mai sognato di fare. In questo modo, uno non si sente mai solo. Ha sempre con sé una vocina tipo Grillo Parlante che gli dice cosa mangiare, che gelato prendere, che sigarette fumare, dove andare stasera. E anche naturalissimo che a un certo momento, al momento del nodo alla gola, trovino più sopportabile dire «sì, sono uno sciagurato», aggiungendo eventualmente «ma non lo farò più; lo prometto», davanti a un pubblico di spettatori e di testimoni (scaricando, nello stesso tempo, il peso della potenza puritana come si scarica una pila a terra), invece di chiudersi in una stanza e ficcare la testa in un cuscino. Il barista, pagato apposta per dire ai clienti in lacrime «sì, George», «certo, signore», «oh, come avete ragione, amico», può anche fare al protestante – com’è noto – lo stesso effetto che il cattolico si aspetta dall’apparato del confessionale, in una illuminazione ugualmente bassa. Le vignette in proposito sono innumerevoli e insopportabili. Ma è anche naturalissimo che la signora non gradisca affatto che questo rituale si svolga durante il suo ricevimento, con tutti i soldi che le costa, e allora servirà soltanto dei succhi di frutta e qualche birra.

Un europeo, dopo tutto, può sempre chiedersi che bisogno ci sia di tormentarsi tanto sul fatto di invitare degli estranei, e scervellarsi sulla questione di cosa offrire da mangiare e da bere: «Io, in casa mia, non invito mai nessuno, e vado avanti benissimo; e nella mia stessa città c’è un mucchio di gente che vive perfettamente tranquilla e rispettata da tutti, eppure non ricevono…». Ma bisognerebbe provare a essere trasferiti in una media città americana, dove non c’è niente; e questo significa proprio che non esiste niente: nessuna possibilità di difendersi contro quei nemici orribili che sono la solitudine e il tempo vuoto. Bisognerebbe provare un po’ a vivere in una società dove tutti hanno talmente bisogno degli altri che sembrano ansiosi per tutto il tempo di provare agli altri di essere a posto, e insieme di controllare che anche gli altri lo siano. E un bisogno che si manifesta continuamente, anche al di fuori della mania ossessiva di raccogliersi in clubs e associazioni. Ma se uno non riesce simpatico, non c’è niente da fare. Il giorno che chiede di essere ammesso, lo bocciano; e questo fatto ha delle ripercussioni poco gradevoli anche su sua moglie e sui figli. La moglie, da parte sua, se non riesce simpatica neanche lei, potrebbe trovarsi in una brutta situazione, mettiamo il giorno che si ammala. La cameriera non l’ha, i bambini sono piccoli, il marito a lavorare. Se non intervengono gli «altri», sotto forma di vicini e vicine, una potrebbe anche morire, tipo in un deserto.

E poi, non è soltanto una questione di dare le informazioni favorevoli alla banca per la concessione di un credito. Se uno non è «popolare», è difficile che faccia carriera in fabbrica o in ufficio; se vende qualche cosa, avrà pochi clienti; il giorno che ha bisogno di una garanzia, o vuole soltanto comprare una casa a rate (e se non la prende così, dovrà aspettare un pezzo), non gliene andrà bene una, semplicemente perchè gli «altri» non lo trovano un tipo «regolare» o «popolare».

Gli «altri» fanno dunque inviti. Bene; la padrona di casa «regolare», sapendo che questo è indispensabile per la carriera del marito, qualunque carriera, inviterà anche lei, con la stessa frequenza, e badando bene di non fare nè più nè meno degli altri. Altrimenti, sia che la giudichino un’ambiziosa o una pitocca, non è già più «regolare», e quindi non simpatica.

Non saprei se sia più commovente o più allucinante andare a questi parties, e trovarli tutti così identici. In una famiglia media e regolare – ci sono andato varie volte – si arriva vestiti abbastanza bene, ma niente di speciale, tra le sei e mezza e le sette. Se la stagione è bella, tanto meglio, tutto è preparato nel pratino dietro casa, e non si fa disordine nelle stanze: si entrerà solo più tardi, per il caffè, o se l’aria si fa umida. E se c’è una cameriera (caso molto raro nelle famiglie medie), non sarà presente.

Succede, cioè, il contrario di quello che càpita nelle nostre case. Le nostre mamme, se si trovano momentaneamente private di una servitù efficiente, preferiscono rimandare un tè.

Ma una signora americana sa bene che la cameriera a ore, ben pagata e piena di esigenze, il giorno che entra in casa qualche persona estranea alla famiglia, e lei deve lavare qualche piatto in più, fa storie e la pianta immediatamente. Perciò il giorno del ricevimento viene spesso fatto coincidere con il giorno di libera uscita della domestica, che per tutto il tempo si tiene lontana dalla casa, e va a pranzo in città.

Il problema del lavare i piatti viene risolto adoperandoli di plastica, con bicchieri di cartone e posate di celluloide. Tutta roba graziosa, divertente, bellissima di colore e di decorazione, che si compra nei grandi magazzini, costa pochissimo, e adoperata una volta si getta via. Negli angoli del giardino, semi–dissimulati fra i cespugli, ci saranno due o tre cestoni di fil di ferro, dove gli ospiti buttano man mano gli oggetti di cui si sono serviti, e i tovaglioli di carta. Alla fine del party, i cestoni vengono messi fuori del cancello, e la nettezza urbana li porta via la mattina dopo.

Sul tavolo preparato con una bella tovaglia ricamata ci saranno sempre i due candelabri d’argento, con tante candele colorate accese. Non ho mai visto, a un certo livello sociale, un pranzo illuminato dalla luce elettrica, nè in casa nè fuori: viene considerato poco elegante, mentre le candele dovrebbero dare allegria e signorilità. Accanto ai candelabri ci saranno dei grandi piatti, spesso d’argento, col tacchino e il prosciutto. E difficile che non ci sia il prosciutto cotto, generalmente di tipo Praga, tagliato a dadi. Ed è impossibile che non ci sia il tacchino, comprato già arrostito (e buonissimo) in un negozio in città.

Sono buoni, per quanto di sapore non molto spiccato, come del resto anche i polli, a causa dei sistemi di allevamento; vengono ingrassati artificialmente, facendoli impazzire, oppure assordandoli, con strane luci e rumori eccessivi, dentro gabbie dove non possono muoversi. Una volta impazziti, continuano a mangiare perchè non ricordano di avere il gozzo già pie no. E vengono anche allevati in diversi modi, a seconda della maniera in cui saranno cucinati. Quando si compra un pollo o un tacchino crudo, bisogna sempre specificare se dev’essere arrostito o bollito o se andrà al forno, perchè quelli per il lesso non possono andar per l’arrosto, e viceversa. Non ricordo se sono i polli pazzi che vanno bene per il lesso, e quelli sordi per l’arrosto, o se è viceversa; ma qualunque massaia americana le sa benissimo, queste cose.

Tacchino e prosciutto saranno comunque già tagliati a piccoli pezzi, nei piatti da portata, perchè altrimenti, tenendo il piatto di cartone in una mano, e il bicchiere di plastica con le posate di celluloide nell’altra, è chiaro che non si arriverebbe molto lontano, nemmeno quando le posate hanno una lama a dentini sottili. Su un prato, va bene, si può appoggiare tutto sull’erba.

Ma in un appartamento, in piedi, e dovendo tante volte reggere anche un piatto per una delle signore, l’operazione è spesso fastidiosa.

Non senza un motivo, naturalmente: l’imbarazzo delle persone è tanto grande che devono concentrare tutta l’attenzione sulla manovra, e quindi nessuno bada a quello che si dice, come succederebbe invece se ci si trovasse seduti a una tavola ben servita. Si tratta infatti, di solito, di chiacchiere che non significano nulla, meri suoni di convenienza che devono semplicemente dare l’impressione di un rumore sociale. Non è necessario che abbiano un senso, e basta che sommandosi producano un cicaleccio animato, perchè loro generalmente odiano l’idea della conversazione, però desiderano che l’impressione sia quella sonora di un party ben riuscito.

Tanto varrebbe ripetere quindi un po’ di tabelline del sei o del sette; ma ascoltiamo qualche discorso dei vicini, comunque: «Mi spiace di aver rovesciato il tacchino sui calzoni. Sono di nylon?». «Oh, niente, è stato solo un urto». «Aspetti; le tolgo l’insalata dalla gonna. E di quelle che si lavano e non si stirano, vero?». «Niente, niente di male; il punch non macchia».

Nel bicchiere che si tiene con tanta pena, di solito ci sarà del punch, infatti. Due giovani signore, accanto a un grosso «bowl», mescolano continuamente succhi di frutta, vino rosé, e qualche liquorino dolce col nome francese, versandoli dalle caraffe già preparate e poi ripreparate, con qualche fetta d’ananas e d’arancia che galleggia, e versano questo punch coi loro graziosi mestoli nei bicchieri che vengono continuamente porti.

In un’altra zuppiera ci saranno insalate e pomodori, raramente conditi con l’olio, che in America si usa poco, è venduto nelle farmacie, e non è buono, ma più spesso con una salsina france se. Ci saranno anche dei piatti di dolci, e se gli ospiti fossero pochi nulla tratterrebbe il padrone di casa dal cucinare bistecche per tutti sul «barbecue», vestito di berretti e grembiuli buffamente allusivi, e azionando il carbone speciale da «barbecue», la padella speciale da «barbecue», le forchette e gli occhiali speciali da «barbecue». Ma normalmente il pranzo è tutto qui.

Se la casa è più ricca, oltre magari alle luci elettriche splendenti il piatto più ricercato non manca. Il primo gradino nella sofìsticazione del menu è quello del curry e del pilaf; ma salendo più in alto si fa relativamente presto ad arrivare all’avocado, all’anatra selvatica; e naturalmente nelle case dei milionari si riceverà e si mangerà come dai milionari europei, serviti da camerieri che magari si rifiutano di assaggiare il foie gras o il caviale, e in cucina si preparano la bistecca. (Secondo un gossip di Washington, in una magione assai fine si festeggiava un tartufo grossissimo giunto da Torino. Ma venne servito bollito).

Se invece si scende alle classi proletarie, la differenza che si nota non riguarda tanto la minore capacità d’acquisto, ma la struttura stessa del ricevimento. Difficilmente sarà deciso con molto anticipo: sarà improvvisato, e soprattutto un fatto familiare, con parenti e vicini di casa. Le regole, comunque, appaiono rigidamente osservate a tutti i livelli; e non se ne esce. Càpita a un figlio di immigrati siciliani di crescere a Brooklyn, e in casa si mangia soprattutto pizza, spaghetti, sanguinacci, e si beve vino rosso. Va a lavorare nel Minnesota, nel legno, e mangia come tutti gli altri falegnami: manzo, patate, birra. Poi passa a Detroit, in una fabbrica di automobili, e comincia a far carriera: vivendo in mezzo ai dirigenti, mangiando tutti grandi bistecche, buon pesce, bevono tè freddo a tavola e bourbon di marca prima e dopo. Torna a New York ormai ricco, arrivato, va nelle case dei milionari, a feste dove si servono piatti esotici e ricercati; ma nessuna festa ha tanto successo come quelle che dà lui in casa sua, col cappello da cuoco in testa, offrendo piatti caserecci che tutti trovano sofisticati e squisiti: pizza, spaghetti, sanguinacci, vino rosso.

America Amore
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