NEW MEXICO
Tra gli alti luoghi «magici» di una cultura «densa» per molti fitti intrecci fra le idee e i miti – e gli influssi forti di un Genius Loci esoterico su uno Spirito del Tempo che si mantiene incorrotto attraverso i decenni – subito Santa Fe si potrebbe paragonare all’impareggiabile Ascona: con i suoi «pueblos» indiani al posto del Monte Verità, sopra e attorno le comunità successive di artisti erranti e intellettuali eccentrici e patronesse folli, in un «Moderno» sempre al di là delle mode nonché delle avanguardie… L’aura lucida e secca nel deserto oltre i duemila metri – dunque eccitante per i tradizionali malati di petto e cagionevoli di spirito – rammenterà ovviamente sia le magiche montagne di Thomas Mann a Davos, nonché di Ernst Krenek in Jonny Spielt Auf, e sia gli inverni espatriati e coloniali fra Marrakech e Assuan e Tangeri… Ma questa comunità ispano–indiano–anglosassone così eterogenea nelle fonti e stilisticamente unitaria, precisissima, rimane forse il più notevole esempio, insieme a Bali e a Sils–Maria, di un rifiuto molto precoce e deciso di ogni design specialmente edilizio non rispondente alla tipologia locale.
Che qui è l’«adobe» in terracotta rossastra e calda, con grandi travi e arredi artigianali (stoffe indiane spesso stupende), fra poggi lavici con gli stessi volumi e colori della Provenza di Cézanne; e fantasmagoriche luminarie di torce messicane sulle nevi e i ghiaccioli invernali; e percorsi di sci fra i boschi appe na sopra un western alla Sergio Leone… Dunque al di là del problema eventuale se il Nuovo costruito «in stile» sia poi un «falso» là dove gli Stili non sono parecchi in successione storica, ma uno solo invariabile e fermo attraverso i secoli… Soltanto forse Weimar può ricordare una concentrazione altrettanto intricata in poche case e strade adiacenti: là Goethe e Gropius, Cranach e Liszt, Wieland e Van de Velde e Schiller e!Klee… Qui, ecco la piccola cattedrale della Morte viene per l’arcivescovo di Willa Cather, fra il palazzetto primordiale ove il governatore Lewis Wallace scrisse Ben Hur e il campaniletto francescano donde si butta Kim Novak in Vertigo di Hitchcock; e là dietro i cammini per le dimore della clamorosa mecenatessa Mabel Dodge Luhan che incominciò con Gordon Craig e Gertrude Stein ad Arcetri, e finì a Taos in trionfi e litigi con D.H.
Lawrence di qua e Georgia O’Keeffe di là; e Robinson Jeffers, e i pittori della Depressione e i grandi fotografi come Weston e Adams e Strand… E tante picaresche trame intorno all’impotenza prima e alle ceneri poi del povero autore di Lady Chatterley, che sarebbero potute diventare belle opere americane di Marc Blitzstein o Sam Barber, più gustose di Regina o Vanessa: il ritorno delle famose ceneri dalla Provenza al New Mexico nel ‘35, con un comitato d’artisti in attesa alla stazione di Santa Fe, e l’urna dimenticata sul treno dalla vedova Frieda von Richthofen (congiunta del Barone Rosso della Grande Guerra) e dal suo nuovo marito, l’ex–bersagliere Angiolino Ravagli. E la cerimonia funebre, progettata da Frieda con un rituale di tamburi indiani al tramonto, ma sabotata da Mabel che spaventa gli indiani con favole di maledizioni legate alle ceneri di D.H. E poi complotta per impossessarsi dell’urna, e spargerle nella natura animistica. E allora Frieda contraria ai panteismi ordina ad Angiolino di cementare le ceneri mescolate alla calce in un grosso mattone impossibile da spargere… … Ecco, ecco le opere che ci si augurerebbe di trovare a un Festival di Santa Fe, tra le memorie delle grandi patronesse leggendarie localmente per straordinarie imprese femminili oltre che per il collezionismo folk lasciato in impressionanti musei nelle loro ex–case: meravigliose ceramiche nere eseguite fra gli anni Venti e Trenta da artiste tribali squisite che nelle loro capanne erano i Kandinskij e i Mirò del vasellame e della piatteria… Eppure, malgrado l’abbondanza d’acqua e una religione amica e complice della Natura, gli indiani abitanti degli antichissimi pueblos non hanno mai piantato fiori e alberi intorno alle loro spianate di polvere e fango, trasferendo nella sie pe e nell’aiuola il loro genio nel design della ceramica e dei tessuti… E forse anche per questo la già favolosa Taos del primo Novecento appare oggi piuttosto triste nella sua pianura piatta, coi resti del turismo hippie–bigiottiero al posto delle famose mecenatesse e scopatrici tremende… Soltanto qui, fra sterminate raccolte d’oggetti popolari d’ogni paese, ho visto degli affreschi etiopici sulla battaglia di Adua: un san Giorgio etiope che incita contro gli italiani in bianco i ras di Menelik, con occhioni come tazzine di caffè preoccupate fra tende identiche a quelle allestite da Alberto Savinio per la celebre Armida al Maggio Fiorentino; o un’installazione con la cattedrale ottagonale di Addis Abeba per l’incoronazione di Hailé Selassié nel 1930… E in giro, fra le memorie degli Hopis e dei Navajos, dei governatori spagnoli e di Kit Carson, dei frati missionari con le buone o le cattive, e della ferrovia Atchison–Topeka–Santa Fe, una quantità di musica: dalla Corale del Deserto a danze d’ogni specie al Festival di Musica da Camera con opere praticamente sconosciute di Verdi e Rossini, oltre che di Fauré e Weill, di Spohr e Rameau. E nella vastità degli spazi, che incoraggiano una sconfinata cortesia reciproca, nè motorini, nè stereo, nè venditori accattoni, nè teppisti, nè vandali, nè macchine arroganti su più file, nè concerti di antifurti, nè altoparlanti per manifestazioni di cazzate, nè famigliacce in mutande e ciabatte con piccini villani incoraggiati da parenti pecorecci… Anche prezzi molto più bassi che per le vacanze in Italia.
Santa Fe è tuttavia celebrata per il più illustre festival d’Opera negli Stati Uniti, dal 1957: con programmi più attraenti dei nostri, perchè accanto ai Puccini e Rossini e Mozart e Strauss prevalenti in ogni stagione si sono presentate qui molte prime esecuzioni pregevoli (per l’America) di Berg e Schoenberg e Stravinskij e Janàcek e Sostakovic e Penderecki e Henze e Berio e Rota e Weill; parecchia opera barocca (e proprio qui, anni fa, ricordo un ottimo Orione di Francesco Cavalli, sotto cieli trascoloranti, mirabili). E viennesi misconosciuti come Zemlinsky e Korngold; e tedeschi recenti ancora ignoti da noi come Aribert Reimann (Melusine), Siegfried Matthus (Judith), Wolfgang Rihm (Oedipus). E il teatro, aperto sul deserto, ha una struttura decisamente forte in un paesaggio drammatico.
Il loro attuale Flauto magico – a parte qualche fisima sul «politicamente corretto» nei personaggi femminili – mette un dubbio grossissimo: che veramente Mozart e Schikaneder intendessero comporre un’opera per bambini; e dunque tutti gli am massi di sottili interpretazioni variamente misteriche siano da buttare?
L’astuto regista svizzero Reto Nickler (Ginevra e Zurigo) non mostra incertezze, benché Bob Wilson già tanto abbia fatto per spogliare il Flauto dei suoi molteplici esoterismi, riducendolo a una geometria di astrazioni ottiche per bambini e turisti all’Opéra Bastille. Qui infatti la children’s opera viene proposta con gli archetipi più familiari all’animo infantile di un pubblico americano di mezza età, approfittando fino in fondo delle risorse di «avventura–come–relax» del migliore «home video». (Ma gli ingredienti del «poncif», sotto sotto, saranno stati tutti lì fin dai tempi di Schikaneder?).
Ecco infatti i «problems» bambineschi di un college boy buonissimo ma imbranato in un pomeriggio di guerre stellari; e i massimi applausi (mentre l’orchestra suona) spettano dunque al dinosauro di Jurassic Park ogni volta che manda scintillone dagli occhi, e agli uccelletti meccanici quando sfuggono furbetti alla reticella di Papageno. Ma per fortuna ci sono gli interventi delle tre matriarche tipicamente americane, e dunque sicurissime di sé nel dare direttive perentorie ai ragazzi e agli uomini impacciati e perplessi che senza di loro non saprebbero cavarsela nè nei telefilm nè nella vita. E soprattutto, nei cosiddetti «riti di passaggio», arrivano con le loro danzine i simpaticissimi Muppets che risolvono tutti i «problems» dei bambini scuotendo la testa e scrollando la coda.
Certamente le arie di Mozart intralciano l’azione: come se una maestra di canto interrompesse una pubblicità interessantissima e ottimista con la sua lezioncina da ascoltare fino alla fine.
Però Papageno canterella «I’ll stay single» e ripete «There’s nothing spiritual about me» nella più cara tradizione di Mickey Rooney; e sono tutti contenti quando ridice «Che la Forza sia con te». Piace forse meno quando fa «Dacci oggi il nostro pane quotidiano» su una pagnottella. Però ci si ritrova subito nelle puntate più familiari, coi dialoghetti fra bambocci che non escono dalle battute basiche tipo «getup», «come on», «what’s this?», «tellme!».
Dietro, abbastanza ovviamente, ci sono i soliti conflitti fra genitori estraniati; e i figli naturalmente ne soffrono, con i complessi statisticamente più frequenti, finchè in un finale forse insperato da Mozart vanno a prendere Sarastro e la Regina della Notte per fargli far la pace davanti al pubblico e mandarlo a casa contento. Ma certo, quando nella sua prima apparizione la Regina zompa in cima a una luminaria natalizia e lancia di là una gragnuola di «you! you! you!» non essendo una Gruberova e non essendo più tempi o luoghi da Ethel Merman può magari fare un’impressione scolastica, anche perchè i suoi «picchiettati» sono da esimia docente. Più tardi però scende dalla Luna e va a piedi come tutti noi, perchè basta conoscerla da vicino, e anche la Presidentessa è una brava donna che non si dà arie, come tutte le signore del pubblico, come tutte le mogli dei politici degli Stati Uniti, come quei Presidenti che non fanno tanti sfoggi di politica estera o strategia militare, e piacciono alla gente soprattutto perchè fanno le corsette in mutande e berrettino insieme ai ragazzini.
Questo è il punto fondamentale: sono tutti «regular people», persone assolutamente normalissime come te e me e tutti noi; certamente con i loro pregi e i loro problemi, come ne abbiamo tutti, però con gli stessi doveri e diritti di ognuno di noi, e «honesty» e «sympathy» e senso civico specialmente di fronte alle grandi Cause – dal pericolo nucleare al degrado ambientale che non si possono affrontare con donchisciottismi solitari, ma soprattutto in coppia fissa: il ragazzo con la sua ragazza (più tardi marito e moglie regolarissimi), in tutte le prove della vita. Inclusa l’Opera.
Per riguardo alla normalità della coppietta standard, dunque, le iniziazioni saranno merendine coi Muppets, in attesa che il «politicamente corretto» affianchi la ragazza al ragazzo anche durante i processi alle matricole tipo Animal House, e nelle caserme dove i «nonni» fanno quelle brutte cose alle reclute, e nelle docce delle palestre dove sarebbe scorretto fare discriminazioni fra il nero e il gay. E i giovani cantanti, tutti americani sotto la direzione di George Manahan, sono infatti bravissimi anche come acchiappafantasmi.
Pamina, forse, potrebbe sembrare più civetta di Musetta, o addirittura una Debra Winger o Goldie Hawn nei ruoli di barista o tassista intraprendente: ragazza d’oggi! Anche perchè, non appena liberata dalla gabbia ov’era tenuta prigioniera da una squadra di baseball in braghe turche da harem, incomincia a flirtare con tutti: da Papageno che le fa l’identikit sugli occhi e sui denti, al nero Monostatos spiritoso capitano del team, all’assemblea dei massoni in manti rossi e viola, e copricapi da eunuchi di Cleopatra. (E qui, un’intermittenza: c’erano delle ragazze nella loggia P-2, o venivano ingiustamente discriminate?
E cosa ne direbbero i massoni di rito scozzese di Santa Fe, nel loro bel tempio rosa proprio sulla strada per arrivare all’Opera?).
Ma benché lei sia una principessina interplanetaria, e dunque una cameriera di Beverly Hills, si mette con Tamino proprio perchè lui è un ragazzo uguale a mille altri; e infatti canta per lo più disteso a terra, non per fare metafore ma perchè appartiene alla generazione di cantanti giovani ormai incapaci di tenere la stazione eretta, anche per la difficoltà di dove mettere le mani durante l’interpretazione.
L’allestimento è fatto con pannelli metallici a sbalzo, laterali e girevoli contro il cielo buio di fondo; e parrebbero delle buone applicazioni di Jackson Pollock agli ascensori degli alberghi.
Il programma informa che trattasi di simboli e metafore di varia conoscenza scientifica, non roba espressionistica o astratta.
(Che sia in agguato uno stile «Cybergothic»? E la Morale: che la Forza sia coi Muppets?). I costumi coloratissimi contro il nero del cielo ricordano invece – incongruamente – quelli di Léon Gischia per i fondali ugualmente neri di Jean Vilar… Simbolicissimi saranno certamente gli anelli concentrici della piattaforma rotonda, che si sollevano indipendenti, come negli strumenti giroscopici e navigatori. E poi c’è quella cosa che piace tanto ai pubblici primitivi: il fumo in scena, come ai concerti rock. Eppure, in altre epoche, il fumo in cucina e in casa veniva considerato una quotidianità poco gradevole. Sono i Misteri del Pubblico, uguale ovunque: gli applausi all’acqua in scena, come se a casa non avessero dei rubinetti che funzionano con lo stesso principio. Gli applausi a cani e gatti in scena, magari presi a calci per strada. Gli applausi agli alberi veri sul palcoscenico, e non sulla porta del teatro, quando i vivaisti li scaricano dal camioncino, senza gli strilli dei piccoli fans.
La struttura di questo teatro d’Opera aperto sul deserto è molto energica in un paesaggio drammatico: cieli poetici e forti, alture e cespugli da importante film western, contrasti di colori violenti fra le nubi e il suolo, spazi sconfinati e primordiali. Lampi da uragano estivo, verso le montagne rocciose; o la luna di una famosa fotografia di Ansel Adams, presa proprio qui dietro.
Sul palcoscenico, l’angolino della scioretta.
Una casetta suburbana, naturalistica e in serie, con finestrelle da cui si scorgono tappezzerie da famigliuola «signorile». Un albero vero con una scaletta per arrampicarsi; e delle aiuoline da periferia di Londra.
Escono i cantanti in fila, in abiti di Settecento semplificato, e si spiegano in prosa come recitando le note del programma: siamo Romilda, Arsamene, Atalanta, Elviro, Amastre, Serse… Io sono la sorella intrigante, e io sono un servo briccone…
Si tratta infatti del Xerxes di Hândel, grande opera spettacolare della maturità ma uno di quei plots impossibili di innamoramenti e disguidi fra travestiti e controtenori con affetti non ricambiati, lettere mal recapitate, armeggi e maneggi di cameriere e parenti, incroci di equivoci incessanti per tre fitti atti e quattro dense ore, e più!
Non appena attacca l’ouverture, inizia una sfilata di macchiette, mossette, bambiiini: acquaioli e fiorai pittoreschi, la piccina per intenerire le signore, i cagnolini per strappare lo squittio compiaciuto e previsto del pubblico benevolo, il servo birichino che se la dà a gambe senza giacca e abbottonandosi come se l’avesse appena fatta grossa… Insomma, una regìa tipo Menotti, con scarsa fiducia nella musica, per il presupposto che sia tutta come la sua, e dunque il pubblico non riesca a reggerla neanche per un minuto se non viene puntellata da continue macchiette e gags visivi già visti le mille volte in palcoscenico e quindi «beniamini del déjà vu».
Come quando il Rossini buffo veniva considerato buffonesco, e quindi recitato con incessanti sciocchezze: vecchietti, smorfiette.
Sono quei registi (qui si tratta di Stephen Wadsworth) che metterebbero la caldarrostaia e l’orfanello e le arance rotolanti da una cesta anche nel Fidelio di Beethoven per aiutare in buona fede sia l’autore e sia il pubblico. E corrispondono a quei docenti faceti che spiegano Hegel in strofette, Y Eneide a fumetti, e Napoleone con barzellette ricavate da Woody Allen, per far contenti i più piccini, quindi pronti per vincere una cattedra.
E allora si possono confrontare a quei registi tedeschi che mettono qualunque classico non fra i Muppets ma fra le ss: da Elettra a Semiramide, giù in un pozzo di cemento, fra molti giri di filo spinato, forni crematori convertiti in reattori nucleari o macellerie, Despine e Zeriine in cuoio nero con borchie, pastrani lunghi, tubi e marsine da capitalisti sfruttatori, parrucche punk gialle e verdi con occhialini tondi alla Gramsci, qualche sedere fuori, e naturalmente una kamikaze che impersona Amneris… O tutto preferibilmente in un vecchio manicomio, con pazzi molto tipici e immancabilmente sfrontati, tra infermiere cattivissime… Mentre la regìa francese di gala non si allontana dal Re Sole e cerca di non uscire da Versailles; e quella inglese preferisce rintanarsi in un collegio vittoriano, con mille buffi scherzi in pigiammo, per Hândel, anche se una sua opera si ambienta alla Corte longobarda… Qui a Santa Fe risulta che per il pubblico americano – e va tenuto continuamente «happy» anche se si suona e si canta per quasi cinque ore – l’opera barocca è bonaria e benevola, cameratesca e goliardica, sportiva e casual, rassicurante come i vicini di casa nei telefilm e nella vita: sempre cordiali in ogni situazione buona o cattiva, e privi di armonia anche se hanno successo. Dopo ogni «aria» difficile nel Xerxes, i bravi cantanti (Dawn Upshaw, Brian Asawa, Erie Mills) si stringono calorosamente la mano come tennisti dopo la partita. E Frederica von Stade (Mélisande eccelsa, Cherubino indimenticabile) nel ruolo di Serse giovanotto innamorato si rotola per terra come un monello per far sorridere il pubblico, che applaude ogni mossa e lazzo mentre l’orchestra suona. Serse sarà un Cherubinaccio cresciuto?
La traduzione (del medesimo Wadsworth regista) del libretto italiano è corriva e burlesca, modernizzando tipo Broadway l’ironia tardo–vittoriana di Gilbert & Sullivan: rime tra «crises» e «devices», cioè crisi ed espedienti… E l’aria di maggior successo ripete decine di volte una scarica di «stop it! stop it!», con ornamentazioni anche estemporanee mirate a quel tipo di zombie laureato al corrente con l’umorismo intelligente di massa: qui «da capo» significa ripetere calcando la mano con gesti esagerati per sottolineare gli effetti, «abbellimenti» come se fossero stravaganze di picchiatelli eccentrici.
Dunque, un certo contrasto fra l’orchestra che suona piccola e fiacca, moderna ma con qualche strumento d’epoca (direttore Kenneth Montgomery), e i cantanti che strafanno con l’espressività e la modernizzazione, le trovatine e le risatine. Innumerevoli!
Una portantina–lettiga attrezzata con mobile–bar e servizio di bibite… Un ritorno dalla caccia con lepri appese e cani ammaestrati… Le finestrine della casetta si aprono e chiudono tutte insieme a tempo… E i servi indaffarati continuano a scorrazzare come nelle Cenerentole di tanti anni fa… fra «carrettelle» e «caccole» come nelle riviste d’una volta… Un invaso blu–Klein, cioè di quel blu molto elettrico prediletto da Yves Klein nelle sue pitture–sculture, ospita invece – secondo la «visione» di due artisti–teatranti renani: Willy Decker e Wolfgang Gussmann – il Capriccio di Richard Strauss. Quell’opera straordinaria e paragonabile come «testamento» solo al Falstaff, perchè anche lì un grande musicista che ne ha composte quindici – la produzione professionale più importante del Novecento – si congeda in età gravissima con un eccelso e sommesso «addio» che è un’opera sull’opera, anche più moderna del romanzo sul romanzo e del film sul film come riflessione suprema di un artista sul proprio mestiere, e su un «ge nere» che sta toccando la fine. (L’allestimento è il medesimo del Maggio Fiorentino alla Pergola).
Grandissima conversazione di idee: la Contessa, epitomeemblema di tutte le Contesse e Marescialle dalle Nozze di Figaro al Rosenkavalier, viene corteggiata intellettualmente e galantemente dal Poeta e dal Musicista in una polemica elegantissima che risale almeno ad Antonio Salieri: prima la musica o prima le parole, nell’economia della composizione?… Ma intanto un regista visionario alla Max Reinhardt sostiene che il palcoscenico è un luogo di magie e fantasie, dove il Meraviglioso parla al cuore e all’intelletto degli spettatori coi prodìgi dell’illusione teatrale.
E nel corso del pomeriggio una ballerinetta rammenterà l’apporto della danza, anche sensuale; e una coppia di cantanti italiani molto tipici e dunque guitti si esibirà in una serie di «Addio mio bene! Addio mia vita!» strappacuore all’aperto, finchè non viene rifocillata e congedata entro un discorso culturale molto più ampio, più alto, più ricco… E alla fine della giornata il fratello della Contessa, uno di quei dilettanti geniali che insegnavano le idee dell’arte agli artisti fino in fondo all’Illuminismo, butta là con nonchalance che se solo si fossero trascritte le chiacchiere appena fatte sull’opera, ecco che l’opera sarebbe lì bell’e fatta: cioè la stessa trovata che rende così affascinante l’Otto e mezzo di Fellini e Flaiano.
E non finisce qui, perchè subentrano i camerieri a riassettare, rifacendo il verso ai padroni con l’arguzia dei Leporelli e dei Figari.
E finalmente si apre il giardino, entra la luna, e la Contessa seduta all’arpa con un canto sublime chiude davvero la grande epoca dell’opera lirica. Come quei concerti d’addio dove il più affascinante Lied finale trionfa e scompare tra i gladioli… A Salisburgo, parecchie quinte di specchi laterali e minimali qui si muovono e spostano riflettendo sobriamente il lume lunare… Ma questo invaso blu–Klein come un cul–de–sac sul palco di Santa Fe circondato da lampi di temporale d’agosto ha tante porte chiuse come un corridoio di cabine di prova in un grande magazzino. Poltroncine bianche rococò in serie, come negli alberghi «in stile», ma ricoperte da fodere bianche, come se la Contessa fosse fuori e lì restassero i camerieri. E un grosso cubo bianco simile a un cesso portatile in salotto, poi voltato, diventerà un teatrino nel teatro molto simile a quello di Gae Aulenti dentro il Viaggio a Reims.
Tutti in costumi bianchi identici, e parrucche bianche da Settecento in rivista: imprudenti! Sotto le parrucche bianche uguali sparisce ogni personalità, non avendone molta; e i cantanti finiscono per confondersi come i cinesi di Mao in casacchina e berretto blu.
Siccome poi cantano in inglese (necessariamente, qui: sennò, chi seguirebbe la raffinatezza degli argomenti?), entrano subito in competizione perdente col grande Settecento di Congreve e Sheridan, e con la tradizione suprema da John Gielgud a Maggie Smith, anche nella gestualità incomparabile… Volonterosi e accurati, tentano dunque di risolvere tutto col portamento «distinto» – colli rigidi e riverenze da cotillon ma senza un’abitudine dietro: attitudini, semmai, da acchiappafantasmi.
La Contessa (Sheri Greenawald, ha fatto la Marescialla anche a Napoli) pare una Locandiera premurosa, ma i camerieri dànno le tazze di cioccolata direttamente in mano, una per volta e senza piattino sotto, come nelle mense coi bicchieri di carta. E nella versione inglese volonterosa e indispensabile, nei momenti più importanti, quando la composizione di una romanza diventa «strutturale» come nei Maestri cantori, le rime decisive si riducono a quelle già derise da Lord Byron nel Don Giovanni: treasure–measure, sorrow–tomorrow… E se già è difficile tradurre Frank Sinatra in italiano, perchè con «estranei nella notte» va via l’aura, figurarsi qui… Ma accantonando i disagi per la traduzione, la riuscita è accurata e corretta, grazie soprattutto al direttore John Crosby, fondatore del festival e straussiano emerito. E i registi hanno organizzato una felicissima concertazione degli ensemble: conversazione molto animata, e quasi agitata, da commedia brillante, con grandi gesti americani e vivaci, anche da I Love Lucy, che proseguono vistòsi perfino quando i personaggi rimangono soli; e suppliscono alla mancanza di personalità. Col limite che il «comico televisivo d’azione» ad ogni costo, quando la scena è stilizzata nel Nulla, rischia di presentare ogni gesto come una dichiarazione di metafisica. Va meglio quando il tenore italiano grasso in verde, e il soprano in rosso, fra tutto quel bianco, sputtanano con efficacia virtuosistica il nostro Kitsch più emotivo e ruffiano al quadrato e al cubo e allo stadio, finchè le scariche di «addio addio!» fanno scappare i più vicini, e provocano un congedo con una bottiglia di vino e un ciao ciao.
Due grandi fantasmi incombono su ogni Contessa di Capriccio per chi abbia visto le due splendide interpretazioni di Anna Tomowa–Sintow a Salisburgo e di Raina Kabaivanska a Bologna.
E anche Felicity Lott a Firenze, nello stesso blu–Klein geometrico dei medesimi Decker e Gussmann, geometrico e pas separtout sia per il New Mexico e sia per la Pergola. Qui la Greenawald offre una buonissima interpretazione tipo brava donna, simile piuttosto a Lucia Popp, altra cantante eccellente, che fa le Marescialle e le Contesse come massaie cuor d’oro desiderose solo di sistemare i nipoti e far contenti gli ospiti. Non per niente, il «servite la cioccolata di là», uno di quegli ammicchi–svolazzi per chiudere con un understatement una grande scena straussiana, diventa qui la spossatezza d’una casalinga che vorrebbe mettersi in ciabatte perchè «uffa, quanto parlano questi»; e viene condivisa con un muggito da una platea di brave diavole che non vedono l’ora di arrivare a casa e stendersi.
Però la Grande Magia opera tuttora intangibile quando lo strepitoso Eric Halfvarson (un epigono dei leggendari Salvatore Baccaloni e Mariano Stabile, che si riuscì ad ascoltare solo tardissimo?) nel ruolo del Regista indica il piccolo palco vuoto come sede del Meraviglioso. E dunque facendo teatro sul teatro trattando di teatro, ma evocandolo col corpo e additandolo con niente. Come Strehler, quando si contorce e sbatte visceralmente con la zazzera argentea da mago lunare. Forse può riuscire affascinante un paragone col mirabile Capriccio di Ronconi a Bologna, coi personaggi fiabeschi e barocchi del Meraviglioso, evocati dal Regista, che lo venivano a confortare, superati e commoventi. Una vuota pompa… Qualche delusione sul finale: via il giardino, via la luna, via l’arpa, la povera Contessa siede a terra come una serva con una maschera d’argento inutile in mano, e senza più mobili.
Macché trionfo. Povera donna. Già, qui, l’orchestra non rende al meglio. Fuori, il cielo del New Mexico è una meraviglia.
La luna di Ansel Adams splende appena sopra. Ma questa disgraziata, l’hanno chiusa in un guardaroba. Riappaiono tutti i personaggi, immobili come una galleria di belle statuine in maschera; e lei esce, tra le federe e fodere. Ma forse non era la Contessa, era una sua cameriera. La Contessa non abita qui.