RAY BRADBURY

I nostri pericoli sono due e sono tremendi, il commercialismo e l’intellettualismo, dice fermamente Ray Bradbury, appena seduti a colazione. E il maggiore scrittore di fantascienza al mondo, l’autore di Fahrenheit 451. Abita felicemente a Beverly Hills. Sta preparando con un ottimo regista un enorme film da The Martian Chronicles, da girare nelle città morte del Medio Oriente. Mangiamo in un fastoso ristorante di produttori di Hollywood. Eppure nel pragmatismo appassionato di tutto quello che dice, oltre che l’antica sollecitudine umanitaria degli autori di Utopie si sentono fisicamente rivivere in una versione americana contemporanea due «linee» tradizionalmente inglesi di generosità per gli altri prima che per se stessi.

Una, quell’ombrosa minoranza di moralisti puritani alla Orwell, alla D.H. Lawrence, alla Dr Leavis, a cui non piace niente, non va bene niente. Non salvano niente. Ma il loro tormentoso e profetico «rappel à l’ordre» scuote e riempie di rimorso la coscienza inquieta del «clan dirigente» scettico ed epicureo che ha in mano la «stanza dei bottoni» del mondo della cultura, fa i propri affari, si gode i propri facili successi, e con tutto questo spera ancora di riuscire a salvar l’anima. L’altra è la linea dei buoni vecchi zii liberali alla E.M. Forster. Possono magari disprezzare ingiustamente Conrad; compatire dall’alto in basso Firbank e T.E. Lawrence; far salamelecchi di fronte a Virginia Woolf. Il loro limite può esser quello di non osare spa lancare gli occhi sulle contraddizioni e le violenze e i drammi del mondo moderno. Però credono in assoluta buona fede nel valore edificante e illuminante della letteratura, nello «spezzar le barriere», nel «capire», nel «connettere». E come G.B. Shaw o Angus Wilson possono trasformarsi in santi laici dell’etica laburista.

Ma Bradbury è un intellettuale progressivo americano che scrivendo di marziani e di mostri fa in pratica della Realpolitik. Biondo, pesante, energico, parla con gran calore e una tremenda forza di persuasione. I camerieri sfiorano pallide candele con le loro enormi bistecche. Continuiamo un’altra sera, a un party molto professionale in una casina marziana su palafitte, interamente di cristallo sul cocuzzolo d’una montagna a crete, sopra il tratto prossimo al mare del Sunset Boulevard; e un’altra sera ancora, a una recita per inviti di tre suoi atti unici con una troupe d’attori–cowboys della televisione che praticano il teatro di idee non remunerato come un contravveleno: per non atrofizzarsi l’anima a Hollywood.

Yesterday, Today àf Tomorrow… In un desolato studio ex–RKO, e ora ex–Desilu, fra terreni vaghi adibiti a parcheggio e baracchini di fruttivendoli: ma si comincia tardi perchè mancano le lampadine rosse dell’uscita di sicurezza, e i poliziotti di guardia le pretendono. Pubblico scadente. Però se lo spettacolo va bene potrebbe venire acquistato da un teatro professionale, produzione e tutto.

A Medicine for Melancholy. Un mosaico di bizzarra poesia convenzionale che però non somiglia a nulla, tagliato nella struttura spietatamente svelta di uno sketch radiofonico. La ragazza malata è visitata da tutto il paese, che offre rimedi vani. Siamo nel Settecento. Lo spazzino suggerisce di esporla al lume di luna. Arriva un Trovatore. Dialogo vagamente alla Christopher Fry, The Lady’s Not For Burning. La cura, andare a letto. La mattina i parenti la credono morta. Invece è guarita: una conclusione da Novellino sterilizzato e patafisico.

The Wonderful Ice Cream Suit. Un gruppo di disoccupati stracciati, convinti che senza bei vestiti non si possono avere amici, si quotano per comprare un abito in società. Lo indossano a turno, fra infinite preoccupazioni e raccomandazioni e variazioni sul Sartor Resartus di Carlyle. E ciascuno si trova indossandolo variamente modificato: una filosofia da «grottesco», mai realistico e con curiosi strappi fumisti e lampisti. (Ci sarebbe già un’opera di Zemlinsky, Kinder machen Leute, su questo stesso tema: un garzone di sarto licenziato con un solo bel vestito e senza soldi si reca in un altro villaggio alpino e nella locanda viene omaggiato dai maggiorenti che lo credono un gran signore. Quando però poi viene svergognato e svillaneggiato, la più ricca ereditiera del paese decide di sposarlo).

The Pedestrian. Un vecchio davanti alla televisione. Viene a prenderlo un amico, indossano abiti neri per uscire. Luci astratte e rumori astrali: un’aria di spedizione, ma guardano le stelle, ascoltano i grilli. Sono gli unici pedoni: fuorilegge, perchè ormai è vietato uscire senza automobile. Spaventati dal passaggio della macchina della polizia, paura d’essere scoperti. Finalmente, investiti da un faro, interrogati da una voce lontana, arrestati. Ma l’auto della polizia è vuota, la voce è un disco: sono le stesse macchine che fanno osservare la legge.

I pericoli del commercialismo, insiste: cioè far cose che non piacciono, di cui non si è convinti, per obbedire al produttore, per compiacere l’editore, per fare un favore al direttore di giornale… E i pericoli dell’intellettualismo? Lasciarsi influenzare dagli autori che si ammirano, dai libri che si amano, dai giudizi dei colleghi che si stimano… O anche illudersi di salvar l’anima facendo un «secondo mestiere» sedicente intellettuale, tipo l’insegnante. Sono molto contrario a un secondo mestiere di natura letteraria, spiega: drena le migliori risorse, porta via troppo tempo se fatto con onestà, in complesso abbassa e diminuisce il potenziale creativo. Senza contare – aggiunge – che non credo affatto all’insegnamento della letteratura. Càpita non di rado, in America, che lo scrittore celebre sia avvicinato da madri ansiose che gli chiedono consigli per un figlio con tendenze letterarie. La risposta onesta è una sola: comprargli una macchina da scrivere. Poi, che si arrangi. Le lezioni private del Premio Nobel non giovano… Qui lo si sente non meno decisamente empirico di tutta la generazione di scrittori americani autodidatti alla Sherwood Anderson, uomini che «si sono fatti da sé», come gli industriali loro coetanei. Oggi, i futuri letterati e i futuri uomini d’affari non vendono certo il popcorn agli angoli delle strade: fanno i loro compiti in classe di «letteratura creativa» o di «ricerche di mercato» in due istituti adiacenti dello stesso college.

«Ma io ho proprio venduto i giornali per strada, per tre anni» dichiara fieramente Bradbury. «Da ragazzo; piuttosto che lavorare in una banca e far magari carriera come dirigente. E sono convinto che invece di frequentare le classi di letteratura s’impara molto di più nelle biblioteche pubbliche. Anche solo passeggiando e leggendo i titoli negli scaffali; e annusando i libri; e aprendone uno ogni tanto».

Ha un momento talmente pratoliniano, che gli domando se sta da molto tempo a Los Angeles. È venuto qui a tredici anni dairillinois, vicino a Chicago, durante la Depressione, risponde: suo padre era uno dei molti milioni di disoccupati, e qui la vita costava meno. Però diffida sistematicamente dei pericoli d’una grande città come New York. Eventi culturali a tutte le ore, anche abbastanza attraenti, «da non perdere»: mostre, concerti, spettacoli. E in più il «giro» letterario, tutti che si conoscono, e telefonano e invitano: il pettegolezzo, il farsi vedere, il non poter dir sempre di no, il gioco del prestigio basato sul numero delle «presenze»… «Uno scrittore, bisogna che abbia un giroscopio dentro, che lo avverta quando sta perdendo tempo, fa cose non giuste, vede gente sbagliata… Dopo tutto, sono le qualità umane che contano: non l’ambiente. Perciò è un luogo comune superficiale dire che siccome si vive a Los Angeles si devono fare per forza delle cose ignobili per il cinema o la tv. Ci si abitua perchè ci si sta bene, e si può lavorare in pace…».

Lavora tanto? «Tutto il giorno, da quando avevo sedici anni. Ogni racconto, in media, lo scrivo in una giornata. Poi lo metto da parte; magari per anni; lo riprendo; lo riscrivo: finchè non trovo “la riga decisiva”. Tante volte il guaio è di non saper da che parte cominciare: quattro o cinque idee al giorno – ma non si possono scrivere quattro o cinque racconti al giorno…».

S’accende e scoppia di gioia parlando dell’entusiasmo di lavorare: «magari occupandosi della morte, ma con una vitalità tremenda come faceva Goya». Proprio dopo questo paragone con Goya, fatto in un articolo di giornale di parecchi anni fa, gli è arrivata una lettera di Berenson, che cominciava così: «Questa è la prima lettera da “fan” che scrivo in 88 anni». Bradbury è venuto a trovarlo in Italia; e hanno passato molti giorni insieme.

«Mi ha svelato il Rinascimento… ha allargato le mie prospettive… mi ha dato una consapevolezza… come prima Huxley qui in California… e più tardi Russell a Londra… sono loro gli amici più cari…».

«… E questa Los Angeles, che esiste praticamente solo da questo dopoguerra, sviluppandosi in maniere folli, in fondo sta attraversando un fenomeno molto simile a un Rinascimento. E il suo turno: come quando l’Italia e l’Olanda insegnano la pittura; e poi la lezione passa da Parigi a New York, che comincia a insegnare a sua volta…». Anche per questo ritiene che sia giusto vivere qui. Ripete continuamente la frase «perchè so bene quello che voglio!».

«Influenzare una comunità mentre si sta formando!… Agire per il loro bene, prima che se ne rendano conto!… Aiutare a costruire il nuovo Rinascimento!… Coi libri, coi saggi, certo: ma anche con racconti sulle riviste, con articoli sui giornali… servendosi di ogni mezzo d’espressione: cinema e teatro, radio e televisione… Scrivere oggi di trasporti pubblici e di gallerie d’arte, di pubbliche relazioni e di pianificazione urbana, è un modo pratico d’insegnare a “essere umani”…». Per questo trova inutile e irrilevante la letteratura dell’assurdo; e deplora piuttosto che non esista in America il teatro di idee.

È chiaro che il famoso narratore d’affascinanti miti fantascientifici si considera soprattutto un saggista che ha scelto di esprimersi in una forma simbolica immediata e diretta, come Butler o Swift. «Se scrivo “automobile” o “ascensore”, tutti capiscono, senza spiegare la carrozzeria e i carburatori, senza dover riepilogare ogni volta il funzionamento del motore a scoppio… E non aver paura di bagnarsi! Entrare nel fiume, non stare come spettatori sulla riva, se si intende influenzare le masse per il loro bene! E provare ad amare la chincaglieria, la mediocrità… Non disprezzarla; e non rifiutare di capire il senso dei “comics”, delle pubblicazioni popolari… La rivista “Mad”, per esempio, nelle sue forme vignettistiche e paradossali si occupa degli aspetti sconcertanti della vita americana di oggi più profondamente delle riviste “serie”… radicali o accademiche (a cui peraltro collaboro), ma tutte così lontane dalla realtà, incapaci d’ironia… Come del resto la maggior parte degli scrittori americani: “seriosi”, acritici magari, intellettualmente modesti… Però come si prendono sul serio, come si amministrano: scrivono poco, e sempre con l’aria di autori maggiori che “per il momento” pubblicano soltanto opere minori… «E vero che, poveretti…» riflette, a proposito d’alcuni suoi colleghi «spesso sono oppressi da problemi personali talmente gravi che non c’è da meravigliarsi se non vedono la realtà, o la vedono stravolta. Nessuno che si degni d’occuparsi di fantascienza, però: come se fosse un “genere” inferiore o folle… Mentre per esempio “fantascienza” significa la scoperta dell’America o l’invenzione dell’automobile, la sua influenza sulla vita di tutti i giorni… Come l’automobile può modificare i rapporti amorosi, gli affetti familiari, la struttura stessa della famiglia… le influenze che può avere sulla sociologia del lavoro… il fatto stesso che in questa città il pedone sia considerato una bizzar rìa… E senza contare il largo margine d’imprevisto, di aspetti incompetenti o grotteschi, in ogni scoperta, da Colombo a Cortés… E la conquista dello Spazio! Nessuno si occupa delle trasformazioni straordinarie che avvengono in conseguenza della conquista dello Spazio: in filosofia, in psicologia, nelle arti, nella teologia stessa (discorsi come quelli di Pio XII sullo Spazio sarebbero stati inconcepibili cento anni fa)...

«E i problemi che ne sorgono?… Per esempio si vive talmente condizionati dall’aspetto esteriore, che per molti di noi un nero sembra appartenere addirittura a un’altra razza… E se in un altro mondo si trovasse un’orribile razza di ragni con tre teste, che vivessero però eticamente… umanamente… cristianamente… Saremmo disposti a distruggerli perchè non conta l’essenza “umana” ma il loro aspetto?…».

Non per nulla un progetto che medita è affascinante: un romanzo su un papa spaziale, che parte dal Vaticano per il Cosmo alla ricerca della Verità, con la sua astronave. Quantunque si dichiari «un battista rinnegato», si confessa affascinato dalla teologia cattolica: ma soprattutto dai problemi teologici–spaziali; così come la filosofia lo attrae sotto specie di questioni metafisiche–spaziali… E pare veramente una malvagia ironia che la radio annunci l’arrivo del presidente Kennedy in elicottero sul tetto del Beverly Hilton, l’albergo qui di fronte, a pochi metri.

Sembra una situazione alla Bradbury: si sentono i motociclisti del servizio d’ordine sul boulevard, poi il rumore dell’elicottero che scende… Cambiamo ancora discorso. Battiamo sugli scrittori «che si vendono», il fenomeno americano e italiano d’autori che approfittano del benessere non per dedicarsi con calma a opere disinteressate, irrealizzabili in tempi di strettezze, ma per guadagnare in fretta sfruttando cattivi bestsellers o servendo i produttori cinematografici. Lo trovo severo: «Uno non si vende se proprio non vuole. Bisogna vedere se ha personalità, se ha spina dorsale… a che tipo di successo tiene…». La vita morale, l’integrità professionale dei letterati: sono temi che lo attraggono, magari mescolandoli a una certa sua tematica psicologica e religiosa (la speranza, la compassione, il perdono) al di là dei soliti schemi puritani o cattolici–irlandesi. E proprio questo interesse per una problematica non sbrigativa (come nel caso di un brusco divorzio) ma più sottile (per esempio, la ricerca delle cause e del senso di un fallimento matrimoniale) che ravviva la sua curiosità per certi aspetti del cattolicesimo romano: la sua saggezza, dice molto seriamente, nel rendere «quasi» indissolubile il matrimonio, per esempio. E non per niente un altro romanzo breve che ha in mente suona come una variazione puritana–cattolica sul «tema internazionale» di Henry James o di Mario Soldati: un americano felice che vuol saggiare la solidità del proprio sistema morale, e va in pezzi nella Via Veneto della Dolce Vita (che rimane sempre una gran trappola per gli scrittori americani: realisti, fantascientifici, e «tutti quanti»).

America Amore
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