SUBURBIA

La società americana di questi anni Cinquanta può ancora dare a un osservatore di passaggio l’impressione di basarsi sul principio dell’uguaglianza. La maggior parte della gente si parla chiamandosi col nome di battesimo, anche se si tratta di persone anziane che si sono appena conosciute. Il concetto di «autorità» non intimidisce il cittadino, ed è teoricamente possibile che all’ultimo dei diseredati càpiti di rivolgersi con una certa disinvoltura non solo al Questore, ma al Generale, al Ministro, al Presidente. Le differenze di vestiario tra la dattilografa e la miliardaria parranno minime (ma quanto significato hanno quei particolari quasi impercettibili che collocano una persona «al suo posto» nella scala sociale… e soprattutto che grosse differenze di prezzo… Ma le etichette delle marche sono sempre interne). Uno sguardo appena al di là della superficie, però, non ci mette molto a scoprire alcune realtà per loro oramai pacifiche, ma per noi non di rado sorprendenti.

In ogni ambiente, dappertutto, è chiaro che occorre osservare una massa di regole: e anche da noi, il vestito che andrebbe benissimo a un’attrice per una festa in casa dei produttori del film Didone abbandonata sarebbe considerato stravagante a una Prima Comunione; come del resto, il convenevolo de «i miei rispetti alla sua signora» può essere considerato una prova, volta a volta, di buona educazione o di mezzocalzettume irrimediabile.

Ma se si vanno a guardare le trasformazioni più at tuali del modo di vivere degli americani, ci si accorge che forse proprio negli anni recenti si è venuto formando negli Stati Uniti un sistema di classi ben definito; basato su una quantità di differenze sociali mai esistite prima; e queste regole, relativamente nuove, magari minuscole, però rigide, finiscono per riguardare praticamente ogni aspetto della vita e della condotta dell’individuo. Si stanno facendo sempre più importanti, più che non da noi: e guai a non osservarle.

I movimenti che hanno cambiato la faccia della società americana sono parecchi. Fino alla vigilia della guerra, per esempio, era normale che in ogni paese e in ogni quartiere delle grandi città vivessero, gli uni accanto agli altri, ricchi, poveri, gente che faceva i mestieri più diversi, senza nessuna insofferenza reciproca, come succede in fondo nella maggior parte delle città europee, dove le differenze di ricchezza sono, semmai, più sensibili.

Basta considerare Roma; nella zona intorno a Piazza di Spagna, chiunque avrà come vicini di casa, nel raggio di poche decine di metri, Ava Gardner e il Collegio di Propaganda Fide, il principe Torlonia e parecchie grandi sartorie, il Partito Liberale Italiano e una quantità di piccoli ciabattini, carbonai, macellai, rigattieri, nonché le salumerie più avviate della città (e, fino a qualche anno fa, almeno tre case chiuse altrettanto fiorenti).

A Milano, intorno a via Spiga, è pressapoco. Cartolai, materassai, droghieri. E ci stanno benissimo tutti. Ma per avere una idea della struttura attuale delle città americane, bisogna dare una occhiata ai quartieri nuovi, fuori dal centro. Oggi appaiono divisi rigidamente in zone abitate solo da gente che ha su per giù il medesimo reddito: e così, anche in certe vie dei Parioli, o addirittura nelle borgate, non è probabile che in una casa abiti uno che guadagna cento, e nella casa vicina uno che incassa mille.

Attraverso tutti gli Stati Uniti d’oggi si nota evidentissima questa tendenza. Chiunque cerca di abitare vicino ai propri simili, di vedere e frequentare solo quelli che fanno lo stesso mestiere, hanno lo stesso reddito, la stessa casa, gli stessi mobili, gli stessi vestiti. E, naturalmente, una conseguenza della formazione della società di massa: sotto sotto ciascuno si sente così poco sicuro di sé che cerca d’istinto di imitare i vicini; e più è uguale a loro, più si sente a posto.

Ma a questo punto i fatterelli da notare sono parecchi. Uno è che si vede benissimo come ogni gruppo, acquistata stabilmente una certa sicurezza di sé, cerchi subito di differenziarsi, in compenso, da tutti gli altri gruppi, per acquistare una spe cie di «distinzione». Questa può manifestarsi in una quantità di sfumature del tenore di vita. Uno straniero se ne accorgerà solo usando una certa attenzione, ma un americano percepisce subito le differenze tra chi si presenta con una Ford da 2200 dollari, una Chevrolet o una Plymouth che ne costa 2500, una Mercury o una Pontiac da 2800, una Oldsmobile o una Buick da 3600, una Chrysler o una Lincoln da 5000, una Cadillac da molto di più. A seconda che uno sia iscritto in un club o in un altro, abiti in una zona o in un’altra (si sanno benissimo i prezzi degli appartamenti, abbastanza uniformi in ogni singola strada); a seconda dell’università dove si è andati (Harvard, Yale, Princeton, bene; il resto, no); a seconda della religione (meglio di tutto, essere protestanti, possibilmente episcopali; e, in ordine discendente, presbiteriani, congregazionisti, unitariani, metodisti, luterani, pentecostali, episcopali; mentre i cattolici e gli ebrei vengono dopo, però possono essere ricchi o poveri, eleganti o poveretti, eppure confinati in categorie rigide). A seconda, naturalmente, della professione, degli abiti, di quello che si mangia. Così è facile giudicare presto una persona, una coppia, e l’ambiente di appartenenza.

Il vero paradosso, si capisce, è che tanta gente si affanna a cambiare la macchina, la casa, la religione, il golf club, nel tentativo di elevarsi socialmente, e di «sembrare più di quello che sono»; però, in realtà, dopo la guerra, le distanze fra i ricchi e i poveri sono diminuite notevolmente. E non è successo soltanto che la crisi del ‘29 ha insegnato ai ricconi a dissimulare meglio i loro soldi, a smetterla con l’ostentazione cafona dei palazzi, dei gioielli, dello champagne a fiumi durante le feste, e dei biglietti da cento dollari adoperati per accendere le sigarette.

Lo straordinario sviluppo economico del dopoguerra, con lo sfruttamento delle risorse dell’elettronica e dell’energia nucleare, ha alzato enormemente il livello di vita di masse enormi di gente, la loro capacità di acquistare prodotti che una volta erano rari e costosi, e adesso eccoli alla portata di tutti nei grandi magazzini. Nello stesso tempo, l’imposta progressiva sul reddito tosa sensibilmente le grosse fortune, e agisce nel senso di un notevole livellamento.

Sono tutti fenomeni che darebbero l’idea di una certa corsa alla uniformità, piuttosto che alla differenziazione. E invece, si assiste a questa specie di corsa paradossale: più le distanze economiche diminuiscono, più si riduce il margine fra i redditi individuali, e più chi guadagna, mettiamo, cento, farà di tutto per distinguersi non tanto da chi ha dieci o mille (queste di sparità si fanno sempre più rare), ma piuttosto da chi ha novanta o centodieci; e dovrà quindi moltiplicare gli sforzi.

Questa pare attualmente la preoccupazione principale della nazione intera. A noi sembra abbastanza pietoso il genere di discorsi che qui si sentono fare un po’ da tutti, dal professore e dal dirigente industriale e dal musicista (e specialmente dalle loro mogli): e cioè dove sia «socialmente giusto» abitare, e cosa «socialmente giusto» offrire da bere alle diverse ore del giorno, o dire, o indossare, o mangiare nelle diverse circostanze.

E chiaro che si tratta di una ricerca assillante di «che cosa si deve fare» da parte di gente che si trova spesso in località e ambienti diversissimi dai loro originari; e quindi hanno bisogno continuamente di imparare nuove regole di comportamento, di stare attenti a non fare errori. Ma queste apprensioni, la preoccupazione continua di dire e di fare la cosa giusta o la cosa sbagliata, stringono abbastanza il cuore, perchè non denotano soltanto buona volontà, ma una insicurezza addirittura inquietante..

I sociologi tante volte si divertono a osservare i cerimoniali in uso nei diversi ambienti. Per esempio, se due coppie di coniugi devono andare nella stessa macchina, nella classe lavoratrice i due mariti stanno sempre sul sedile davanti, con le due mogli dietro. Nelle classi medie, ogni marito si tiene vicina sua moglie.

E nelle classi superiori è più probabile che il proprietario della macchina faccia sedere la signora ospite accanto a sé, mentre gli altri due staranno dietro. Tutti, quindi, obbediscono in quel momento a una delle molte regole in uso nel loro ambiente.

Nello sforzo di distinguersi e di definirsi, nuove regole come queste vengono create continuamente; e siccome chi non le osserva fa una brutta figura, tutti stanno attentissimi, per paura di non sembrare abbastanza perbene. Ora, finchè a qualcuno vengono i patemi perchè ha versato l’acqua nel bicchiere da vino, poco male. Però il conformismo sociale comincia ad avere delle conseguenze importanti nel corpo di una nazione, quando càpita per esempio, come risultato di tante minuscole «tendenze di gruppo» sommate insieme, che in questi ultimi anni a persone di modesta famiglia e modesta educazione diventi sempre più difficile che una volta farsi strada molto al di sopra della condizione d’origine. Ah, l’accento, la voce… Anche altri fenomeni stanno rallentando la possibilità di ascesa e di contatti sociali. Gli organismi industriali sono cresciuti nelle dimensioni, e non c’è più nessuno che possa conoscere tutti i colleghi, tutti i dipendenti, così la distanza fra i ca pi e i sottoposti aumenta sempre di più. I piccoli imprenditori, i professionisti che non devono ubbidire a nessuno, sembrano in continua diminuzione. E ogni impresa pubblica o privata tende a darsi una vasta organizzazione burocratica.

Fino a non molto tempo fa, poi, i vicini di casa avevano maggiori occasioni di conoscersi e valutarsi reciprocamente; e lo stesso succedeva in numerosi circoli e associazioni, fra gente di diversa condizione sociale. Ora però i circoli, tutti, stanno diventando sempre più esclusivi: questo vuol dire che ai soci non piace ammettere gente più su o più giù di loro. E la tendenza a muoversi continuamente, a cambiar spesso casa o addirittura città, praticamente impedisce di avere coi vicini di casa rapporti che non siano soltanto formalmente gioviali.

Anche i rapidi cambiamenti della domanda e dell’offerta sul mercato del lavoro contribuiscono a rendere confuso e disordinato questo panorama di classi sociali mosse da tante tendenze così diverse, in tutte le direzioni. Tutti cercano, a quanto pare, disegnatori tecnici, meccanici aeronautici, fisici, operatori di macchine elettroniche, dattilografe, e perfino stagnini e professori di scuola media. Nessuno vuole invece ferrovieri, panettieri, attori, calzolai, tipografi: tutti mestieri in declino.

Del resto lo sviluppo industriale sta trasformando parecchi operai in impiegati; e nello stesso tempo la ricchezza nazionale in aumento finisce per giovare a tutti. «L’alta marea, quando sale, porta su tutte le barche» dicono a New York. Diminuiscono perfino gli orari di lavoro, e notevolmente… Non sembra perciò tanto vano, poi, che tutte le nuove classi emerse dall’azione di forze così spesso contraddittorie si diano tanto da fare per definirsi, per assestarsi, ricorrendo a tutti i mezzi più opinabili. Si comincia, generalmente, dalla casa.

Sono tutte lì pronte; c’è la via delle case per chi guadagna 5000 dollari, per chi arriva a 10.000, a 20.000, a qualunque cifra. Oggi, però, tutto sommato, è molto più difficile passare dalla categoria dei 5000 dollari a quella dei 6000, o da quella dei 20.000 a quella dei 25.000, che non un tempo passare dai 5000 ai 50.000.

Le conseguenze della «fase di abbondanza» negli Stati Uniti d’oggi sono parecchie e notevoli. Naturalmente, in una società centralizzata e basata su ordinamenti burocratici, in un mondo rimpicciolito, con un ritmo dell’esistenza accelerato dall’industrializzazione, la soluzione delle varie vecchie domande ha come effetto che si presentano nuovi problemi, altrettanto grossi.

Continua a diminuire anche il numero degli individui impegnati in lavori manuali: agricoltura, industria pesante, fac chinaggio. Le macchine fanno gran parte del lavoro; e quindi occorre lavorare più con la testa che con le mani. E guai a chi non si specializza: rimane indietro.

Mentre poi il sistema economico della fase precedente era basato sul principio della «scarsità» dei beni, il principio ora dominante dell’«abbondanza» sconfina in quello di «spreco».

E le conseguenze psicologiche sono profonde: almeno come il passaggio da un’epoca dove anche il sale e il pane erano rari e costosi, a un’altra epoca in cui ci si può permettere di avanzare la minestra nel piatto, a un’età infine quando le spese per il vitto diventano le meno importanti nel bilancio d’una famiglia.

Le grandi città americane stanno diventando posti dove si va a lavorare, a divertirsi, e dove si può anche facilmente venire assassinati; ma per viverci, non vanno più bene. E straordinario notare come la loro rapida decadenza del dopoguerra le abbia spopolate in pochi anni. Oggi sembra che possano abitarle, in pratica, soltanto i ricchissimi, i poverissimi, gli stravaganti.

Basta arrivare nel centro di Filadelfia, di Boston, o nel cuore stesso di Manhattan, e guardarsi attorno. La folla densa e operosa che si dà da fare dentro e fuori gli edifici e ingombra i marciapiedi per gran parte della giornata, dopo le cinque e mezza abbandona in massa i negozi e gli uffici, si riversa in fretta nella metropolitana e negli autobus, sempre più frequenti e convulsi; e dopo un’ora sono spariti tutti.

Il cielo è ancora chiaro: ma l’intero centro della città, per centinaia di isolati, è deserto, oramai. Si può girare a lungo, mentre la notte arriva, per questi quartieri fantasma, tra edifici illuminati alti decine di piani, e dove non è rimasto nessuno, senza incontrare una sola persona a piedi: se non, forse, un poliziotto che si insospettirà immediatamente. A cento metri dal Parlamento del Massachusetts, la mia prima sera a Boston, sono stato messo faccia al muro, gambe larghe, braccia alzate, da un vecchio agente mulatto che si infuriava perchè non riusciva a capire che cosa potesse fare uno straniero, a piedi, nel quartiere degli affari; e mi perquisiva invano, prendeva a calci il pullover che mi aveva fatto gettare a terra, convintissimo che dovesse esserci un’arma da qualche parte, forse per svaligiare un ufficio, o almeno rubare un’automobile. E a dirgli, semplicemente: «Sono arrivato oggi, sto osservando la città», diventava anche più cattivo. E inconcepibile che una persona dabbene possa girare a piedi, in centro, dopo una certa ora. Ci dev’essere sotto per forza qualche cosa di losco.

Ma mentre viene buio, tante luci si stanno accendendo in quella parte del quartiere fantasma che ha una doppia vita, e si chiama, in ogni città, «downtown». Sono i bar, i cinema, i teatri, i locali di flippers e biliardini, le sale da ballo a poco prezzo, le tavole calde piene di inservienti in berrettino che nutrono di polpette e polpettoni la folla solitaria. Questi locali sono tutti addossati e appiccicati insieme in non più di tre o quattro strade, in tutti i centri, come nei remoti villaggi della frontiera, dove i cowboys arrivavano insieme al tramonto dalle fattorie dei dintorni, e trovavano tutti i saloons in fila nella via principale.

Anche oggi, in fondo, la «spedizione in città» che si fa partendo dai quartieri periferici e dalle comunità suburbane è molto simile; e la stessa Broadway sembra un enorme baraccone da fiera per accalappiare i provinciali che calano in città da tutti gli Stati Uniti, abbagliandoli col richiamo delle mille luci e delle mille attrazioni. C’è la solita cascata d’acqua vera, alta quattro o cinque metri, e larga una decina, issata su un tetto per fare la réclame a una bibita gassata; e la consueta boccaccia spalancata che proietta anelli di fumo nel cielo, réclame di una sigaretta; e c’è l’eterna predicatrice invasata, magra come un uccellaccio col becco crudele, che tutti i sabati aggredisce i passanti sull’angolo dell’albergo Astor, a Times Square, urlando e minacciandoli delle pene infernali (e intanto perde la trippa per i suoi gatti, dalla borsetta di plastica nera). Nelle vie laterali, poi, le insegne dei teatri si sovrappongono, e in poco più di cento metri si possono vedere dieci commedie, dieci musicals, scegliere tra Paul Newman e Charles Boyer, Geraldine Page e Claudette Colbert, Ethel Merman e Ginger Rogers, Dana Andrews e Sidney Poitier… Basta girare l’angolo, però, da queste vie commerciali di giorno e sfolgoranti dalle sette alle tre di notte, a New York e nelle altre grandi città, per trovarsi di fronte a diversi spettacoli, che fanno paura. Da nessuna parte, in Europa, l’ostentazione del fasto e le miserie più spaventose si trovano in un contatto così immediato. Gli slums non si trovano fuori, lontani, in periferia; ma si hanno sempre sotto gli occhi, lì, nel centro stesso delle città, nei quartieri più antichi e più importanti. Sono le prime cose che si vedono arrivando in macchina, o uscendo dalla stazione, sbarcando dalla nave; sono a pochi passi dal Municipio, dalla Borsa, dalle cattedrali; ce li troviamo davanti se appena lasciamo le grandi strade eleganti colme delle vetrine di pasticcerie e di fiorai, di gioiellieri e case di moda.

Ma che cosa è uno slum? Come si forma, questa specie di piaga sociale che divora il cuore delle città, come una prova di decadenza e di vitalità insieme, ed è uno dei problemi più grossi che la nazione debba oggi risolvere?

Anche qui, una prima passeggiata per Boston, che pure una volta era la più nobile delle città americane, può già cominciare a insegnare qualche cosa. I quartieri centrali, costruiti dall’aristocrazia più tradizionalista del paese, legata alle memorie della vecchia Inghilterra, sono oramai disertati in gran parte.

Le ville di mattoni rossastri falso–Tudor simili a quelle londinesi, le cavernose magioni di Beacon Hill costruite da mercanti e da ambasciatori che importavano arazzi della Savonnerie e lampadari di Murano, i palazzetti floreali di Back Bay, capricci di miliardarie che li riempivano di chiostri benedettini, mosaici pompeiani, Tiziani e Raffaelli acquistati da Berenson giovane, stanno andando lentamente in rovina: chiusi da anni, con le finestre sbarrate da assiti, o rilevati da club e ricreatori (i più belli riscattati e trasformati in musei), o addirittura suddivisi tra numerose famiglie di immigranti. Questi sono soprattutto italiani e irlandesi, e hanno praticamente in mano la città: ci sono più pizzerie che bar, se si sfoglia l’elenco telefonico sembra quello di Napoli infilato in quello di Dublino, il governatore si chiama Furcolo ed è nato a Torre del Greco, e il senatore della regione, che è Jack Kennedy, se non fosse cattolico troverebbe molte difficoltà a racimolare i voti necessari per tornare a Washington ogni volta.

E i bostoniani veri? Bisogna andare a cercarli fuori, sulle colline o lungo la costa, nelle loro nuove case. Molti ricchi, si capisce, sono rimasti in città, e vivono in palazzi magnifici tempestati dal fisco, circondati da vie e praticelli off–limits, sorvegliati da portieri in livrea e da poliziotti privati in borghese; ma la maggior parte delle famiglie «medie» se ne è andata. Lo stesso fenomeno si ripete più vistosamente in tutte le grosse città, meno legate alla tradizione o a un particolare stile di vita.

Intere zone di case della fine dell’Ottocento o degli inizi del nostro secolo decadono lentamente, per decenni, senza che i proprietari si preoccupino di un minimo di manutenzione, proprio perchè gli inquilini appena ne hanno la possibilità se ne vanno, e chi subentra è gente di condizione economica sempre inferiore, sempre meno disposta a pagare la stessa somma per vivere in uno stabile che si degrada. Gli appartamenti, che in origine erano stati costruiti per una sola famiglia, cominciano ad essere suddivisi tra molti occupanti: ma la struttura non si presta, e i servizi devono essere rimediati, di fortuna. Chi deve occuparsene? Non certo il padrone, che non vuol più spenderci un soldo; e neanche gli inquilini, che sanno benissimo di essere lì solo di passaggio, e cercano di andarsene al più presto.

E il momento degli immigranti: scandinavi, italiani, tedeschi, irlandesi, in un primo tempo, parecchi anni fa; poi l’ondata dei russi e degli ebrei dell’Europa orientale; e poi magari i cinesi; finalmente i neri; e da ultimo, negli anni recentissimi, i portoricani.

Ma questi sono cittadini americani come tutti gli altri, e non si possono tener lontani dalle metropoli, restringendo le leggi sulla immigrazione come si faceva con gli europei.

All’atto che le prime famiglie nere cominciano a stabilirsi in un quartiere, tutti gli altri cominciano a fare i bagagli, come se fossero arrivate le termiti (i fitti crollano). I bianchi sostengono che da questo momento non è più possibile abitare lì: troppa gente, troppi rumori, troppi bambini villani e sporchi per le strade, ubriaconi che strillano, immondizia gettata dalle finestre, qualche coltellata ogni tanto, e le ragazze non possono più uscire sole di sera.

Sarà sempre vero, o c’è dell’esagerazione? Un fatto, però, è sicuro: ci sono parecchi speculatori che fanno un calcolo di questo genere. Prendono qualche appartamento in una zona abitata da bianchi, lo affittano a famiglie nere, e aspettano. Cosa succede? I nuovi arrivati saranno per lo più gente povera, analfabeta, disoccupata (o tutt’al più, come lavoro, scaricheranno sacchi, tireranno carrettini). E gente che viene dalle campagne del Sud, sospettosa di natura e diffidente per la loro condizione di minoranza razziale, per le ostilità che incontrano subito.

Saranno anche poco pratici di norme igieniche, incapaci di tenere in ordine una casa, che già è amministrata con una rassegnazione un po’ cinica dai proprietari: quindi, se una persiana si spacca, rimane rotta; se una tubatura si interrompe, nessuno l’aggiusta. Alla fine, disperando di poterne mai ricavare qualche cosa, e vedendo che il valore cala, i proprietari venderanno tutto, per poco, agli speculatori. A San Francisco, si spiega sovente, accade lo stesso coi cinesi. Dove giungono loro, il vicinato si svende.

Le famiglie nere hanno sempre tanti parenti più poveri di loro, perduti in fondo a pianure immense e depresse, che vogliono venire in città a cercarsi un mestiere, disposti anche a pigiarsi in quattro o cinque in una stanza sola. Gli speculatori dunque affittano interi stabili, stanza per stanza, suddividendo ogni locale fino all’inverosimile: un ricatto che è tanto più sporco in quanto i poveri locatari non troverebbero tanto facilmen te un altro posto dove abitare in città, e quindi sono costretti a pagare affitti anche notevolmente alti.

Per qualche tempo, la coesistenza dei vecchi e dei nuovi abitanti provoca parecchie difficoltà. E quasi tipico l’esempio del barbiere italiano in una zona del West Side, a New York, che veniva lentamente invasa dai portoricani. Il nostro barbiere non intendeva tagliare i capelli ai nuovi venuti. Allora ha assunto un lavorante portoricano. E così, quando un cliente con la pelle scura s’affacciava nel negozio, il padrone, anche se stava leggendo il giornale, diceva «Francisco, c’è un cliente per te», anche se Francisco ne aveva già sotto uno. Qualche cliente se ne andava offeso; ma se qualcuno si lamentava, il barbiere italiano spiegava che non era abituato a tagliare quel tipo di capelli. Però alla fine ha dovuto trasferirsi in un’altra zona.

Pochi anni dopo l’arrivo dei primi neri o portoricani, il ciclo dello slum infatti è completo. Il quartiere oramai è sovrappopolato.

I cugini e i cognati del bravo operaio che ha un lavoro, lazzaroni, oziosi, cominciano a fare il giro delle bettole. La gente passa in strada la maggior parte del tempo. Le case si riempiono di topi. La delinquenza minorile dilaga. E presto, le prime famiglie nere che sono riuscite a elevarsi un pochino, cominciano a scappare a loro volta. Forse è il loro primo stipendio regolare, da generazioni; ma non esitano a sacrificarne una buona parte per andare a stabilirsi altrove. Il quartiere, oramai dannato, continua a degradarsi: arriva gente sempre più miserabile e disperata, e chi ne evade incomincia il medesimo processo in un’altra parte della città, dove di lì a poco riprenderanno a seguirlo i parenti e gli amici.

Gli americani stessi riconoscono che questo è uno dei loro problemi più gravi di politica interna, dovuto a decenni di cattiva amministrazione municipale. La corruzione dei sindaci e degli organi comunali, che chiudevano scandalosamente gli occhi su qualunque violazione delle leggi edilizie, è arrivata negli anni della Depressione a eccessi tanto drammatici da diventare proverbiali. Se la maggior parte delle città ha goduto di un relativo «buon governo» da allora, si può dire che è stato imposto a furor di popolo. Ma il danno peggiore era stato fatto; e buona parte di New York è ancora oggi una città di orrori, come la Parigi di Eugène Sue. I bianchi continuano ad andarsene, alla media di 50.000 persone all’anno, organizzando nuovissimi stili di vita nelle comunità suburbane. Al loro posto, sono arrivati nuovi gruppi sociali che non pagano imposte, hanno anzi bisogno di assistenza d’ogni genere, e così aggravano insieme la crisi edilizia e la situazione sanitaria nonché fiscale.

Perciò i problemi che si presentano oggi a una amministrazione comunale di una grande città fanno veramente paura.

Applicare le leggi sul risanamento degli alloggi, e frenare la speculazione, risulta praticamente impossibile. Come si fa a sistemare le decine di migliaia di neri e portoricani che arrivano ogni anno senza un soldo in tasca? E come trattenere in città i bianchi che abbandonano i quartieri dove non vogliono più stare?

I primi tentativi sono stati fatti una ventina d’anni fa, con risultati disastrosi. Era il tempo delle illusioni sul conto delle città–giardino.

Prima della guerra, parecchi architetti si erano entusiasmati alla discutibile idea di costruire grandi blocchi di abitazioni, tutti uguali, separati da larghi spazi pieni di prati e di luce. Ma il grattacielo andrà bene per gli uffici, nel cuore delle metropoli. E almeno agli inizi, quasi nessuno ha voluto vivere nei casermoni periferici, che paiono fatti non per chi ama abitare in città, ma per chi proprio non ha altra scelta: tutti gli appartamenti economici identici; una vita noiosa e squallida, da colonia penale; le strade tutte uguali, distinte solo da numeri; non ci sono diversi tipi di negozi, ma solo grandi magazzini, uno in ogni edificio, e servono solo quello, hanno tutti gli stessi prodotti. Per andare da un edificio a un altro, bisogna fare dei chilometri a piedi, oppure tante acrobazie complicate con la macchina, perchè i posteggi devono essere ordinatissimi. Non si può camminare sull’erba. Non si può lavare la macchina in strada; nè andare in bicicletta. I bambini vengono rinchiusi tutti insieme dentro giardinetti circondati da reti metalliche, come pollai o conigliere.

Nessuna meraviglia se la gente è corsa ad abitare in campagna, più presto che poteva, fuggendo da questi complessi edilizi concepiti come isole autosufficienti, isolate dal resto della città. Poteva esserci il supermarket, la lavanderia, l’ufficio postale, la tavola calda in ogni edificio: ma dove trovare il negozietto di frutta non conservata, la sartina a poco prezzo, il bar semibuio dove nascondere la propria malinconia?… Se uno vuol vivere isolato, tanto vale che si costruisca una casetta fra i boschi: spenderebbe lo stesso… Oggi questi alveari collettivi si continuano a costruire nelle aree dove sono stati abbattuti gli slums, per alloggiare le famiglie che non guadagnano più di un dato reddito. Ma i risultati non sembrano felici: gli studiosi che avevano previsto un miglioramento netto dei costumi, una volta che si fosse riusciti a migliorare le condizioni di vita, devono amaramente constatare che «il papà continua a drogarsi, la mamma a correre in cerca di uomini, e il figlio a uscire col coltello». Sarebbe dunque la monotonia dei quartieri tutti uguali, adesso, la causa di tutti i delitti e vizi?

L’aspetto di queste zone, certamente, è sinistro come quello di un campo di smistamento; e non troppo dissimile deve riuscire la sorveglianza da parte delle autorità preposte. Le case a basso affitto possono essere occupate solo da chi non dispone più di tanto: e le investigazioni sulle entrate di una famiglia possono essere anche molto pesanti, come sa bene quel nero che per poco non veniva sfrattato perchè possedeva una bella automobile, e poi si scoprì che la aveva vinta a una lotteria. Molte volte, poi, essere sfrattati perchè si guadagna oltre il limite consentito può significare anche dover tornare negli slums perchè non si riesce a trovare di meglio.

I criteri urbanistici nelle metropoli, quindi, si stanno ispirando a princìpi irrazionali, di moderata follia. Niente di rigido, di monotono, di ossessivo. E niente pomposità inutili e formalistiche.

Non case tutte uguali: ma piuttosto, qui una piazzetta asimmetrica, là un tempio buddhista, là un caffè di tipo parigino, o un laghetto, un boschetto, una terrazza. E soprattutto, molti negozi, e negozietti, di tipo europeo, un po’ finti o curiosi: la cartoleria accanto al panettiere, l’esclusiva sartoria vicina al modesto ciabattino e alla fruttivendola che avrebbe fatto impazzire il noioso architetto di vent’anni fa, se avesse osato esporre i mazzi di sedani e ravanelli fuori da una porta della sua «unità d’abitazione».

Una città che di notte si vuota, poi, è solo una mezza città, si dice: e perciò il quartiere dei divertimenti, downtown, dovrebbe essere sempre più simile a un immenso luna–park, per attirare sempre più gente, da molti chilometri di distanza. Altrimenti si accontenterebbero di andare nei cinema drive–in più vicini a casa. Quindi, luci, e musiche, insegne colorate, suoni festosi, passatempi organizzati. In qualche caso, si è perfino proibita la circolazione alle vetture per permettere alle persone di passeggiare liberamente, cosa tanto rara in America.

L’entusiasmo di vari urbanisti americani per queste «soluzioni pedonali» è quasi commovente: si tratta, dopo tutto, della «scoperta» di Piazza di Spagna, o di Montmartre.

Film di successo, come Missili in giardino dànno un’idea abbastanza prossima alla realtà della vita nelle comunità suburbane dove una larga maggioranza di famiglie americane benestanti abita attualmente, e sembra trovarsi tutt’altro che male. Le ville sono tutte nuove. Le famiglie, tutte composte di genitori giovani e un paio di bambini. Questi crescono un po’ allo stato brado, ma almeno sono lontani dai pericoli della città. La moglie deve avere un’automobile per sé, sennò rimane praticamente prigioniera in casa tutto il giorno, a parecchi chilometri dal negozio più vicino, e in queste condizioni si può anche impazzire.

Per buona parte della giornata, come fa Joanne Woodward nel film, si occupa degli «affari della comunità», un nuovo modo per indicare un passatempo antichissimo, quello di mettere il naso nelle faccende private dei vicini, col pretesto di controllare che si comportino tutti per benino. C’è nel film anche una moglie senza bambini (Joan Collins) che dà la caccia ai mariti delle amiche; ma non gliene va bene una: bella, carina, chic, però all’idea di fare un torto alla propria consorte, il terrore e lo sgomento si dipingono negli occhioni buoni dei mariti tentati.

Per mantenere questo tenore di vita, la casa e il giardino e le due automobili, il povero marito suburbano infatti deve alzarsi prestissimo, e viaggia più di due ore al giorno per andare e tornare dal lavoro. Nessuna meraviglia se arriva alle otto di sera morto di stanchezza. Non ha neanche più il fiato di dire «buonanotte» alla famigliola riunita: immaginiamoci se gli resta la voglia di guardare le mogli altrui… Molte volte, anzi, per evitare di incolonnarsi in una tripla o quadrupla fila di macchine che vanno e vengono tutte alla stessa ora lungo le medesime strade, prenderà il treno, come Paul Newman nel film.

Almeno così potrà distendersi, fare due chiacchiere, leggersi il giornale, bere un paio di bicchieroni. E nello stesso tempo, se in famiglia ci fosse un’automobile sola, la lascia a disposizione della moglie, che deve pure accompagnare i bambini a scuola, e passare dal villaggio più vicino a fare la spesa. Paul Newman, nel film, fa appunto così.

Nella realtà, invece, Paul Newman, che recita in teatro a New York e ha una casa parecchi chilometri fuori, va avanti e indietro in automobile. Lo spettacolo, che è Sweet Bird of Youth di Tennessee Williams, finisce verso le undici e mezza; e se si va a salutarlo in camerino a quell’ora, si vede un giovanottino ordinato, pulito, quieto, cortese (tutto il contrario del malmostoso Marion Brando), che si prepara la valigetta per rincasare, come un impiegatino che è andato a giocare al calcetto in trasferta, e dice «sono un’ora e tre quarti di macchina che devo farmi tutte le sere, però almeno dormo fra i campi». I suoi amici, fra cui Don Murray, lo invitano magari a cena. «Non posso proprio» risponde lui «se vengo, finisce che si resta a tavola come minimo fino all’una; e poi, a che ora arrivo a casa? Dopo le tre! Ma domani devo lavorare, come si fa… Mangio un sandwich qui, e parto subito».

Succede in tutte le grandi città, alla maggior parte della gente che si incontra. La tendenza generale è di fuggire dai centri sempre più rumorosi e malsicuri, dalle vicinanze pericolose e sgradevoli. Oramai, chi appena poteva farlo, si è preso una villetta a qualche decina di chilometri al di là delle sterminate periferie delle metropoli, fitte di casette operaie; e si è sistemato in campagna. C’entra molto, in questo, l’amore, ereditato dai bisnonni inglesi, del verde, degli alberi, del proprio pezzetto di terra da coltivare nelle ore libere, del pratino da tosare per rilassarsi dal lavoro d’ufficio. Ma l’esodo dalle città, questo sorgere improvviso di comunità suburbane lontane anche due ore di macchina dal centro degli affari, è anche un risultato del conformismo sociale che domina la vita americana.

Chiunque, se gli amici, i colleghi d’ufficio, o quelli che guadagnano tanto come lui, vanno ad abitare fuori, dovrà imitarli, per non fare brutta figura, e non essere considerato un originale o un pezzente. Altrimenti, sarebbe come continuare a mettere i vestiti del nonno, o andare a piedi quando tutti gli altri hanno l’automobile.

Anche qui, si può cominciare a imparare già molto da un giro nei quartieri centrali di Boston, costruiti nel secolo scorso dalla aristocrazia più tradizionalista del paese, e oramai disertati in gran parte.

Parecchi bostoniani antichi e facoltosi sono rimasti in città, e abitano tutti riuniti nei quartieri «esclusivi», circondati da vie e giardinetti «riservati», «ovattati», «blindati», «allarmati». Ma tutti gli altri, praticamente la maggioranza delle famiglie al di sopra di un minimo livello sociale, vivono fuori della vecchia città; e più hanno soldi, più abitano lontano, più strada devono fare tutti i giorni.

Un medio professionista si sarà stabilito sulle colline intorno, fra Belmont, Somerville, Wellesley, Arlington, in un paesaggio incantevole, quasi svizzero, di pini, laghetti, belle strade servite da rari autobus, candide ville con un bel prato dietro, e una siepe fittissima che lo divide dai prati dei vicini. Sono ville generalmente non grandi, per non dar troppo lavoro alla padrona di casa priva d’aiuto; e il mobilio non è gran che (l’antiquariato ha prezzi naturalmente proibitivi per i pezzi autentici importati dall’Europa; e il genere «vecchia America» sta cominciando a diffondersi solo adesso nelle classi medie). Però nelle cucine e in lavanderia non mancano tutti gli apparecchietti che servono a semplificare i lavori.

I bostoniani più ricchi o più eleganti, bisognerà andare a cercarli più lontano, lungo la costa settentrionale del Massachusetts, che è stupenda. Chi può costruirsi una villa importante, e non ha paura di far più strada mattina e sera, si spinge sempre più in su, oltre Salem, verso Beverly e Rockport, vecchi paesetti di pescatori di balene, con casette di legno bianche e tranquille, ben conservate, e alla moda come dei Positani o Portofini. Alle spalle, boschi di pini e d’abeti. La natura qui è affascinante: rocce alte sul mare, e di tanto in tanto dune sabbiose, di una sabbia grossa, gialla, di quarzo ruvido; e qualche ciuffo di canne alte.

Le ville si affacciano spesso sulla spiaggia, o sono costruite in mezzo alla boscaglia: di solito sono modernissime, un po’ hollywoodiane, con grandi vetrate, quinte che scorrono, vasti atri trasformabili, pavimenti di legno e pietra grezza, camino nel centro.

Ma c’è uno speciale gusto nel conservare come monumenti un po’ orrendi le palazzine dell’alta borghesia 1880, con le torrette e i pinnacoli, biblioteche un po’ sepolcrali, tanti vetri colorati; e ci si diverte molto a riarredarle con buffet alti e nerissimi a colonnine tortili, tappeti con frange pesanti, lampadari di vetro verde, da notaio di provincia.

Guardata dall’alto, questa regione è anche più splendida.

Dall’aeroplano, che si prende per andare a New York, a Washington, a Filadelfia, si vede questo paesaggio delizioso di boschi e d’acque. Neanche un campo: tutti fiumi, laghetti, spiagge, prati verdissimi seminati di villette per una estensione di centinaia di chilometri. Sembra che tutte le città si prolunghino fino a toccarsi, attraverso queste distese di campagna vastissime diventate aree residenziali. Le regioni più densamente popolate paiono veramente una immensa periferia brutta, ma talora ecco un paradiso suburbano alla portata di chiunque possa disporre di un reddito fisso di una certa entità.

Il fenomeno si fa anche più vistoso quanto più ci si allontana dai vecchi centri del New England, ancora abbastanza attraenti e legati alla tradizione di un particolare stile di vita. Nessuno esita più certamente a voltare le spalle a una città moderna rozza e priva di fascino; e già queste comunità in campagna, benché giovani, hanno ispirato un buon numero di libri e film di successo. I più tipici, quelli di Peter De Vries e di Max Shulman, hanno reso popolarissimo il personaggio del «com muter», cioè il marito suburbano, ridendo alle spalle dei mille piccoli incidenti che gli complicano l’esistenza. Viaggiare ogni giorno da casa al posto di lavoro si dice appunto «to commute», un neologismo che rende abbastanza l’idea del transito, del passaggio; lo si sente sovente quando si tratta di rispondere alla domanda: «E così, dove siete andati a stare?».

Avvicinandosi al paradiso suburbano però, si cominciano a vederne gli inconvenienti (le lamentele del «commuter» sono cominciate da un pezzo…). E se si attraversano in macchina i «suburbia» del New Jersey o di Long Island, intorno a New York City, si vedono sì i grandi alberi, le belle ville, i teneri prati; si vedono i bambini in costume da bagno che giuocano col cane, e il padrone di casa che cuoce le bistecche sul fornello all’aperto, secondo la moda corrente, con un berretto da cuoco in testa, un grembiule con i disegni di Topolino, e una corona di ospiti che aspettano tutti in fila, col loro piatto in mano, oppure stravaccati sulle poltrone di vimini. Però i fastidi sono già parecchi.

I primi arrivati si trovavano benissimo in quei grandi spazi aperti e verdi, si godevano il sole e la natura. Ma poi continua a venire altra gente. Si cominciano a frazionare le proprietà, a costruire nuove casette, fin troppo vicine l’una all’altra. Dietro le casette arriva il supermarket, il cinema drive–in, che saranno comodissimi, ma anche cattivi auspici di tutto quello che arriverà ancora: non è lontano il momento che spunterà fuori tutto il rumore e la confusione che si era creduto di fuggire abbandonando la città. Comincia l’invasione delle scavatrici, delle imprese di costruzioni, dei rulli compressori; all’alba non si riesce già più a dormire, e le strade saranno sempre ingombre, o buttate per aria.

Poi, come è fatale in questa società che adora il progresso ma è un progresso paradossale, una prosperità che più aumenta, più abbassa il vero tenore di vita -, arrivano gli agenti del fisco.

I terreni e le ville si erano pagati poco, certamente; e tutti allora si erano rallegrati all’idea di risparmiare i soldi dell’affitto in città (tutti gli americani tendono a essere proprietari della casa dove vivono: odiano l’idea stessa dell’affitto o del condominio). Ma adesso le imposte aumentano paurosamente, forse anche peggio che in città. I contributi per le strade, l’acquedotto, l’elettricità, i telefoni, salgono alle stelle, dal momento che tutti i servizi vanno impiantati nuovi, posando cavi e tubature per distanze enormi. La comunità incantevole dei primi anni, lamentano tutti, fa anche troppo presto a trasformarsi in un paesaccio qualunque.

Sembra quindi che anche lì, come nelle metropoli, il ciclo sia ormai completo. Qualcuno torna addirittura in città. Si tratterà specialmente di persone che hanno un assoluto bisogno di starci: giornalisti, gente che lavora alla radio o alla televisione, con orari lunghi e irregolari. Oppure funzionari di società che sanno bene di essere lì solo di passaggio, e quindi trovano che non val la pena di prendere una casa in campagna per pochi mesi. Quando una università è in città, poi, come la Columbia a New York, i professori tendono a vivere lì vicino. Ma il nucleo più grosso dei nuovi abitanti delle città sarà dato dai giovani non sposati o sposati da poco che devono star molto dietro a un lavoro importante e non hanno troppi soldi. In questo caso, parecchi di loro, o parecchie coppie, si mettono insieme per prendere un grosso appartamento e dividere tutte le spese. Ma basta la nascita del primo figlio (che dà fastidio agli altri, e obbligherebbe la coppia a mettersi da sola) per convincerli al ritrasferimento in campagna.

Nelle comunità suburbane si troveranno dunque soprattutto famiglie giovani, con bambini piccoli. Due coniugi senza figli si troveranno meglio in città, sia pure in un appartamentino piccolissimo.

Non costa troppo, e la moglie non soffrirà dei continui paragoni con le vicine prolifiche. Anche le vedove, i divorziati, gli scapoli, le nubili preferiscono stare in città, per la stessa ragione.

E gli artisti, lo stesso, naturalmente.

Sovente si sta poi assistendo a un fenomeno che è l’esatto contrario di ciò che si è sempre visto da noi. Si era abituati, cioè, alle famiglie che vivevano in città per decenni, perchè il padre aveva il suo lavoro e c’erano i figli da mandare a scuola: sistemati questi, i due vecchi, diventati nonni, si ritiravano tante volte in campagna, o in riviera, o in un centro più piccolo.

Negli Stati Uniti, succede invece che dopo qualche anno la vita in campagna comincia a stancare. Provate a tagliare il pratino un giorno sì e un giorno no: dopo venti o trent’anni, non sembra più tanto divertente. E non se ne può più anche di dover continuare a potare le rose, tagliare la siepe, rastrellare il sentiero; che barba! I vicini sono sempre gli stessi, e una volta che i figli sono cresciuti e andati per la loro strada, gli argomenti di conversazione delle mamme paiono improvvisamente ridotti, e i giorni più lunghi e più vuoti. Che tristezza, poi, durante l’inverno! La signora di mezza età comincia dunque a fare delle scappate più frequenti nella città vicina, e le sembrerà di respirare ogni volta una boccata d’aria più eccitante del solito.

Ma i due coniugi non sono più tanto giovani, e non trovano più le forze di un tempo: andare avanti e indietro troppo spesso li stanca. E come sono più deprimenti, poi, le vecchie serate a due… Oramai, del resto, potrebbero anche permettersi un appartamentino in città: oh, una cosa da niente, un pied–à–terre minuscolo per fermarsi a dormire quando nevica o si vuole andare a teatro. Intanto, il primo passo è fatto.

Va a finire che la moglie e il marito incominceranno a passare talmente tanto tempo nelle due stanze in città, riducendosi a tornare nella villa solo durante i weekends, che a un certo punto si presenta spontanea l’idea: «Ma perchè continuiamo a tenerla?

Prendiamoci piuttosto un bell’appartamento in un bel quartiere, con tutte le nostre comodità». Tanto più, la villa è invecchiata, non si ha voglia di star lì a riparare il tetto, e ai figli non interessa: loro, per esigenze di lavoro, devono abitare da tutt’altra parte.

La signora, diventata anziana, comincia a riscoprire dunque i vantaggi della città. Ma oramai ha i mezzi per potersi permettere una bella casa; e può quindi apprezzare i teatri, i concerti, i musei, i bei negozi, dimenticando gli aspetti poco simpatici e i vicinati imbarazzanti che l’avevano fatta scappar via da sposina.

Non dovendo più fare tante distanze, ricomincia anche ad andare a piedi, ben contenta: tanto di guadagnato per la linea. E se proprio vorranno prendere una boccata d’aria, con i nipotini, si persuaderanno che è meglio comprarsi una villetta al mare, o in una campagna «vera», lontanissima dalle metropoli: bisognerà viaggiare ore e ore per arrivarci, su nel Vermont o nel Maine. «Mai più, però, in una comunità suburbana: ci abbiamo passato tanti anni belli, però adesso basta, è finita».

America Amore
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