IL BARDO SOTTO UN TETTO DI NYLON

Questa primavera le autorità del Massachusetts – Parlamento, Governatore, Sindaco, Commissione edilizia – si mettono d’accordo con i funzionari del Metropolitan Boston Arts Center e con una quantità di ricchi cittadini amanti dell’arte e disposti a sborsare delle somme cospicue, per costruire un nuovo e grandioso Centro Artistico che serva non soltanto la città ma i sobborghi e i centri minori dei dintorni che si stanno espandendo con una rapidità velocissima. Trovano un bel posto in un’ansa del fiume Charles, a pochi chilometri dal centro di Boston, tra Brighton e Cambridge, e servito da strade comodissime; gli «architetti del paesaggio» cambiano la forma a questo luogo, e si cominciano a gettare le fondamenta di sale da concerto, gallerie d’arte, un teatro d’Opera. La prima costruzione finita, su una collinetta artificiale circondata da allori in riva al fiume, è stata appunto il teatro all’aperto.

Tutto fatto in maniera che pare semplicissima: una struttura di piloni regge una cornice metallica rotonda di una quarantina di metri di diametro. Dentro questa cornice è sospeso un tetto di nylon impermeabilizzato con delle resine, a forma di lente, e diviso in tanti compartimenti gonfi d’aria, come un dirigibile.

Di lontano, pare inevitabilmente un disco volante. Alla cornice rotonda sono poi appesi tutto intorno dei tendoni di tela da circo equestre, verdi e blu, che si aprono e chiudono a seconda che ci sia troppa luce, tiri vento, o piova.

Ci si siede su poltroncine da giardino, di ferro e tela, disposte a semicerchio come in un teatro greco o romano: ce ne sono 1800; e la scena è elisabettiana, a due piani; si spinge fino in mezzo al semicerchio formato dalla platea, così ha il pubblico da tre lati, però può anche essere arretrata su un fronte solo, come in un teatro regolare. In questo caso ha il sipario: altrimenti non c’è. L’acustica dovrebbe essere abbastanza buona, perchè avevano calcolato che la parte inferiore del tetto, convessa, dovesse disperdere gli echi; ma adoperano quasi sempre i microfoni. I riflettori sono sospesi a un’altra cornice metallica, più bassa, a forma di U sopra la testa del pubblico, e purtroppo non sono riusciti a trovare un modo di nasconderli: si vedono tutti e stanno malissimo.

L’organizzazione degli spettacoli è poi affidata a una proba istituzione, il Cambridge Drama Festival, che ha esperienza e ha soldi.

La sera dell’inaugurazione, verso la metà di luglio, questo teatro era l’unica cosa finita del complesso. Il terreno tutto intorno era ben lontano dalla sistemazione: c’era pieno di pozzanghere, mucchi di ghiaia, badili lasciati lì dagli operai; e due scavatrici unite per il becco davanti alla biglietteria formavano una specie di arco trionfale con un rozzo cartello di «Welcome» sotto cui passavano gli ospiti. Le autorità e i mecenati erano arrivati da Boston risalendo il fiume su una specie di bucintoro seguito da una fila di barche private, con fuochi artificiali, salve di cannoni, squilli di trombe, valletti in costume, discorsi di circostanza, e falò accesi in mezzo al terreno da costruzione per cuocere hot dogs sul barbecue per tutti.

Purtroppo lo spettacolo inaugurale è stato un pasticcio. Voler cominciare la prima stagione tutta dedicata a Shakespeare con una Twelfth Night trasformata in «musical extravaganza» può anche parere, a dirla così, una idea seducente; ma poi bisogna trovare le persone capaci di fare della stravaganza con abilità e con gusto. Altrimenti è meglio andar via lisci. Basterà ricordare che cosa era di incantevole la stessa commedia nella edizione dell’Old Vie che è venuta in Italia nel dopoguerra, con Celia Johnson protagonista, una semplice tenda di broccato come sfondo, e i versi di Shakespeare recitati come si deve.

Nient’altro. La poesia parlava da sola, e andava bene. Poi si potrebbe fare un paragone con la Dodicesima notte rappresentata da una compagnia italiana diretta da Renato Castellani: un’orgia di scene meravigliose e costruitissime che cambiavano ogni due minuti, andavano su e giù, entravano da tutte le parti, e cia scuna mostrava i milioni spesi. Soprattutto indimenticabili, al Manzoni milanese, i cilindretti–sedili che salivano dal pavimento per accogliere i sederi già anticipatamente protesi da Laura Adani e da altre dame rinascimentali. Ma non era necessario essere il tipo di critico parruccone per domandarsi «e la poesia dove è andata?».

Questa versione made in Boston era affidata a uno di quei registi–attori austriaci che hanno forse fatto un po’ da aiuto a Reinhardt, poi si sono stabiliti qui da una ventina d’anni, e insegnano arte drammatica in qualche università. Il nome è Herbert Berghof: si vede che ha chiamato parecchi attori di buona fama, e poi ha cercato di abbandonarsi alle «invenzioni» senza dimostrare di avere quel minimo di misura e di gusto senza i quali si fa in fretta a scivolare nel gratuito, nell’assurdo, nel ridicolo.

I costumi sembravano presi a caso da un magazzino teatrale fornito di tutto quello che può servire, da Plauto e Terenzio in poi, per metter su una recita studentesca improvvisata.

Erano invece, naturalmente, nuovi, firmati, e saranno costati un sacco di soldi, ma l’impressione complessiva era in ogni momento quella di un carnevale di poveretti, senza coerenza.

Questa Twelfth Night pareva, irresistibilmente, una finta commedia della Restaurazione rappresentata da un teatrino universitario dell’Europa centrale nel 1935; ma quando entrava Olivia col suo gruppo, inevitabilmente sembrava che avessero appena finito di provare De Musset in una stanza vicina, e fossero capitati lì per sbaglio vestiti ancora per i Capricci di Marianna.

Appena poi capitava Sir Toby, era il marinaio guercio e cattivo dell’ Isola del tesoro-, e tanto più ci si confondeva, perchè le principali regole per rendere chiaro uno spettacolo al pubblico non erano rispettate dalla regìa; e per esempio, quando la scena è divisa in due sezioni, una più bassa e una più alta, tutte le scene che si svolgono su una spiaggia, come imbarchi, sbarchi, naufragi, approdi, si suppone che debbano essere collocate nel livello inferiore. Qui no, invece: naufragavano sempre in alto, sulle cime delle montagne; per cui, quando poi si vedevano altre persone chiacchierare nel giardino, parecchi metri sotto, tutti giustamente si domandavano «ma cosa fanno adesso quelli in cantina?».

Ancora: quando si rappresenta una commedia in tanti quadri, con una sola scena fissa e senza sipario, è indispensabile mettere dei segni tutte le volte che si suppone che la scena cambi (basta pochissimo, si sa, un albero, un arbusto, uno sgabello), altrimenti si perde il filo, e bisogna sempre domandarsi «adesso dove sono? alla Corte del principe o nella catapec chia del boscaiolo? nel palazzo di Olivia? sulla piazza principale? in aperta campagna? verranno fuori i nemici dalle grotte, o la cuoca dalla cucina?». Questo, appunto, succedeva; e, più grave di tutto, per confondere ancora di più le idee sui luoghi, c’era una conchiglia a rotelle, che pareva di gesso e serviva da trono, e andava e veniva in tutte le scene, indifferentemente, nonché un sedile da altalena a braccioli, che andava su e giù, anche quello indifferentemente, a Corte o da Olivia, nelle spiagge e nelle piazze, per vicoli e cortili. Bruttissimo da vedere, poi, perchè non potendo farlo sparire quando non serviva, anche se lo alzavano rimaneva sempre lì, illuminatissimo, a dondolarsi due metri sopra la testa degli attori; e anche quando stava giù, avevano tutti paura a usarlo, e si vedeva, perchè scivolava via di sotto al sedere come fanno tutte le altalene.

I sedili, nella Dodicesima notte, ci vogliono: ci vorrebbe tanto poco a farli portar dentro, diversi per ogni luogo della azione, da qualche comparsa… Le comparse le avevano: tantissime; ma erano fin troppo occupate a lanciarsi palloni, agitar fronde, manovrar pappagalli: e non si ha niente contro pappagalli e palloni; ma cosa c’entravano? Domani uno ci mette corvi, falchetti, aquile, dromedari: ma cosa crede di aver fatto rispetto a Shakespeare che ci ha messo, lui, la poesia? Perché, come se non bastasse, questi sciagurati dovevano essersi detti: «Qui ne tagliamo un cinquecento versi, che tanto sono brutti, qui un duecento, qui una decina». E cosa ci hanno messo dentro, al posto dei versi? Finte romanze elisabettiane, cantate da uno «zany–soprano», scritturato apposta, che andava avanti per mezz’ore intere, noiosissimo, antipatico. C’era anche Geoffrey Holder, quel ballerino nero di Trinidad alto due metri, che l’anno scorso a Spoleto faceva le entrate sensazionali nei teatri con un mantello di raso nero e il cilindro in testa; qui si contentava di andare e venire con una penna di fagiano lunghissima. E neanche nel dietro.

Gli attori, uno per uno, erano anche persone competenti, a partire da Zachary Scott, protagonista di parecchi film, che era Orsino, e da Siobhan McKenna, che in pochi anni, con una impetuosa interpretazione della Santa Giovanna di Shaw (dicono, la migliore di tutte), si è lasciata alle spalle Belfast e Dublino, e si è conquistata una fama mondiale. Qui però pareva un po’ la Merlini e un po’ la Magni. Il guaio con la ragazza che faceva Olivia era che avrebbe dovuto interpretare una Ricca Con tessa ma veniva fuori invece una di quelle gentildonne che saranno bravissime, però uno le scambia sempre per la cameriera, e dà la mancia.

Anche gli altri attori avevano fatto tutti delle cose notevoli in teatro o nel cinema, e hanno carriere dove in un modo o nell’altro c’entrano gli spettacoli più importanti di questi anni.

Ma è difficile, quando si vedono tutti coinvolti in una sciocchezza: qui Malvolio è un attor giovane, e questo mi sembra già un errore, perchè lo scherzo che gli fanno della falsa lettera d’amore indirizzata a lui è un po’ il tipico scherzo che si fa a un uomo di una certa età. Memo Benassi, sbagliando, però genialmente, faceva questa parte come se fosse Tartufo; altri ne fanno un personaggio quasi comico. Ma quando si vede nella produzione di Boston questo maggiordomo essenzialmente narcisista trasformato in un burattino da baraccone, e tutta la lettura della lettera svolgersi non davanti a un paio d’amici nascosti dietro un cespuglio qualunque, ma sotto il tiro di una decina di mascalzoni con maschere e nasi finti, arrampicati su alberi espressionistici, che fanno versacci grotteschi e scurrili, suonano trombette, gettano noccioline, come scimmie di Walt Disney, allora no.

E non c’è niente da ridere neanche nel finale (quando i due gemelli, Viola e Sebastiano, vestiti ancora degli abiti e delle parrucche uguali che hanno prodotto tutti gli equivoci, si sposano finalmente, lei con Orsino, e lui con Olivia). Qui il regista, per fare lo spiritoso alle spalle dell’Autore, fa fare una giravolta ai due, per cui a un certo punto, davanti all’altare, dove li aspetta un vecchio frate scalzo, ubriaco, e pieno di sonno, si trovano per un momento Orsino con Sebastiano, e Olivia con Viola. Se ne accorgono subito, naturalmente, con un piccolo strillo, e tutti riprendono i loro posti. Che dritto, quel regista!

Il povero Shakespeare, si sa, non poteva pensare a tutto: ma dove non arriva lui, c’è sempre un allievo di Reinhardt che ci pensa… Il secondo spettacolo di questa stagione shakespeariana tra Boston e Cambridge è stato un Macbeth che non è andato troppo bene e perciò non sarà portato a Broadway come era in programma (questa doveva essere, come qui si usa, una specie di anteprima o rodaggio); però è stato nobilissimo, come fallimento.

Le ragioni di maggiore interesse per questa produzione stavano principalmente nel fatto che si trattava del primo saggio shakespeariano di José Quintero: un regista giovane, bravissimo, che si è fatto una solida fama in pochi anni nei teatrini del Greenwich Village, poi in posti più importanti, e ha meritato un grande successo insieme a praticamente tutti i premi teatrali che contano a New York, mettendo in scena i drammi postumi di O’Neill. Lo si è visto l’anno scorso a Spoleto, appunto con A Moon for the Misbegotten. Il suo Macbeth sarebbe stato interpretato da Jason Robards jr, suo stretto collaboratore in questa opera di esecutore testamentario di O’Neill, e premiatissimo anche per la sua interpretazione di Scott Fitzgerald nella commedia The Disenchanted. La protagonista, ancora Siobhan McKenna, come nella Twelfth Night: ed è veramente l’attrice di cui si parla meglio, in questo momento, a Broadway e fuori.

Però la debolezza di tutto questo Macbeth è stata proprio che Quintero aveva impostato vigorosamente lo spettacolo, vedendo giusto tutto, ma gli sono venuti meno i due protagonisti: il punto fiacco è stato veramente lì.

Il palco è un baraccone elisabettiano a due piani, di legno nero, un po’ affumicato e patibolare, e aperto sui quattro lati, cioè anche dietro. Le streghe arrivano precedute da rumori d’aeroplano, da trombe laceranti: corrono e saltano come tante Giuliette Masine in parrucca di rafia e stracci chiarissimi; non hanno pentola ma il fumo esce da buchi del pavimento, e le luci tempestose del cielo vero aiutano apparendo dalle aperture del telone (erano giorni di temporali). Le rane, anche quelle, non si capisce bene se siano vere o no, e se i grilli e i rumori della notte vengano dalle scatolette dei macchinisti o dalle sponde del Charles River; ma va tutto bene, comunque. A un certo punto si alza in secondo piano una tenda rossa illuminata, e il banchetto per il Re Duncano si vede soltanto di scorcio, dietro certe colonne. E poi le mani insanguinate orribilmente di lui e di lei fanno un buon effetto.

Il portiere gigione fa invece un monologo spropositato perchè è uno di quegli attori straripanti che non si riesce a controllare.

E anche giusto che Macduff, appena scoperto il delitto, vomiti; e che l’incoronazione sia eseguita fra le solite cornamuse, i soliti trofei barbarici, e qualche seggiola da giardino fatta di rami secchi verniciati in rosso; e lei, che prima era in abito verde smeraldo e parrucca di fiamma, sia ora vestita color vinaccia, mentre lui porta un mucchio di volpi disordinatamente sulle spalle, buttate là come pelli di coniglio o di gatto.

Vanno bene gli assassini, con facce tormentate come ritratti del Greco, e un vento continuo che fa lo stesso rumore del frigorifero quando si rimette in moto, la scena aperta verso lontananze tenebrose, cani e gatti che si lamentano minacciosa mente, mentre soffi d’aria vera, gelida, scuotono il telone del teatro, e seduti nel pubblico John Gielgud si tira su il bavero della giacca, Margaret Leighton rabbrividisce sotto la cuffietta di perle, affonda in una candida stola schiumosa.

Il banchetto con le apparizioni è stupendo. Sarà una impressione mia, ma lì a Quintero è rimasto in mente quello organizzato da Visconti l’anno scorso a Spoleto per il Macbeth di Verdi. E le apparizioni stesse, che sono sempre un gramo affare, vengono risolte in maniera giustissima: semplicemente si accende un riflettore, e si vede un cono di luce qui o là. Come per Jean Vilar alla Scala. Un grande momento è quando lui e lei, sopra la tavola apparecchiata e disertata che ricorda ancora inevitabilmente Visconti (il primo atto della sua Traviata alla Scala), si stringono le mani, se le guardano, e si separano senza dirsi una parola.

Le streghe ritornano subito con una apparizione anche più spaventosa: stracciatissime, coperte di lividi enormi, portano in scena tanti oggetti schifosi e indistinguibili, che però fanno paura; riempiono di fumo tutto il teatro, un odore di zampironi da morire; urla di gatti arrabbiati, sempre più forti; appaiono grossi scarafaggi uso Kafka, insettacci con le corazze e le elitre, bambini insanguinati, le ombre degli assassinati in una profondità verde sottomarina; c’è una avanzata di grossi personaggi in veli viola e rossi, su trampoli alti tre metri, come se volessero marciare sul pubblico, tra urli disumani e luci accecanti proiettate sugli spettatori: l’effetto totale è grandioso, meglio del Cinemascope.

Da un bravo regista si accetta qualunque sopraffazione; e dopo questa specie di carnevale degli animali, anche la sfacciata ruffianeria di passare di colpo al più soave degli «interni» familiari: i bambini di Macduff con i loro sgabellini e i loro giocattolini, belli, graziosi, simpatici, come i piccolini di Edoardo IV (sempre in Shakespeare), presentati con una tenerezza esagerata, un po’ da scatola di cioccolatini preraffaelliti, e subito dopo strangolati in scena, anche la bambina di cinque anni, con un realismo impressionante. La scena seguente, poi, fatta «per spezzare il cuore», è quando dicono a Macduff che glieli hanno ammazzati tutti: lui rimane per qualche momento immobile; lo scuotono, e non reagisce. Poi comincia a urlare.

Effettivamente, si vede chiaro qui come sotto un buon regista tutti gli attori rendano in un modo diverso, e funzionino bene. Ma poi si arriva alla scena del sonnambulismo, e tutti i dubbi che avevano cominciato a presentarsi sulla capacità dei protagonisti qui si confermano insieme: dove si vede che il bra vo regista potrà fare di tutto, ma non dare il fiato a un attore troppo piccolo per una grande parte. (Alla Scala, si era abituati con la Callas e poi la Nilsson).

Semplicemente, loro due non ce la fanno. E vero, non ho mai sentito «declamare» con una retorica tanto appassionata come fa la McKenna, che è sempre piena di impeti, di una sicurezza fin troppo autoritaria; ma appunto perchè tende a strafare e agitarsi troppo, la sua Lady Macbeth risulta una suburban housewife, vivacissima e agitatissima, completamente priva della maestà un po’ terribile, della dimensione abbastanza tragica che si è abituati ad associare con questo personaggio.

Finisce per sembrare più una Sonnambula di Bellini che non la Lady Macbeth tradizionale: si strofina le manine affannosamente, urlando, camminando velocemente dappertutto, piccolina, mobilissima, coi suoi veli bianchi e a piedi nudi, sotto gli occhi di una specie di Sergio Tofano piccino piccino, che è il medico, e sta in un angolo acquattato; ma se invece che «Tutti i profumi d’Arabia» le parole che lei dice fossero «Ancora, ancora quel gattaccio maledetto è riuscito a entrare in salotto e a sporcarmi il mio bel tappeto», non farebbe differenza e non sarebbe una sorpresa per nessuno, ho paura.

Tutto il rapporto fra la moglie e il marito è poi un po’ immiserito, come se si trattasse di un salesman di Arthur Miller, un povero commuter che arriva a casa stanco, e trova la mogliettina tutta–pepe che gli dice che in ufficio lui non sa farsi valere.

Probabilmente Robards, che come attore sembra un po’ fiacco, e ha sguardi docili e acquosi da buon cagnone San Bernardo (lo avrò incontrato per strada cento volte), sentendo di non aver fiato abbastanza per sostenere la grande parte, si sarà accordato col regista per impostarla tutta sull’affranto, sullo sfinito, come se le cose succedessero sempre malgrado lui. (E poi, come interpretazione, non è delle più stupide). E anche significativo che porti sempre spade troppo grosse e troppo pesanti, e così deve trascinarsele dietro come una vanga o una scopa.

Quando si batte, cerca solo di ripararsi, guardandosi attorno come per chiedere «ma da che parte arrivano questi colpi?»; e quando la va a prendere, morta, e la porta fuori per fare sopra il cadavere tutto il discorso del «domani e poi domani», ha dei piedi piatti da far compassione, un modo di esprimersi da poveretto.

Eppure anche le ultime scene andrebbero così bene, quando mancano loro due; trombe stonate e sfasate suonano, appaiono dei vecchi magri, spettrali, curvi, negli angoli. E il bosco di Birnam fa una grande entrata attraverso le porte del pubblico, perchè gli armati di Malcolm entrano coi loro rami secchi e inariditi (contro il testo) alle spalle della platea, avanzano tra i corridoi e le poltrone, e salgono sul palco in tempo per incontrarsi sotto le luci dei riflettori coi soldati di Macbeth, che invece arrivano da dietro il palcoscenico (Dunsinane quindi deve essere dalle parti dei camerini).

Si interrompe il suono delle cornamuse, e la battaglia comincia improvvisa, magnifica. La grande scena è tutta occupata, le lotte sono furióse, gli scudi si piegano e si incurvano sotto i colpi, e la vernicetta d’argento salta via a scaglie.

Anche qui, è soltanto la disperazione della stanchezza che sostiene Macbeth: è già finito prima di battersi, gira su se stesso con la spada fra le gambe, senza veder niente, combatte a caso, contro fantasmi. E alla fine Macduff, tossendo e sputando, lo strangola torvamente, miserabilmente, per terra, lo prende in braccio, e lo butta davanti a Malcolm mentre si muove e respira ancora un po’. (Rimarrà così definitiva quella famosa Lady di Birgit Nilsson alla Scala, monumentale fra lame di luci radenti come battenti che la cancellano, nell’edizione di Hermann Scherchen e Jean Vilar).

Sir John Gielgud, sul conto del quale si nutre il dubbio che si tratti del più grande attore vivente, è stato ingaggiato da questo festival drammatico di Boston e Cambridge per riprendere la sua produzione di Much Ado About Nothing che aveva avuto un grosso trionfo anni fa a Stratford, e ha finito per farne la più perfetta, forse, delle rappresentazioni shakespeariane di questi anni.

Il grand’uomo è comparso verso la metà d’agosto, mentre andavano ancora avanti le repliche del Macbeth, e non si vedevano in giro altro che barbe lunghe, perchè per disposizione del regista Quintero tutti gli attori e le comparse coinvolti nel suo lavoro se le erano dovute lasciar crescere; e così non si poteva entrare in un bar o in un ristorante senza trovarci un gruppo che pareva portato lì di peso dai Deux Magots di tanti anni fa.

La prima apparizione del gruppo del Much Ado è stata sensazionale; e quantunque gli americani non badino mai alle persone e a come sono vestite, loro hanno fatto voltare parecchia gente quella sera di vento freddo che sono venuti al Macbeth e me li sono trovati vicini, perchè (ci tornavo per la terza volta) mi ero messo in prima fila per controllare le espressioni delle facce.

Tutti vestiti con una eleganza molto inglese ed eccessiva rispetto all’occasione: in mezzo a un normale pubblico americano molto più scamiciato che in qualunque arena d’Europa, o tutt’al più in giacchettine chiare, un gruppo di signori in blu e nero fa sempre una certa impressione: ma quantunque poi di donne ben vestite se ne siano viste parecchie, a cominciare da quelle che vengono messe tutti gli anni nelle classifiche delle più chic del mondo, Margaret Leighton, che era la Divina del gruppo, mi è parsa senza paragone la più chic di tutte. Magrissima, biondissima, sofisticata: nient’altro che una tunica bianca ricamata d’oro, fuori del tempo e fuori della moda, come avrebbe potuto portarne la Laura del Petrarca, o Anna Bolena, o Isadora Duncan da giovane, con una borsetta di perle e una cuffietta di perle, guantini candidi, e una stola ugualmente bianca e oro: ma paiono incomparabili la grazia e la bellezza di questa attrice che è brava sul serio, è stata la stella dell’Old Vie in Shakespeare, Sheridan, Shaw, Cechov, Ibsen, ha portato al successo le cose migliori di Eliot e Rattigan, con lo stesso gusto, e ha fatto ogni tanto delle belle apparizioni al cinema, come in The Sound and the Fury.

Con Michael McLiammoir, che è uno dei più bravi attori irlandesi, nonché critico teatrale brillante, e con lo scenografo Mariano Andreu, vecchio collaboratore di Sir John anche al Covent Garden, hanno cominciato subito le prove in un vecchio teatrino di stucchi e peluches polverose, usato un tempo per operette e vaudevilles, e ridotto ora a sala di esercizi per la sezione drammatica della Boston University, sulla Huntington Avenue, tra negozi di frutta, giochi di bocce, nobili magioni dell’Ottocento in rovina e abitate da neri. La banda del Much Ado ha cominciato a vedersi spesso in giro: ogni tanto, nei prati, nei giardini, davanti ai locali notturni, arrivava una macchina e venivano fuori in sei o sette, generalmente pittoreschi, uno zoppicante, uno ossigenato, uno con la camicia aperta fino alla pancia, una nera, uno con tante macchine fotografiche, uno con una enorme scatola di fazzoletti di carta, altri con bottiglie, piume, ramoscelli, cassette. Ma il grande attore, che non aveva troppo tempo di andare in giro, e lavorava con un certo impegno, perché lo spettacolo in ottobre passa in uno dei più bei teatri di Broadway, ha cominciato a fare delle dichiarazioni interessanti, a tavolino e anche a tu per tu.

«Tutti gli attori e i registi oggi parlano volentieri di motivation» dice «e certamente quando si comincia a provare una commedia tutti cercano di capire il più possibile di che cosa tratta. Ma supponiamo che non ci siano didascalie nel testo.

Supponiamo che l’autore sia un poeta, che la commedia sia di idee e non di azione; oppure supponiamo che sia scritta in tutt’altro stile da quello che va di moda attualmente, e tenendo presente una scala di valori tutta diversa, peculiare del periodo in cui è stata scritta e della società a cui era destinata. Supponiamo che l’autore sia morto. A questo punto si è liberi di interpretare il testo come si vuole: una possibilità che sarà affascinante, ma che disastri possono anche venirne fuori!

«Con Shakespeare càpita che qualunque dramma ha per fortuna una forza talmente straordinaria da sopravvivere agli oltraggi più infami. La storia sarà pazzesca, i giochi di parole arcaici e incomprensibili senza note o glossari; gli eroi potranno sembrare assurdi, e i personaggi comici dei perfetti cretini.

Attori e registi conoscono bene queste difficoltà, e cercano di aggirarle ricorrendo a ogni tipo di trucchi: spiegazioni psicanalitiche, meraviglie di scenografia, colori, balletti, musica concreta.

«Secondo me, perdono il loro tempo. Certo: non si rendono conto che il dramma sopravviverebbe lo stesso, proprio perché ha abbastanza forza in sé per resistere. Loro possono fare delle cose anche graziosissime, ma diventa un’altra roba: allo spettacolo originario si sostituisce un divertimento di tutt’altra specie, che non c’entra più niente con le intenzioni dell’autore.

«D’altra parte ricordo però che una volta, parecchi anni fa, ho chiesto a dei professori di letteratura inglese, fra i più importanti di Oxford e Cambridge, di venire a fare delle regìe per me, in Hamlet e in A Midsummer Night’s Dream, nel modo più vicino al testo che fosse possibile. Non ha funzionato. Abbiamo imparato sì parecchie cose utilissime sulla lettura del testo, per tutto quello che riguarda il senso e il ritmo dei versi; ma gli attori non sono riusciti ad abituarsi al punto di vista “accademico”; d’altra parte i professori si sentivano perduti di fronte a tutte le domande che riguardavano le posizioni e i movimenti; e a me toccava la fatica più grande perché praticamente dovevo fare l’ufficiale di collegamento fra i due gruppi.

«E pericoloso anche andare a sofisticare troppo nel testo».

«Tanti anni fa, a New York, in seguito a una produzione di Othello, ci sono stati dei critici che osservavano certe “assurdità” del dramma: per esempio che mancava, proprio materialmente, il tempo necessario per il supposto adulterio di Desdemona con Cassio; e quindi trovavano che la storia era priva di una logica, come se Shakespeare avesse dovuto scrivere con l’orologio e la sveglia a portata di mano. Però anch’io, una vol ta, provando il King Lear sotto la direzione di Granville–Barker, gli ho chiesto come si spiega che Lear, un minuto dopo essere uscito maledicendo la figlia Gonerilla, rientra lamentandosi perchè cinquanta dei suoi cortigiani sono stati licenziati. Chi glielo ha detto? Non c’è stato veramente il tempo… E allora Barker mi ha spiegato che prima di Ibsen nessun drammaturgo si era mai veramente curato di quello che avviene fuori scena: il tempo non contava niente; e per esempio in quella scena di King Lear, Shakespeare sapeva bene che il suo pubblico avrebbe accettato quella convenzione: come Amleto che parte per l’Inghilterra e ritorna, e Macbeth che invecchia di parecchi anni; e così nel caso di Lear quello che interessa al poeta è di far vedere il vecchio re che esce di scena dopo la grande maledizione a Gonerilla, con una statura straordinariamente maestosa, e dopo un minuto torna indietro ridotto un ometto piangente, che si lamenta come un bambino perchè non ci sono più i suoi cortigiani. Che importanza ha quindi sapere chi glielo ha detto? Se uno comincia a farsi queste domande, non si finisce più. Perché per esempio Orazio non dice ad Amleto che Ofelia è impazzita quando lui torna dall’Inghilterra? Si può andare avanti per ore… «La realtà è che Shakespeare è un narratore nato, ed è ben difficile che un suo personaggio dica o faccia delle cose incoerenti col resto del dramma dove appare. Certo, se si osservano i drammi col microscopio, saltano fuori continuamente gli anacronismi e le contraddizioni; ma è proprio quello che non si deve fare: è provato – no? – che se sono ben recitati e diretti, uno non li nota, perchè ci si lascia trasportare dalla sveltezza dell’azione, dalla viva originalità dei personaggi, e si sospende il giudizio analitico.

«Gli attori avranno anche qualche ragione quando si lamentano che è un affare serio mettere qualche “intenzione” in certe parti notoriamente difficili, come per esempio Rosencrantz e Guildenstern, così subordinati al personaggio di Amleto che non si sa bene in realtà come siano, e quindi bisogna “metterci dentro qualche cosa”. Però provate a sopprimerli, come ha fatto Olivier nel film, e vedete subito che disastro: non solo ne soffrono la linea e l’economia del dramma, ma addirittura il protagonista stesso. E la medesima cosa càpita con Solanio e Salarino nel Merchant of Venice: sono messi nella commedia proprio per dare una idea della grandiosità e del panache della ricca società veneziana del tempo, e tutto quello che dicono serve precisamente a questo scopo, di aggiungere una nota di colore, come del resto lo squisito discorso di Lorenzo nell’ultimo atto.

«Insomma, se gli attori usano l’immaginazione, e recitano le loro parti con un ritmo vero, con comprensione e rispetto, questo basta per far venir fuori le intenzioni del poeta. Non provino a “inventare” niente. E meglio che non stiano lì a cercare motivi troppo sottili, nè che si affatichino a lavorare troppo i loro personaggi dall’interno. La maggior parte delle volte, il loro istinto e il senso musicale servono molto meglio del loro cervello. Shakespeare scrive per una grande orchestra, non per solisti, e richiede suonatori dotati di un alto grado di efficienza tecnica e di controllo, perchè usino i loro strumenti tutti insieme al servizio dell’intero dramma».

Vedendo poi qualche prova, si capiva subito che applicando queste idee con limpido rigore si preparava un risultato straordinario: e ammetto che sono arrivato alla «prima» eccitato come un bambino, anche se praticamente lo spettacolo l’avevo già visto tutto più di una volta.

Il pubblico chic arriva risalendo il fiume sulle solite barche illuminate; si sentono squilli di trombe dall’alto della collinetta, ma non si tratta di araldi in costume. Sono semplicemente suonatori in borghese, seduti su sedie di ferro con i loro leggii davanti, in numero di tre.

Sir John ha lavorato specialmente con gente della produzione di Stratford; oltre allo scenografo, che gli ha fatto delle cose importanti, quasi tutte bellissime, aveva come collaboratori il vecchio musicista Leslie Bridgewater, che è molto bravo e altrettanto vissuto (sere e sere offrendo da bere, nei pubs presso il vecchio mercato di Covent Garden, frutta, verdura, e My Fair Lady), e la coreografa Pauline Grant, per arrangiare quei pochi passi di danza.

Per prima cosa, ha fatto buttar giù il palco greco–elisabettiano, e ha fatto costruire una scena regolare («convenzionale», diceva qualcuno con smorfia), col suo sipario: due tende ricamate a monogrammi e a leoni. E appena si apre, al suono di un finto Vivaldi magro e allegro, in una luce verdina, la scenografia in un primo tempo sembra misera: un giardino con statue, alberi, grottesche semoventi che si aprono a libro, un paio di panchettini. Tutta cartapesta. Pare una di quelle baracconate che servivano al compianto Ruggero Ruggeri per fare i suoi Enrichi Quarti e Luigi Undicesimi. Ma bastano pochi minuti, che i personaggi entrino, e comincino a parlare e a muoversi, per apprezzare l’eleganza di una scena non troppo appariscente e vistosa; e anche i costumi sono pensati con la stessa funzione: ricchi, piuttosto vividi, ma di due o tre colori semplici ciascuno (apparentemente stupidi, e in realtà assai efficaci), senza troppe decorazioni o nappette, perchè stiano ai loro posto in un grande quadro che si compone in ogni momento equilibratamente di parecchi costumi, di parecchi colori. Ci deve essere quasi sempre molta gente in scena: ma si ammira continuamente l’incantevole armonia delle loro posizioni, quasi simmetrica.

L’autore, certamente, ha costruito un inizio abilissimo: i pochi minuti dell’arrivo di Don Pedro, Principe d’Aragona, nella casa del Governatore di Messina, Leonato, bastano a presentare con perfetta chiarezza almeno dieci grossi personaggi, e parecchie situazioni narrativamente e psicologicamente complesse: i gentiluomini del seguito, le gentildonne di casa, le complesse trame amorose che si intrecciano subito, i torvi intrighi di Don John, fratello bastardo e invidioso del Principe, e dei mascalzoni che gli tengono mano. Bisogna però poi subito ammirare il gusto sottile e sicuro di Gielgud regista nell’impostare e articolare i rapporti fra questi diversi personaggi, stabilire i temperamenti, costruendoli uno per uno a tutto tondo, definendone la personalità, gli organi vocali, le intonazioni, le tìnte. Girano attorno come in una giostra i gialli dorati, i celesti ghiacciati, i rossi, i turchesi, i cenerini, i lilla, i senape, i verdi marci, i viola cupi e spenti, ma con quale precisione vengono equilibrati in ogni momento, e che gioia sentire i diversi accenti comporsi nella esecuzione della piena orchestra.

Si sa che la commedia va avanti giuocando su parecchi piani insieme: tutte storie di amori contrastati dall’intrigo. Apparentemente la storia numero uno sarebbe la trama abbastanza convenzionale dell’idillio di Claudio, gentiluomo di Don Pedro, con la bella ragazzina Hero, figlia di Leonato: si arriverebbe addirittura al matrimonio nel primo atto, se non fosse per la cattiveria di Don John, il fratello bastardo, che per nera invidia riesce a far credere a tutti che la sposina sia in realtà una ragazza allegra e di buona compagnia che tutte le notti si riempie la stanza di omacci: matrimonio funestato, scena delle rivelazioni, morte apparente di lei. Ma l’autore ha una predilezione sfacciata per due personaggi di contorno, Benedick e Beatrice, due chiacchieroni che finiscono per diventare i veri protagonisti, e rubano tutto l’interesse alla prima storia.

Gielgud e la Leighton fanno due creazioni superbe di queste due parti che hanno sempre attratto gli attori più grandi.

Lui, trasformato incredibilmente, e fin troppo somigliante a Danny Kaye, si muove con agilità elegantissima e pronuncia le linee del testo con sonorità incomparabili, giuocando su tutte le sfaccettature; e lei, che da principio sfoggia un Oxford accent quasi caricaturale, come se volesse fare del Noël Coward per scherzo (oppure quell’ottimo Rattigan di Variation on a Theme, in cui la ricordo eccellente a Londra), danza, salta tutto intorno, e gorgheggia piena di brio, con tanti begli abiti bianchi, gialli, dorati, salmone, arancione, tutti con la vita altissima e con ali dentellate di pizzo d’oro, con elaborati ornamenti anche d’oro sui capelli, come se fosse una brutta ragazza desiderosa di farsi notare.

La meraviglia è che lei è bella, spiritosa, chic, e fa appunto la parte di una donna bella, spiritosa, chic: questa nipote di Leonato che non si sposa mai e passa il tempo a dire delle boutades (quando il Principe chiede la sua mano, gli fa «volentieri, ma poi avrò pure bisogno di un altro marito per i giorni feriali: voi siete troppo impegnativo da indossare tutti i giorni»).

Diventa una pura gioia, di sapore mozartiano, la scena delle siepi recitata da loro: prima Benedick e poi Beatrice, nascosti dietro i cespugli, si illudono di origliare senza essere visti; ma gli altri se ne sono benissimo accorti, stanno allo stesso scherzo, e inventano per ciascuno dei due la storia di un amore improvviso e sfrenato da parte dell’altro, che alla fine sorgerà davvero.

Le controscene di Gielgud e della Leighton, ciascuno appiattato dietro il suo alloro, le smorfie, le apprensioni, i sorrisi, paiono davvero un pezzo di Cosìfan tutte. E intanto si infittiscono gli intrighi, buffi o tragici, semplici scherzi «da ridere» o macchinazioni infami dettate dalla perfidia per rovinare le persone, farle morire. Entrano nel concerto dei personaggi, associandosi alla dizione preziosa e raffinata del cast inglese, McLiammoir, che parla apparentemente come un nero, o un meridionale astuto, e disegna un Principe che si diverte più di tutti gli altri, pieno di ammicchi, di sbirciatine, cenni di complicità; Hurd Hatfield, un Don John macabro, sinistro, con un inverosimile robone nero e oro; Malcolm Keen, padre nobile tradizionale carico di dignità; la coppia degli amanti giovani, freschi, graziosi, simpatici; tutta la compagnia dei gentiluomini, dei frati, delle dame di compagnia, dei bravacci, tanti paggi in calze rosa e mantelletto giallo che risolvono semplicemente i cambiamenti di scena aprendo qualche quinta mobile e portando avanti e indietro sedili e torciere. Si ha l’impressione di un’aria di civiltà, allegria, tolleranza, saggezza, raffinatezza, comprensione, spirito, divertimento; un teatro antichissimo e modernissimo, fuori del tempo e al corrente con la cultura.

La galleria iniziale si apre semplicemente su una chiesa fra gli alberi, abbastanza romanica, che si spalanca a sua volta. L’inter no della chiesa potrebbe andar bene per un Romeo e Giulietta-, e funziona qui per una straordinaria serie di scene: le entrate di tutti, con inchini, segni di croce, strofinio di vesti, suoni d’organo; il matrimonio interrotto, le accuse, i moti d’orrore, i gruppi che si formano, le emozioni manifestate, con un senso di pesante cattolicesimo rinascimentale dove si fiutano tanti tradizionali ingredienti – la lussuria, la dissimulazione, il sospetto, la vergine ingiustamente oltraggiata, il perfido intrigo, e poi il consiglio di famiglia per mettere in chiaro il mistero con l’ausilio del frate.

Nel secondo atto, che è un colonnato a due piani con prospettive sfuggenti, come nei quadri del Quattrocento, Sir John ha una grande entrata, senza barba e con un enorme cappello di pizzi (sembra diventato Malvolio, da quando è convinto che lei lo ami); e una grande scena del raffreddore, divertentissima in mezzo al cinguettio delle damigelle intorno, disposte su due piani con copricapi fiamminghi di lino inamidato. (Che gran risorsa drammaturgica, le cavernosità bronchiali e tracheali: lo si imparò catarralmente da Robert Hirsch, atroce Bouzin in Unfil à la patte, e da François Périer in un Tartuffe diretto da jean Anouilh come un incubo notturno e borghese di berrette e candelotti e vestaglie e orinali).

Ma più sorprendenti ancora per la comicità bizzarra e felice sono parse a tutti le scene decisamente buffe: le pagliacciate, le pance finte, i frati ubriachi e le guardie vigliacche, avevano un sapore arcaico di grande ilarità, come un Boccaccio non ritoccato; e soprattutto c’era un grande attore comico con una voce e un portamento pazzeschi, George Rose, subito definito da tutti il più grande Dogberry del nostro secolo.

Nel terzo atto, per il processo ai mascalzoni, George Rose torna con immenso successo e un aplomb che starebbe bene a Falstaff, in mezzo a gruppi di infelici crollanti, picareschi, pieni di sonno e di cispe. Tra le scene delle rivelazioni, ogni tanto ricompare Benedick: innamorato, impazzito, frenetico, oramai talmente avanti nella strada della frivolezza che nessuno lo tiene più: con un cappello assurdo a forma di canne d’organo, Gielgud recita come se avesse diciotto anni, ma con la saggezza dei secoli; riescono a trattenerlo a stento anche durante il servizio funebre, che è nello stesso tempo lugubre e coloratissimo.

Ed è stato impressionante, in quel medesimo momento, sentir fuori sulla strada una disperata frenata, una macchina che si capovolge, e rotola per un pezzo, gli urli dei feriti, la gente che correva, l’arrivo dei soccorsi.

Sulla scena, per un ultimo trucco dei vecchi, lutti, statue ve late, mantelli neri; ma poi la finta morta riappare, pretendendo dapprima di essere un’altra donna, ed è un bel tocco di invenzione fantastica che l’innamorato la cerchi in mezzo alle altre donne, tutte mascherate, seguendone con ansia la voce. Il matrimonio dei due che avevano giurato di non sposarsi mai, Benedick e Beatrice, segue subito dopo, come un capolavoro di ironia.

La commedia finisce con una breve danza di Corte, proprio due passi, diretti dalla coreografa di Stratford. Ma si riflette quasi subito che in fondo è stato tutto un balletto di parole: i versi venivano pronunciati sempre con una certa solennità, in maniera nobile e nitida; però muovendosi tutti con grande disinvoltura; e l’impressione della «commedia brillante» era perfetta.

Nel finale, Gielgud, già uscito dalla parte, balla e saltella come un folletto di dieci anni a un ballo mascherato.

Subito dopo si scende a cena sul pontile, con un apparato curiosamente veneziano. Fiaccole piantate sull’imbarcadero, sull’orlo dell’acqua, e parecchie tavole preparate con belle argenterie: caffè, liquori, sandwiches, candele, gorgheggi. Tutti molto felici, ma la divina Meg questa volta mi delude un po’: viene fuori con un abitino bianco a pois rossi, si ferma poco, stanchissima, e va a dormire.

Lui sta molto meglio; mangia, gira a parlare con tutti, viene vicino a chiedere «e allora, come è andata?». Non si fa fatica a rispondergli che è lo Shakespeare più bello che si sia mai visto, perchè è la verità; ma se si prova ad aggiungere qualche complimento, e gli si dice «e poi, come pronunciavano bene i versi», il grande attore fa presto a rispondere: «il difficile è tutto lì».

America Amore
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