NEL PAESE DEI BALOCCHI
Bastano poche settimane di New York e si fa in fretta a rendersi conto che parecchia gente incontrata socially sull’isola di Manhattan finisce con l’appartenere quasi sempre a due tipi umani costanti e fondamentali: la ragazza di mezza età con la gonna ampia e il giovanotto ingrigito con la giacca stretta. Tutt’e due ugualmente magri e neurotici, coi medesimi segni di efficienza ansiosa sotto gli occhi e sulle mèches – perchè diventa inevitabile non riuscir mai a dormire abbastanza, quando gli idoli della tribù si travestono da social must – e normalmente abbigliati dalla mattina alla sera per l’eterno cocktail–party che dura tutto l’anno.
Poco pare veramente più sinistro al mondo, oggi come oggi, di queste loro funzioni rituali dove ogni officiante manovra il suo bicchiere e la sua oliva, la sua candela accesa e la sua patatina fritta come strumenti di tormento consacrati dalla tradizione, se non forse quei bar assolutamente macabri per giovanotti disturbati fra Second e Third Avenue, all’altezza delle Quarantesime e Cinquantesime Strade, oppure sul West Side, tra il Central Park e Amsterdam Avenue: centinaia, tutti con le loro luci basse e il loro pianista discreto, e dentro ciascuno centinaia di clienti con la stessa faccia lunga e il capello troppo pettinato, la giacchetta antracite spacchettata uguale per tutti, e occhi da solitudine metropolitana talmente esausta da non aver più neanche la forza di comunicare con la parola… Un mondo certamente di gatti in cucina col loro piattino di latte, il quadro astratto sul divano–letto, il paperback «universitario» letto a metà, e una fraseologia di non più di trecento parole per esprimere qualunque emozione… (Del resto, negli ultimi tempi quei locali sono stati fatti chiudere tutti, uno dopo l’altro, dopo che la polizia è arrivata ad ammettere che dietro i diversi prestanome esisteva un unico racket, l’ultima trasformazione delle gangs d’origine italiana che hanno sfruttato di volta in volta il contrabbando dell’alcol o la prostituzione delle minorenni).
Il momento dell’evasione o della sfrenatezza, la valvola che protegge (finchè può) dallo psicanalista, non si ritrova certo al Greenwich Village il sabato sera, nè intorno a Times Square dopo una cert’ora della notte, sotto i lumi dello showplace of the nation.
E quindi per trovarsi in mezzo a qualche rito di autoliberazione che per forza, data la natura gregaria del popolo americano, non potrà non essere collettivo, bisogna andare a cercare una diversa località, una stagione adatta. Di saturnali strettamente americani ne avevo già visti, pochi, passando un Independence Day a Newport, dove il pesante sonno collettivo sulla spiaggia delle immense ville 1890, dopo le eccitazioni del Jazz Festival, è uno degli spettacoli impressionanti del secolo; e poi a Provincetown, sull’estrema punta del Cape Cod, dove nei «lunghi weekends» estivi molte migliaia di coppie di muratori del Connecticut o garagisti del Massachusetts, ferrovieri del New Hampshire e guardie forestali del Maine, si incontrano su uno sfondo di color locale esageratamente pittoresco, e fra il gorgheggio di cento juke–box fuori del tempo si fanno sotto l’ombrellone tante minuscole cortesie da pensione di famiglia.
Ma a un certo punto, stando a New York nella stagione dei bagni, la leggenda «cosmopolitana» di Fire Island e delle sue follie dagli anni della Depressione in poi, più o meno occulte e mitizzate, induce ad andare a vedere sulle sabbie del posto (come ha fatto una volta perfino Lévi–Strauss) che cosa sono poi le dissipazioni contemporanee dei ricchi newyorchesi impazienti, dei loro ospiti continentali, degli intrufoloni provinciali, delle mezze calzette che risparmiano sul mangiare per potersi concedere un disco o un drink.
Perciò, con un borsino e basta, si parte.
L’isola è in realtà una lingua di sabbia molto lunga e stretta al largo di Long Island, un Lido di Venezia di cinquanta chilometri per cento metri, semideserto e di grande bellezza. Non molto facile da raggiungere: praticamente solo in motoscafo, da una certa fermata della ferrovia di Long Island (1 ‘away from it all domenicale bisogna meritarselo…). E naturalmente varrà la pena di fare lo stesso viaggio del pubblico festivo schiumante d’impazienza, perchè durante la settimana il luogo potrebbe essere abbastanza depresso (come il resto della nazione). Tanto meglio poi se è la vigilia d’una di quelle festività che durano tre giorni; così ho fatto apposta ad andarci la vigilia del Labor Day, che cade nella prima settimana di settembre e per tutto l’anno tiene in caldo le più esagerate aspettative del ricco e del povero.
Gli episodi di festosità e di impazienza cominciano di solito verso le cinque del venerdì pomeriggio sulle piattaforme della Pennsylvania Station; il treno commuter di Long Island parte tra scene frenetiche sui marciapiedi, carico di balocchi e profumi, fiancheggiato da centinaia di macchine per la strada parallela (e che naturalmente è la stessa percorsa in direzione contraria da Daisy e Tom e tutti gli altri nel settimo capitolo domenicale del Great Gatsby). Sono più di due ore di cinguettii soffocati, nel treno carico di giovani papà di famiglia con l’occhio opaco seduti immobili, e di giovanottìni magri e puntuti che guizzano a centinaia da un vagone all’altro, tipo anguille e ambrottole, coi loro borsini e qualche raro ragazzo–a–muscoli che non parla. Per la maggior parte sono arrivati alla stazione correndo, direttamente dagli uffici, con le loro flanelle antracite e il colletto a bottoncini; perciò l’isterismo si fa presto acuto, uno dopo l’altro i borsini si spalancano, e ne sgorgano la sua maglietta, il suo golfino, il suo cache–col, il suo sandalo.
Dopo circa un’ora il treno è tutto un gran cicaleccio gregario, e ronza come un alveare irritato quando si ferma poi a Sayville. Qui (due binari in mezzo alla campagna, una baracca, e basta), tutta una performance di cadute e di strilli, una corsa collettiva ai tassì per l’imbarcadero, lontano parecchi chilometri, richiami, spintoni, salti mai visti, tutto un tacco rotto e una cappelliera persa per strada. Nei tassì, carichi di sette o otto persone casuali per volta, partono le ultime flanelle e gli ultimi ritegni: i primi che arrivano al molo prendono il ferry (che si chiama, naturalmente, Beachcomber), e pagano poco per una traversata di tre quarti d’ora. Gli altri lo perdono, oppure non ci stan sopra; e devono aspettare due ore per il prossimo, fra le canne del canale, oppure noleggiare un water–taxi che impiega un quarto d’ora, però costa carissimo.
All’arrivo uno può anche credere d’avere le allucinazioni, vedendosi capitato in un paese tutto sul muscolo e sul vigore; ma poi si sentono le voci, e si va avanti. Sono almeno quattrocento villette di legno, collegate da passaggi di legno su palafitte, alti da mezzo metro a un metro sopra la sabbia e i cespugli pungenti, con un vasto complesso di ristoranti e bungalows intorno a una piscina, il Cherry Grove, un piccolo ufficio postale, un posto di polizia dove non c’è mai nessuno, e due negozi: uno di cose indispensabili (pane da sandwich, minestra in scatola, sapone da barba, creme lubrificanti, whisky, limoni, barattoli di piselli, wafers, candele, kreks), l’altro di frivolezze voluttuarie (coralli, sonagli; ventagli, teste di imperatori romani, diademi di strass, cartelli di «sex… anyone?», piume di struzzo, ponchos di mohair, reti da pesca, portapenne, fermacarte, mandolini). E le coppie di vecchini neri per l’eccessiva abbronzatura, in slip e cappellino, calano lì a far le loro spese trainandosi dietro un carrettino a mano con le ruote gommate, e sempre chiacchierando fitto tra loro ripartono col loro carrettino carico: un blocco di ghiaccio, un fascio di gladioli, parecchie scatole a colori, dodici bottiglini di tonic–water, e un cane bianco e nero su tutto.
Lungo i cammini di legno, fra un canneto e l’altro, si può fare il giro dei cottages: tutti bassi, qualcuno (si capisce) un po’ barocco–rococò, alla Berman–Bérard, con finti busti di gesso, altri giapponesi molto severi e minimal, altri olandesi che sono il trionfo del cosy, altri ancora bassissimi e neri, con finestre lunghe e piatte un po’ Gropius, e parecchi (naturalmente) romano–pompeiani, col loro peristilio; e tutte le casine, i sentieri, i cancellini, i carrettini e le seggiole hanno i loro nomini, ciascuno col suo giochetto di parole dentro, o l’allusione buffa in qualche modo: Serafina della Rosa & Girls, Coq d’Or, Casa Sì–Sì, Harlotquin, Get Hur, Other Rooms, e sotto, sempre, i due nomi dei proprietari, tipo Tom & Jerry, Don & Pat, Mike & Jack, Russ & Brian. Le casine sono state costruite a partire dagli anni della Depressione, quantunque costasse certo enormemente portare materiali e manodopera e tutto attraverso il braccio di mare, da qualche ricco fantasioso che voleva tenere i suoi private shows in pace, lontano dalla triste New York di quegli anni; e costano adesso dai cento ai trecento dollari d’affitto alla settimana (tutto l’immobiliare è in mano a poche persone); ma c’è sempre parecchia gente che si mette insieme per prenderne una in tanti, e se non ci passano che il weekend la subaffittano ad altri dal lunedì al giovedì.
Gli abitanti al crepuscolo siedono quietamente davanti casa, sempre in costumino, sui loro terrazzini e nel piccolo patio coperto dalla zanzariera. Bevono, rompono il ghiaccio, scambiano patatine fritte con le fatine del patio accanto, s’alzano a tur no per andare a rimestare nei loro pentolini sul fornello, cuociono il loro pranzettino a lume di acetilene (non essendoci ancora elettricità sull’isola), preparano sulla tavola i lumini, i tovagliolini, le mandorle, e tutto intorno bandiere di chiffon, stendardi di velo, farfalle di filigrana, galline di vimini, anatre di stagnola, pavoni di rafia, fenicotteri di plastica, ombrelloni a frange e ombrellini di carta cinese, e ogni tanto qualche cane o bambino che non si capisce di chi sia. Parecchi dipanano matasse azzurrine, sentendo la radio; in età più anziana lavorano all’uncinetto; ogni tanto se ne vedono una quantità, accumulati su un piccolo patio di due metri per tre, che non riescono nè a muoversi nè a parlare: è segno che lì c’è un party, e lo si capisce da qualche bicchiere cascato sotto, dallo strilletto appena riescono a uscire.
Quando vien buio brillano gli zampironi e i carburi; e loro si mettono tanti cappellini buffi. Si può veder dentro in tutte le casine, tranne che in un interno tirolese nero; e naturalmente ho guardato in tutte, trovando tutta una serie di rappresentazioni: commedie brillanti, di carattere, di costume, d’intreccio, di rottura, drammi passionali, sketches musicali, Dafni e Cloe, Piramo e Tisbe, Filemone e Bauci, Arminio e Dorotea, e un’infinità di quadretti di genere tipo «idillio sopra le pentole»: un bacino, una cucchiaiata, un assaggio alla salsa, un altro bacino, e via.
Al Cherry Grove e negli altri due ristorantini minori, Pat’s e The Sea Shack (tutta una cosa di pareti di tronchi, pavimenti oliati, poca luce, moccoli nelle bottiglie, e dischi di Ethel Merman), ci si perde piuttosto a imburrare le pannocchie di granturco, per cena, e come avance ci si può magari sentir dire: «Ad Atlantic City queste pannocchie le vendono negli stands apposta» - e basta – da una testolina rapata persa dentro un giacchettone da West Point. Così si va avanti per ore, fino a tardi.
Ma in seguito, molti occhietti ritorneranno a brillare, durante il successo di Strangers in the Night’. «E la nostra canzone!».
I due poliziotti intanto stanno per tutto il tempo con le lampadine in mano sul piccolo molo a questionare con i motoscafi che attraccano, ma prima della fine della sera tre o quattromila persone saranno così sbarcate sull’isola, contandone sei o sette per casa, un migliaio o due di randagi, e qualche decina alloggiate al Cherry Grove, dove le stanze son pochissime, e anche a voler mettere due o tre persone in ogni letto, o a farle dormire col barista polacco o coi camerieri, come normalmente si fa, non è che si ottenga molto. Il Cherry Grove fun ziona da community center, piuttosto: dopo la cena, che è sempre un affare regale protratto fin dopo la mezzanotte nelle casine o nei locali, gli abitanti arrivano lì tutti, isolati o in corteo, chi solenne dopo tre ore di maquillage e chi ansimante per inseguimenti o altre storie sue. Al Cherry Grove, dove le porte dei gabinetti sono marcate «Ups» e «Downs» oppure «Kings» e «Queens», la serata si protrae con qualche grandiosità e qualche numero d’arte varia. Basta mettersi in bocca una sigaretta per provocare un incendio d’accensioni simultanee di lighters da ogni parte, sufficiente a far fuori una foresta; e per una ragione o per l’altra neanche i brutti pagano più della metà dei loro drinks, a patto (si capisce) che non siano del tutto avvizziti.
Ma in realtà non succede mai niente, oltre al solito chiacchiericcio senza nesso e senza senso di tutti questi posti americani. Tutt’al più chi è nuovo del luogo si volterà per assistere, ad ora tardissima, alle Apparizioni, che sono entrées un po’ turchesche, col loro sandalo arricciolato, la loro movenza felina, il bavero della casacchina tirato su, l’occhio un po’ umido, e magari anche crudele, con la sua pupilla dilatata, la bocca atteggiata nella smorfia del «no, no», un sopracciglio sempre un po’ più su dell’altro, e il capello che prima è stato decolorato, bagnato, ritinto di scuro, e poi decorato con piccole mèches capricciose d’argento, da scuotere a colpettini.
Ma per aria c’è tutta una specie di attesa diffusa per «dopo», come se si fosse tutti d’accordo nel protrarre ancora un po’ il Momento Meraviglioso (questa dev’essere la prima legge del luogo, col suo corollario «prima bere, poi fare»; la seconda, che entra in vigore più tardi, suona appunto come «mai dire di no a nessuno»). Verso le due in tutti i bar le luci lampeggiano per dare il segnale della chiusura; e lampeggiano anche gli occhietti nel buio. E venuto il momento. Tutti si spostano adesso verso un altro must, il Meat Rack (rack, proprio come rastrelliera o scaffale; e meat, naturalmente, è la carne che si compra dal macellaio), e con The Dunes è una delle fondamentali istituzioni del luogo. Ma non bisogna andarci prima delle due (ho provato, e non c’era nessuno, infatti). Si arriva in fondo al cammino di legno, e lì con una assicella–passerella si scende sulla sabbia: il Rack è lì subito, e saranno cinque o sei acri di cespugli e alberelli dove alligna la pantegana, e razzolando distrugge la vegetazione. In mezzo a una folla da piazza San Marco a Ferragosto, che ciecamente si incrocia nel buio come uno sciame di meduse o di polipi, il razzolare va avanti giocando al «cotto e mangiato» fino allo spuntar del sole, quando è tutto un guardarsi in faccia, e se la va la va, può capitare magari un invito al breakfast; e dopo, a dormire fino al pomeriggio, quando arriva la nuova ondata del sabato e si sparpaglia fra le dune, dove subito scompare e nidifica, tra un bagno e l’altro sulla spiaggia meravigliosa.
Chi invece si trattiene al Cherry Grove assiste per tutta la notte a tuffi in piscina, frittura di hot dogs, finti riti voodoo a titolo di spettacolino di varietà, e una volta all’anno una commedia di Broadway con Ronald Colman e Celeste Holm in persona.
La gente è tanta che non si sa più dove metterla; perciò costruiscono dei palchettoni, e così ne sistemano due o trecento per volta, coi loro bicchieri, su in alto. Nascono e muoiono così in pubblico gli idilli più strazianti, fra gli inginocchiamenti dei respinti e il pianto dei pentiti; ombre deliranti si vedono benissimo dietro le porte dei bungalows, a stecche trasparenti come quelle delle cabine; e un bambino che ha fatto delle cose inverosimili s’allontana tenuto per mano da un vecchino, che lo ha portato lì per giocare.
Fra le meduse e i polipi, e i loro tableaux vivants, i loro giochi d’acque e belle statuine e quadri per una esposizione, sono andato in giro per un pezzo, nel buio fitto, dentro nella sabbia e i cespugli fino alle orecchie, finchè mi càpita di vedere un corpo disteso a terra, che poteva essere anche un ubriaco addormentato, o qualcuno sopraffatto dal godimento venereo e della pelle; e invece era morto, mortissimo, col suo pugnale fra le costole, e poi più visibile perchè vestito di bianco.
I giochi da qualche tempo si stavano facendo più fitti nei suoi paraggi, come se la vicinanza di questa cosa facesse un po’ d’effetto nuovo; ma non mi sono fermato più molto, dal momento che il barista polacco m’aveva detto che in seguito a un certo articolo esplosivo di «Confidential» sulle Gomorre americane erano arrivate due barcate di poliziotti in borghese, una cinquantina, in sandali e calzoni corti, e avevano avvertito confidenzialmente il personale del locale che verso mattina ci sarebbe stato un raid a sorpresa nel Rack.
Così ho finito col passare un pezzo di notte nel sottoscala del bureau – puro Pal Joey – diviso solo da un leggero graticcio dal suono dell’orchestra, dallo sfrigolio degli hamburger, dai rumori del rito voodoo, dalle capsule delle birre cadute per terra, dai tuffi in piscina, dal rantolo greve di alcune creature più vecchie e più grasse che erano state sistemate per terra nel coffee–shop dell’albergo, a cinque dollari l’una, con un giornale e una coperta, e inspiegabilmente erano andate a coricar si già alle undici, dalle donne–camioniste che già alle sei della mattina han cominciato a questionare con espressioni terribili per una partita di pallacanestro persa sulla spiaggia nel pomeriggio.
E all’alba quando mi buttano fuori il patio è già pieno di derelitte figure con le loro cestine di paglia, tristissime, che aspettano il primo battello col bavero alzato e gli occhiali neri su, e paiono morte, tranne due che si muovono appena: una creaturina voodoo carica di tamburelli, e un’altra in blue jeans e unghie arancione si trascina dietro una custodia da violoncello che non sta chiusa, piena di mutande sporche.