LOUISE BROOKS
Dalla Jazz Age degli Scott Fitzgerald al gelido espressionismo animale e vegetale di Frank Wedekind: bel colpo, e assai raro, mantenendo intatta l’innocenza fresca e distruttrice di Lulu, Spirito della Terra e Vaso di Pandora. Ma quasi nessuno ha mai visto il celebre film di Pabst negli Stati Uniti; e la sua protagonista leggendaria, Louise Brooks, oggetto di culto in Europa con la sua frangetta a caschetto di lacca, visse ignorata per decenni fra gli americani, finchè non fu «ritrovata», settantenne, da Kenneth Tynan, trasferito da Londra nel clima californiano più secco per sfuggire all’enfisema che però lo uccise poco dopo.
Tynan la intervistò lungamente a Rochester, dove Lulu vecchina abitava presso la casa–madre della Kodak, guardando vecchi film e preparando occasionali articoli per rivistine di spettacolo; e dal suo «profilo» subito celebre (uscì sul «New Yorker», poi nel volume Show People) nasce questa Lulu in Hollywood della Brooks stessa.
Sono sette saggi di memoria, splendidi e brevi, sul feroce tramonto del cinema muto, quando le dive avevano vent’anni e i loro registi (Hawks, Wellman) non più di trenta, e l’industria subiva traumi sinistri per l’avvento del parlato e del potere delle banche sopra i produttori «tycoons», folli e spensierati. Ma l’obiettività addirittura minerale dello sguardo e del giudizio va oltre l’«io sono una macchina fotografica» di Christopher Isherwood: sembra addirittura che l’autrice sia la Lulu dode cafonica di Alban Berg, magari al castello di Randolph Hearst e Marion Davies.
La ragazza veniva dal Kansas, da una famiglia indipendente e libresca; ma nasce a New York come ballerina diciassettenne, allieva di Ruth St Denis e Ted Shawn, compagna di Martha Graham – il meglio – poi dentro e fuori le Ziegfeld Follies e altre Follies, sempre ben remunerata con pellicce e gioielli da brillanti giovanotti di Wall Street che stanno inventando la café society. Gira parecchi filmetti, quando ancora si faceva cinema a Long Island; ma presto si trova a Hollywood, indipendente eindifferente, impopolare, isolata, finalmente scacciata. Perché?
Le sue spiegazioni, qua e là, paiono categoriche ed evasive.
«Nessuna carriera al mondo somigliava maggiormente alla schiavitù. Un attore poteva solo scegliere se firmare o no un contratto. Se non firmava, non diventava una star. Se firmava, diventava un servo di chi lo pagava. Non poteva scegliere quando e come e con chi lavorare. Doveva passare le giornate sotto il controllo non solo del regista, ma di sceneggiatori, operatori, guardarobiere, uffici stampa. E siccome la pubblicità è la linfa vitale del divismo, questa doveva invadere tutta la vita privata per animare la curiosità e l’invidia che attrae tanta gente nei cinema».
Puntigli, orgogli, nostalgia per Manhattan, antipatia per il «sistema», piccoli colpi di testa, leggerezze fatali. Dormiva con parecchi simpatici, ma con nessun potente. Rifiutò lei sola una diminuzione di paga durante la transizione al parlato. Rifiutò di doppiarsi in un film girato muto, perchè stava divertendosi altrove.
Il sistema la definì caratteraccio, vociaccia. Paramount la licenziò nel ‘28. La chiama subito Pabst. Lei non l’aveva mai sentito nominare, lui l’aveva vista in A Girl in Every Port, e soprattutto non voleva Marlene: «troppo vecchia e troppo ovvia, bastava una sua occhiatina sexy, e Lulu diventava un burlesque».
Così, «a Hollywood ero una sciocchina carina, con un fascino che calava negli studios ad ogni aumento di lettere di fans. A Berlino, scesi dal treno per incontrare Pabst e diventare un’attrice».
Con Pabst girò ancora Diario di una donna perduta, in Germania. La sua carriera finì a venticinque anni.
Ma raramente si incontra una lucidità così «oggettuale», e tecnica. «Pabst non teneva mai discussioni di gruppo, diceva separatamente ad ogni attore cosa doveva sapere sulla scena. Per lui, tirarsi dietro la tecnica della recitazione teatrale, che congela in anticipo ogni parola, ogni movimento, ogni emozione, era mortale nel realismo cinematografico. E il dialogo veniva definito alle prove. Con un attore intelligente, si diffondeva in spiegazioni esaurienti. Coi vecchi gigioni, usava la lingua del palcoscenico. Ma con me, come per magia, mi saturava con una sola emozione chiara, poi mi lasciava libera. In effetti, incoraggiava la tendenza degli attori all’odio reciproco, così conservavano le loro energie per il si gira».
Vignette assai «cool». L’elaborata distruzione di Lillian Gish, troppo originale e troppo popolare, da parte della mgm, che esige dipendenti, non artisti. La solitudine di W.C. Fields, geniale e incompreso, che recita con tutto il corpo come in teatro, mentre ogni primo piano gli sottrae effetti comici. Humphrey Bogart, che dopo anni di insuccessi con le buone maniere, decide di «consacrare tutto il suo tempo fuori dal set ai giornalisti che gli inventano il personaggio di Bogey». E siccome Clark Gable aveva successo con le orecchie a sventola, «Bogey praticò ogni sorta di ginnastica labiale con sbuffi, smorfie, storcimenti e nasalità, finchè il suo sobbalzo doloroso, la sua occhiata di sbieco e il suo ghigno demoniaco non divennero i più perfezionati dello schermo. Solo Erich von Stroheim lo superava nel tic del labbro»…