BROADWAY RIVISITATA
Qui tutto chiuso, naturalmente, d’estate. Tranne i teatri. Come per ripetere che a Broadway tutto è perduto tranne l’onore e l’amore. O anche per avallare lo slogan turistico ripetuto dai festoni e dalle bandierine: «New York è un Summer Festival».
Forse perchè le trasformazioni della drammaturgia e dello show business si risolvono in efficaci corroboranti per Broadway e off–Broadway e off–off–Broadway… Oppure, anche, perchè il professionismo dei teatranti opera a livelli di efficienza elevatissimi.
Anche Roma, dopo tutto, potrebbe (toutes proportions gardées) risultare un gran bel festivalino estivo, se vi recitassero contemporaneamente, come a New York in questi mesi, non già dei vanesi scellerati ma professionisti serissimi tipo Ginger Rogers e Lauren Bacall e Henry Fonda e Julie Harris e Ray Milland e Angela Lansbury e Gwen Verdon e Lee Remick e Vivian Blaine. Probabilmente il pubblico andrebbe agli spettacoli come d’inverno: purché non presuntuosi, non noiosi… E a Roma, d’estate, fa molto meno caldo che a New York.
Però, che senso ha (allora) rivisitare in un luglio casuale lo «spaccato» d’una Broadway che ripercorre da decenni un suo sfibrante Giro dell’Oca fra le caselle del Salotto e della Barricata e della Stanza da Letto e dell’Assurdo – e viceversa? ed estendendosi all’off–Broadway? Che esempi e che lezioni si possono prender su e portar via da una grandiosa industria dell’Entertainment In In che prospera normalmente accompagnata dalla lamentela «mai vista un’annata più schifosa»?… Finiti i mostri sacri, si passa da un divertimento all’altro, con parecchie grosse soddisfazioni d’una inutilità impressionante. E si viene via soprattutto consolati dai paragoni inevitabili.
(Mai, o quasi mai, come in Italia, il fasto coi debiti e l’intimidazione ideologica adoperati per mascherare il narcisismo mediocre e l’incompetenza presuntuosa. In una catastrofe di dementi.
Pochissimi, pare, ricatti sentimentali o mozioni alla concordia nazionale per salvare le mediocrità imbarazzanti o le «prestigiose» vanità irresponsabili. Assenti, felicemente, i difetti più tetri nella teatralità italiana: la presunzione nazionalistica del «siamo primatisti mondiali, e l’Éstero ci invidia»; e all’opposto, la convalida sistematicamente ricercata mediante le lodi estorte all’Estero, vantandosi delle medaglie e pergamene ottenute alle Esposizioni Internazionali come certi formaggi sottosviluppati, certe acque minerali della Belle Epoque…).
Invece, dopo tutto, a Broadway, dietro l’impeccabile superficie del professionismo scrupoloso – spettacoli brevi, svelti, messi su con poco e perfettamente funzionanti, attori che recitano e ballano e cantano con una bravura media impensabile dalle nostre parti neanche sul piano del Miracoloso – la competenza trionfa a spese dell’autocompiacenza, il Funzionale rispetto al Vanesio, e la Dignità sopra tutto. Si capisce: nei paesi dove la cultura è un mito e le ideologie una barzelletta, e messe insieme servono come alibi per le operazioni più inverosimili, e nessuno rischia mai nulla, potrà sembrare normale «migliorare» Shakespeare con fiocchini melensi e interpolazioni gaglioffe; e anche svilire al livello del rotocalco i problemi più seri, in un tripudio di sarte engagées e addobbatori firmatari di manifesti contro guerre o problemi che non li riguarderebbero, comunque, mai. Invece, in un paese dove le idee vengono ancora prese, da parecchi, sul serio, e le guerre o le bombe vengono prodotte in casa con gravi pericoli concreti per un buon numero di cittadini, si nota un pudore vivissimo nell’affrontare le questioni veramente grevi sul piano della civetteria ideologica, della passamaneria civica, della svenevolezza «impegnata».
Naturalmente anche in America gli Arthur Miller continuano a rimestare gli equivalenti ideologici–estetici dell’Assedio dell’Alcazar per le maggioranze ebeti; e i loro zelatori, lì pronti con il boomerang dell’accusa di qualunquismo per chiunque sostenga l’indipendenza del teatro (o della pittura, della musica, della poesia) nei confronti della cronaca d’attualità, del moralismo che domina il conformismo, del commento: come se ogni teatrante, oltre che definirsi Vate a Tutti i Livelli, dovesse per di più usurpare alla leggera l’«ufficio» del politico e del filosofo, del sociologo e del predicatore quaresimale; e come se il tema trattato redimesse la qualità del lavoro… (Però l’equivoco, li da loro, pare meno probabile. Anche se la pensosità ha i suoi limiti, ovunque).
Così, indubbiamente, gli spettacoli di Broadway più dignitosi e felici risultano di stagione in stagione proprio quelli confezionati da praticoni bravissimi che si guardano bene dallo svillaneggiare i Problemi. Si attengono piuttosto alla funzione istituzionale del teatro, l’Entertainment. Finiscono dunque per offrire perfetti equivalenti non già del Trattato o dell’Editoriale o della Conferenza, ma dell Elisir d’Amore o dell ‘Italiana in Algeri.
Dimostrano quindi nei confronti del teatro lo stesso riguardo che animava indubbiamente Mallarmé e Leopardi rispetto alla Poesia, quando non usavano i loro versi come veicoli su cui far viaggiare la vibrata protesta o l’indignata allusione a proposito di tale o tale Evento Contemporaneo; e sopravvivono anche perchè non adibivano la Poesia a funzioni subordinate o ancillari.
Del resto, non si insiste probabilmente abbastanza sulle somiglianze sorprendenti fra il musical, prodotto americano tipico, e il nostro melodramma delle epoche buone. A tutti i livelli… Stessa forma, stesse funzioni: enorme trattenimento popolare–musicale con alternanza di recitativi e ariosi e romanze e duetti e concertati e cori, e ouvertures e interludi e interpolazioni di balletti e immensi finali, trionfalissimi. Grossi talenti musicali impegnati nella stesura e nell’esecuzione. Però, anche carriera effimera in quanto perfino i massimi capolavori vengono consumati in un paio di stagioni da un pubblico ingordo più di novità che di riesumazioni. Tuttavia, canticchiando all’uscita le arie imparate lì per lì, e poi evidentemente rimemorandole a lungo. Insomma, un’energia talmente sgargiante da respingere spesso diverse altre arti contemporanee in angolini defilati e privi d’interesse. (E capitato alla letteratura italiana dell’Ottocento, mortificata da Rossini e Bellini e Donizetti e Verdi così come quella del Novecento è stata umiliata dal cinema… Dunque, l’atteggiamento più giusto per il turista letterario in circospetta visita a Broadway non sarà troppo dissimile da quello di Stendhal a passeggio a Milano, e goloso di Rossini e Taglioni oltre che di sonetti o risotti).
Così al Lincoln Center, accanto all’aula sinfonica e al nuovo Metropolitan, il nuovissimo New York State Theater pare la sgargiante parafrasi pop d’uno smisurato cinema di prima visione del Trenta che vuol rifare il più strepitoso teatro d’Opera dell’Ottocento. Rosso, bianco, dorato, sberluccicante, vastissimo, diretto da Richard Rodgers, riprende con affetto i classici del musical e li ripropone «criticamente» alla nazione con gli allestimenti originari e magari i primi interpreti. Allora trovar lì oggi Ethel Merman che interpreta come vent’anni fa Annie Get Your Gun darà veramente la stessa sensazione che arrivare in Italia e imbattersi in una Lucìa di Lammermoor con Toti Dal Monte? Comunque, tutti in platea svergognatamente cantano, singhiozzando, appena l’orchestra accenna nell’ouverture le canzoni più famose: Doin’ What Comes Natur’lly, The Girl That I Marry, They Say It’s Wonderful, I’m An Indian Too, Anything You Can Do, soprattutto There’s No Business Like Show Business.
Questa è l’America che abbiamo (dopo tutto) molto amato.
Giustifica tante di quelle commozioni… Come un’Aida a Verona. Travolge ogni difesa ragionevole, abbatte ogni baluardo critico. Tanto più, ogni sgangheratezza luccicante riesce in questo momento a presentarsi come irrimediabilmente, inappuntabilmente pop: e dunque recuperata e redenta. Si apre il sipario, luci e materiali colorati di un brillìo quasi insostenibile: come nelle sale americane alla Biennale, tutte colorazzi squillanti e luci senz’ombra. «Questo è un albergo dove tutti corrono dietro alle donne su per le scale… a cavallo!». Come operano ancora, le vecchie battute baraccone, e la splendida partitura di Irving Berlin, e i baritoni svelti di gamba col ciuffo cotonato, e il coro di bambinacce squittenti impeccabilmente dinoccolate nelle gonne troppo vaste di goffo calicò a fiorellini… Finalmente – sparo a una colomba su un cappellino, e subito fuori un leprotto – arriva lei: la gran donna continua a dimostrare un’energia tipo Churchill, tipo Kruscev, anche se poco sembrerebbe distinguerla ormai da Lola Braccini, da Isabella Riva. Però la voce squilla argentina e concertina come nei dischi vinili di vent’anni fa: come una tromba o un corno acutissimo, senza il minimo microfono fa vibrare le appliques «op» e la bandiera americana nella sala immensa. E, in fondo, la Voce dell’America: un po’ stanca, non troppo appannata. Anche una Voce tipo Callas. Questa Annie è una patria: così come è una Patria quella Traviata indimenticabile.
Fra i musicals, questo è veramente una Sonnambula, un Barbiere di Siviglia. Il suo pecoreccio è ancora tutto lì, stilizzato e vigoroso.
Ma c’è tanto autunno, nelle voci e nell’orchestra, nella struggente inutile bellezza americana delle voci, delle gambe, dei denti, dei movimenti, degli occhi.
Arriva il Gran Numero, il leggendario quartetto: isolato contro un sipario color blu pentola, anzi color «Visitate la Perla dell’Adriatico» del più puro Trentacinque. Però anche il colore del cielo negli arazzi di Lichtenstein. Dopo tutto, il plot di tutti questi musicals è la solita storia del brutto anatroccolo. E vengono recuperati con un gusto grafico squisitamente à la page i manifesti del circo viaggiante di Buffalo Bill in treno da costa a costa, su vetture piene d’indiani che fanno il bucato e sciantose che strillano fra le cuccette. Nello spirito dei dischi di Jeanette MacDonald e Nelson Eddy ripubblicati adesso con spropositato successo, la Merman canta ancora sul vagone–letto (l’ha già cantata per millecinquecento repliche, vent’anni fa) la sua Moonshine Lullaby, per addormentare i quattro fratellini a ritmo di slow–fox, mentre i camerieri neri fanno coretto e balletto in giacca bianca e salvietta sul braccio. (Come perfetto risvolto, alla fine dello slow–fox lei spara alle lampade con il fucile). E sono ancora strepitosissime le danze e i canti degli acrobati indiani, mentre lei buffona incantevole gira spersa e rintronata e urlando «Siouuuuux!» tra i fuochi del bivacco, poi fra gli incontri di Buffalo Bill e Toro Seduto in sede di show business… Potrebbe anche sembrare le Tribolazioni di Dina Galli alla Presa di Addis Abeba. (Tutto il pubblico pesta ritmicamente i piedi per tutta la durata della danza indiana).
Nuovo gran numero: il giro acrobatico della motocicletta sul filo, gelidamente risolto con luci intermittenti e lampade puntate sul pubblico. E lei, mai così divertente come quando esce finalmente addobbata da bellissima, in abito di specchietti neri a un ballo tutto rosa e arancione, e aggressiva come ai tempi di Gypsy e di Call Me Madam. Ma che imbarazzo, per il pubblico d’oggi che legge attraverso le righe, la confessione sentimentale del protagonista cowboy ciuffettone alle prese con il Sentimento, poi con l’Amore, e finalmente col Sesso. In My Defenses Are Down si rende conto («sto perdendo ogni resistenza…») con lenti progressi d’amare dopo tutto il sesso femminile, si turba fortemente e pochi istanti prima del finale gli balugina dopo tante vicissitudini la possibilità d’amare proprio Annie.
Però questi couplets e romanze degli anni Quaranta parafrasano con precisione assai singolare le più impressionanti statistiche sul comportamento sessuale dell’uomo americano, pubblicate abbastanza più tardi, e da allora dolorosamente presenti nel fondo dei subcoscienti. (Secondo Christopher Isherwood, e i suoi amici, tutti gli americani sarebbero in fondo cowboys omosessuali frustrati; e una qualunque notte in qualsiasi ymca ce lo confermerebbe).
L’imbarazzo più forte arriva con questa romanza della resa definitiva al matriarcato da parte del baritono cotonato, nella tradizione di Richard Burton e Robert Goulet. E un’anticipazione già allucinante della saggistica alla Leslie Fiedler sulle allegorìe letterarie della marcia verso la passività del sesso maschile negli Stati Uniti. Ma in fondo alla platea una bionda cicciona, cinquantenne, altissima, prima urla le parole della canzone, poi schiamazza per proprio conto. E prima, tutti si pensa a una trovata registica di cattivo gusto. Ma lei poi schiaffeggia le mascherine di colore. Quindi si dibatte fra gli infermieri che la portano via sollevandola per le braccia e le gambe. Non era un gag, era un’ubriacona.
Certo, può anche riuscir doloroso ripiombare nella routine della «tipica commedia di Broadway», lasciando queste regioni privilegiate di grazia perdurante: la Merman funziona stupendissima perfino nei momenti patetici: la sala oppressa da luci calamitose, e lei che esegue delle perplessità di cuore in mezzo al gran palco deserto e dolente… E adorabile perfino il nuovo «numero» composto da Berlin per questo revival di Annie: sotto forma di cinque «bis» sempre più estroversi e scatenati… Memorie di Gypsy, fondamentali e incancellabili… Doloroso, o fastidioso, poi, ripiombare sul terreno delle ficelles drammaturgiche, perchè anche in una commediolina irlandese e rinfrescante e simpaticamente accolta da tutti Philadelphia, Here I Come!, di Brian Friel – si può ri–incontrare, nelle scene tutte «costruite» su un testo tutto–mitezza, la tradizione dei Sogni d’Evasione accoppiata alla convenzione dello Sdoppiamento, nell’ambito della retorica sentimentale irlandese.
Al riparo di ombre formidabili – il giovane Joyce e il giovane Synge, Parnell, Yeats, O’Casey, John Ford e John Kennedy - nonché di tanti leggendari attori dublinesi e registi dell’Abbey e del Gate che facevano e fanno centinaia di spettacoli all’anno, un giovane trepido passa la sua ultima sera nel paese dei leprechauns benigni interpretati da Barry Fitzgerald, prima d’imbarcarsi per gli Stati Uniti. «Filadelfia, arrivo io!».
Ma Thornton Wilder colpisce ancora! Il ragazzo trepido si sdoppia in un fantasioso tipo Walter Mitty o Billy il Bugiardo (vedendosi cowboy, motociclista, direttore d’orchestra), e un folletto che fa in falsetto dei commentini da arguto vecchietto.
Con l’aiuto della Fidanzatina Sollecita e del Padre Sicurissimo, Sognatore e Spiritello riescono ad accumulare un ammasso spa ventevole di luoghi comuni teatrali: fra ironie bonarie e accenti dialettali, caratteristi in visita e tante tazze di tè, e tutte le battutine, sempre per il verso giusto, e mai in contropiede. Ci sono perfino i flashbacks con luce azzurrina e musica di Debussy.
(Come se alcune vecchie regioni europee ristrette e morenti - Irlanda, Galizia, Sicilia – continuassero a esser fonti di nequizie inarrestabili per i grandi e deboli Stati Uniti…).
Una grande allegria però: i successi più strepitosi della stagione, i musicals che verranno replicati per anni e anni e imitati da noi con ritardo, sono ispirati a due eroi affascinanti come Don Chisciotte e Superman. Molto consolante, poi, trovare che questo Man of La Mancha (opera di «professionali» magari non troppo letterati: Dale Wassermann, Mitch Leigh, Joe Darion) riesce uno spettacolo addirittura all’altezza del gran romanzo dal quale è tratto, e realizza anche un tour de force fra i più impensabili: presentare almeno quindici canzoni incantevoli in omaggio a Cervantes, e coincidere inappuntabilmente con uno splendido saggio di Maurice Blanchot: «Se vi è una follia di Don Chisciotte, a ben riflettervi, esiste una follia ancora maggiore di Cervantes. Don Chisciotte non ragiona, ma è logico; pensa che la verità dei libri valga anche per la vita; si mette quindi a vivere come un libro, avventura meravigliosa e deludente, perchè la verità dei libri è la delusione. Ma per Cervantes, le cose vanno ben diversamente, in quanto per lui non si tratta di scendere nella strada come fa Don Chisciotte per mettere in pratica la vita dei libri, ma s’affaccenda proprio in un libro, senza lasciare la biblioteca e non facendo altro, vivendo, agitandosi, morendo, che scrivere senza vivere, senza muoversi nè morire. Cosa spera di dimostrare? Si prende per il suo protagonista, che da parte sua si prende non per un uomo ma per un libro e tuttavia pretende non di leggersi ma di viversi…».
Il musical ha questa stessa trama. S’arriva all’anta in Washington Square, immensa baracca prefabbricata come un dormitorio militare a Livorno, una mensa a Vicenza, pienissima di gente in nylon e di tubi che abbassano la temperatura di venti gradi rispetto all’esterno. Scena nuda senza sipario. Quinte che scorrono a coprire e scoprire l’orchestra divisa in due gruppi simmetrici e stereo. Colore uniforme grigio–blu. Riflettori tutti fuori molto più voluti e invadenti che per un Brecht, includendo le lampade rosse delle uscite e dei gabinetti. Nell’anfiteatro degli spettatori, una piattaforma a quadrifoglio inclinato con passaggini e scalette, inferriate, pozzi. Cala dal soffitto una lun ghissima passerella; e per questa scala molto più alta di quelle discese da Wanda Osiris precipita con il suo baule in carcere il povero scrittore Miguel de Cervantes, e trova sulla piattaforma una Corte dei Miracoli clamorosa e miserabile. Lo assalgono, lo spogliano tutto. Difende disperato la cassetta dei trucchi teatrali, e il manoscritto del Don Chisciotte. Per salvarsi, e provarsi poeta, ne racconta la trama ai prigionieri; e in un «numero» strepitosissimo, indimenticabile, mentre inventa paesaggi e avventure solo con le parole e le luci, e bricolando con i pochi stracci che «potrebbero» trovarsi in qualunque carcere, molto più dilapidati che per una Madre Coraggio, trasforma i prigionieri nei personaggi del romanzo, e diventa lui stesso con pochi tocchi di trucco, a vista, un Don Chisciotte allucinante al galoppo cantando su un cavallo con la testa di pezza, in compagnia di un Sancito che è uno di quei favolosi commedianti ebrei di Brooklyn con la pappagorgia tremula e l’occhione basedowiano sporgente e lucido, e un’abilità pazzesca per i falsetti.
Richard Kiley e Irving Jacobson sono due magnifici protagonisti inseguiti dai fari nella penombra blu e da un coretto di mulattieri, baritoni slanciati che cantano caprioleggiando sulla piattaforma semi–centrale con prodigiose abilità muscolari e vocali, tutta una mescolanza entusiasmante di Brecht e Vilar e Harlem Globetrotters. C’è una servaccia bravissima, Joan Diener, e Robert Rounseville (già Rake di Stravinskij) nei panni di un frate caravaggesco accompagnato da proiezioni di rosoni nei terzetti della confessione che ripetono come ritornello infinite varianti di «lo so, lo so, mia cara». Le canzoni sgorgano spontanee e necessarie dal contesto, e portano avanti l’azione: l’incantevole beguine della fedeltà, di Sancho, «I like him!»; i duetti fra Aldonza e i cavalli; le splendide risse dei mulattieri; gli specchi e le proiezioni fra cui si ripresenta il nemico Dottor Carrasco sotto diverse forme – e l’urlo di Don Chisciotte: «I fatti sono nemici della verità!».
Gli spogliarelli incidentali femminili e maschili citano il Robbins delle annate migliori, ma nessuno comincia ad applaudire dopo il numero impressionante di Aldonza rovesciata divaricata legata frustata. Subito dopo, una stupenda discesa d’inquisitori barocchi mascherati… E uno spettacolo vertiginoso e bruciante, lascia incantati per la magnifica efficienza del cast (cantano tutti eseguendo movimenti d’una difficoltà pazzesca, Don Chisciotte e Sancho ballano anche benissimo) e per una felicissima integrazione di componenti che esplode nello stesso tipo d’intensa commozione irresistibile ottenuta da Brecht nelle ultime scene della Madre Coraggio o altre Madri: Don Chisciotte viene sconfitto nel meraviglioso duello contro gli specchi, e l’inquisizione si preoccupa delle eresie possibili di Cervantes, però anche i prigionieri vogliono processare Cervantes, perchè il romanzo non ha una vera fine. Così Don Chisciotte agonizza nel letto tra i familiari, e Sancho vanamente arriva con una nuova beguine, «quattro chiacchiere con il moribondo». Ma Aldonza gli ricanta con furia la sua prima romanza contro la Realtà, e Don Chisciotte che stava soccombendo appunto di fronte ai Fatti s’avventa in un Momento Magico non meno stupendo della Morte di Kattrin per Brecht: balza dal letto in camicia scomposta e pupille sbarrate – riprende come Madre Coraggio la strada e la canzone – e muore in una rumba freneticamente nemica del Reale, e del Realismo. Ma la vera fine è che s’identificano e coincidono la ricerca avventurosa di Don Chisciotte e la ricerca romanzesca di Cervantes (come sostiene Blanchot); e infatti Cervantes smette i panni del suo protagonista libresco, abbandona il carcere e i prigionieri e il teatro anta e gli spettatori newyorchesi, risalendo con i frati dell’Inquisizione la scalinata alla Osiris – salvo!
Adesso, al teatro Alvin, nel fegato della Broadway più sgangherata e varicosa. La decrepita basilica dei massimi musicals degli anni Trenta e Quaranta è attualmente gremita d’una folla festiva carica di noccioline che viene a vedere It’s a Bird… It’s a Plane… It’s Superman!… E si toglie allegramente le scarpe davanti al fremito del sipario. Tutti bambini in madras e bambine «op».
Mi trovo in fondo alla prima fila, nei penultimi posti. A destra ho un bambinone in giacca rossa con la girl friend in occhiali. A sinistra, una vecchia ilare e azzurra che fa subito amicizia, attraverso la ringhiera dell’orchestra, col percussionista che si dimena tra il glockenspiel e le maracas, una parafrasi del Cole Porter di Anything Goes e una metastasi del Loewe di Camelot.
Sopra un colpo alla banca splendidamente coreografato da Ernest Flatt piomba intanto a volo fra giubili inarrestabili Superman in persona abbigliato come nell’arcaico fumetto, mantellina scarlatta e calzabraga blu. E un uomo immenso, Bob Holiday, con una gran voce di basso–baritono: un Giulio Cesare di Hândel travestito da vigile del fuoco. Subito, come un Sarastro del Bronx, solleva le automobili con una mano sola; danzano le cabine telefoniche interurbane, con precisioni incredibili; e i grattacieli si spalancano per lasciar scorrere avanti la redazione del «Daily Planet», completa di redattori in visierina e segretarie efficienti alle macchine dattilografiche.
Superman tiene delle prediche addirittura inquietanti. Nelle sue canzoncine–programma di raddrizzamento dei torti si esprime come un candidato repubblicano ancora un po’ eisenhoweriano; e tenta sì di rivestire di glamour l’invito all’ubbidienza conformistica ai parenti e ai superiori, però con qualche zaffata di San Vincenzo De Paoli. Viene dall’Altro Mondo sostanzialmente per incitare grandi e piccini a riverire le Autorità.
Però le smodatezze in scena sono un godimento smisurato, suo malgrado: beguines di dattilografe ninfomani ammiccanti ai Rolling Stones, duetti d’impotenze fra l’uomo enorme e soubrettine che accanto a lui diventano delle nanette golose, sambe e raspe di vetturette fra i semafori, reattori nucleari che emergono trillando come telefoni occupati dal Massachusetts Institute of Technology, fra sagaci applicazioni di colonne sonore da thrilling e uso Frau ohne Schatten di Richard Strauss.
Gran numero: lì in mezzo ai reattori ha la sua tanina gotica lo Scienziato Pazzo: Faust, più Agrippa (occultista), ma anche Premio Nobel mancato atomico–psicanalitico, macchina genocidi vendicativi ingaggiando una troupe di cinesi malvagi: tradizionalmente dialettali e lavandai e ti–pi–tin, ma per di più emissari jamesbondeschi di Mao sbarcati da un sottomarino a reazione.
Acrobati d’una brutalità impressionante, al suono d’antiche calliopi eseguono prodigiose destrezze fra i gatti morti nella biblioteca ragnatelosa e i reattori che ronfano accendendo minacciose lampadine gialle e verdi. Rapiscono e stordiscono tutti.
Non si può sconfiggere Superman con le armi da fuoco? Gli iniettano dei complessi freudiani–americani. E ovviamente, mentre Superman si lecca le ferite sentimentali nella sua casina tutta a poltrone di skai, lampade della Rinascente, bandiere americane, ritratti di Washington, e bicchieri di latte, la ragazza che s’intrufolava nelle situazioni viene catturata e legata a un ciclotrone, dove canta: «Potete legare le mie mani, ma non il mio spirito, Superman mi salverà ancora!». Quali inverosimili rassomiglianze con l’Antlium, la tremenda pompa venerata e contestata da Les Antliaclastes d’Alfred Jarry. Regìa perfetta di Harold Prince, come poi per il recupero–rilancio dell’illustre e sfortunato Candide di Bernstein, caduto e dato per defunto ben due decenni prima.
Gran trovate e stupende chorus–girls, d’abilità miracolosa.
Un madrigale: «Tu sei la donna per l’uomo che possiede già tutto»… E rovesciamenti incantevoli di temi convenzionali: la ragazza canta al vanesio: «La prima volta che ti sei visto, ti sei innamorato di te…» e i tip–tap d’alleanza fra il giornalista ambizioso e lo scienziato cattivo: «Tu hai ciò che mi manca per raggiungere la felicità».
Finalmente, in una struttura a tanti livelli, divisa in vignette coloratissime alla Lichtenstein, fra lotte sublimi come in un Ridolini cantato e danzato, colluttazioni e cascate di jongleurs morenti che strillano «wow!» tra scintillone orrende, lo scienziato pazzo agonizza col cuore trafitto da un’onorificenza maoista che nascondeva uno spillo avvelenato, e mentre i cinesi vengono sbaragliati soccombe indirizzando contrito un valzer lento pacifista a Sua Maestà il Re di Svezia, confidando in un Nobel postumo.
Spesso poi nasce a Broadway un Mago – attore o autore o regista (Brando, Kazan, Albee). Sbalordisce, all’inizio: trasforma a grandi unghiate nervose i manierismi d’una routine «che non sarà mai più la stessa». Presto si stanca. Muore: e diventa Mito.
Oppure va a occupare un seggio senatoriale nel paradiso «esclusivo» dei Mostri Sacri: i Lunt, le somme Tallulah, Rosalind, Ethel, Ginger, Bea Lillie. Cult, cult.
Il Mago successivo ad Albee, come ognun sa, è Mike Nichols: fiorito dopo anni di sofisticato cabaret come regista di boulevard felicissimo. A parecchi suoi spettacoli il successo assicura durata, e la durata cambiamenti di cast numerosi. Si stanno tuttora replicando, in un grappolo di teatri contigui. Sia pure visitandoli, così, dopo che i protagonisti originari sono stati rimpiazzati da numerosi successori, costituiscono tutt’insieme il fenomeno più vistoso di queste stagioni in cui la Creazione si ripete o tace.
Due hanno anche lo stesso autore, Neil Simon. Fra questi, The Odd Couple è già il più famoso. Un fumo densissimo sbatte in faccia al pubblico. Dal momento che dissipandosi rivela alcuni mariti discinti e accaniti nella partita del sabato sera, parte una risata che travolge il pubblico senza cessare fino all’ultimo sipario (aumentando, caso rarissimo, di fragorosità nel secondo e terz’atto). E estate, è New York, e questo appartamento d’una classe «senza classe» è arredato con un naturalismo borghese tanto sovraccarico da riuscire molto più allucinante di un Nulla stilizzato: anche prima di ravvisare in quel «condensato» di vignette sociologiche attuali tanti oggetti protagonisti uno per uno di gags sapienti e sventati nel gusto della Commedia Allegra del Trentacinque.
Miti e provinciali, sentimentali e disposti a ogni piccola violenza, questi mariti estivi e borghesi e variamente abbandonati dalle mogli (che telefonano solo per reclamare assegni ab bondanti e solleciti) si dimenano fra getti di coca–cola molto più violenti che in natura (e asciugati con sandwiches come spugne) nel falso realismo d’una commedia dell’assurdo – che però fa «morire (inesauribilmente) dal ridere». Torpido e collerico, ingrassato come un centromediano in malora, semisoffocato da ondate di popcorn che esplodono dai sacchetti come da fontane del Bernini, Pat Hingle riassume in qualche telefonata o «a parte» un catastrofico Digest di quindici anni di illustri O’Neill e Inge fin troppo pensosi, a cui lui stesso partecipava sul serio. E il suo compare Eddie Bracken riassume a un livello opaco e pedestre tutte le timorose allergie che devastano l’americano «disturbato».
Sono deliziose finezze. Piega la giacca pedantemente, sorride volubile a se stesso, piglia un sandwich, lo apre, lo richiude angosciato, e gli si spalmano sulla faccia tutte le amarezze di Blanche DuBois. Vuole una coca–cola, ma c’è solo seven–up. Dice piano «peccato, avevo voglia di coca–cola, non di seven–up», s’avvicina casualmente alla finestra aperta, e tutti strillano, spaventandolo orribilmente. Credevano che volesse buttarsi. Ma non era vero. Si avvia al gabinetto, e tutti a chiedergli urlando «quanto pensi di starci?». E lui, dimesso: «il tempo che ci vuole». Si chiude dentro e scoppiano dietro la porta dei pianti disperati.
L’avrà fatta tutta?
Questi compagni di poker – giornalisti sportivi e compilatori di telegiornali – sbraitano e s’inseguono e abbaiano come cagnacci di cartoon di Hanna & Barbera, in un avvilimento di calzoni appesi alle librerie e bottiglie semivuote sotto i cuscini e dita sporche di burro. Mariti tipici con la moglie in villeggiatura?
Grassoni atroci col revolver alla cintura, o striduli filiformi e isterici: bastano pochi minuti, e le loro magliette e i calzoni e le scarpe di gomma sbrodolati come strofinacci finiscono dopo un po’ di «azione» molto più lerci e dilapidati dei mantelli della convenzione brechtiana dopo settimane di candeggina. Ma oltre il gran divertimento che suggerisce un senso comunque ritrovato delle funzioni comiche del teatro, sfilano sotto forma d’ammicco strepitoso o affranto i temi più battuti dalla saggistica americana attuale, il «non farcela», la Mancanza d’identità.
Felix rimane a dormire in casa di Oscar perchè è tardi e ha bevuto e fa caldo ed è stato abbandonato dalla moglie, mentre Oscar deve continuare a spedire assegni alla moglie separata.
Ma il sipario della seconda scena non s’alza più su quel porcaio. La scena è sempre la stessa, ma in un eccesso di realismo delirante le qualità positive di Felix hanno trasformato l’apparta mento in una parodia di virtù convenzionali: .al’Ordine, la Pulizia, il Rispetto per gli Orari, la Buona Sana Cucina, l’esaltazione a tutti i livelli del Domestico e del Casalingo. Il divertimento esplode rimuovendo con cura ogni doppio senso sessuale, così come non ne esistono nella Zia di Carlo. Felix non si veste da donna come Macario o come Jack Lemmon, però agisce totalmente come una signora piccolo–borghese dignitosa e rispettabile, con la fissazione del «granello di polvere». Il suo Regno è la Cucina. Non siede sui divani per non sciuparli, non può dormire se non è data giù la cera, gira per le stanze con piumini e scopini per eliminare la cicca o la briciola, sgrida bisbeticamente Oscar se torna a casa in ritardo («la minestra è troppo cotta! in questa casa sfacchino solo io!»), e lo piomba nelle perplessità più sconfortanti. (Sono obbligati a mangiare in casa per risparmiare, per pagare gli alimenti alle mogli…).
Sono due maschere della grande tradizione, il dramma neurotico del Cinquanta sovrapposto all’Hollywood della Commedia Artificiale, come in The Seven Year Itch di Billy Wilder. Si sbagliano, ogni tanto: si dànno la buonanotte col nome della moglie. E la partita del sabato va avanti ormai fra ordinari allibiti e fuori di sé, in una casina tutta linda, sgridati da un padrone di casa che è una massaia ossessionata da centrini, piattini, tovagliolini. Le emozioni si riassestano così su binari impensabili, i conti della spesa, la televisione in poltrona, la tavolina apparecchiata con garbo, il terrore della macchia sulle fodere, la convinzione che la felicità sia raggiungibile con la pratica assidua delle virtù caserecce. Un disastro: la sera che Oscar riesce a tirare in casa due gallinacee inglesi di deliziosa scioccaggine, dopo un gran spignattare in cucina Felix osserva i tre dalla poltrona a dondolo come una nonna benigna; e finalmente li fa piangere con i ricordi strazianti della famigliuola perduta.
Un accumulo d’imbarazzi perbenino, presto surreali a furia di stupendi gags visuali e fonici e di cinguettìo: singhiozzi da Ecuba su una bistecca bruciata, come se fosse un familiare morto, e fuga dell’abbronzata litigiosa e della rossa col raffreddore… Fino alla battuta: «Pulisco la cucina, mi lavo i capelli, e vado a dormire subito: esci tu, se vuoi».
Il terz’atto si srotola naturalmente come un catalogo di dispetti boccacceschi – piedi sui divani, spray nella minestra, mozziconi raccolti in strada e buttati sulla moquette – e rinfacci e gelosie e telefonate di controllo in ufficio. «Va’ nella tua stanza!».
«No, pago l’affitto, e vado in tutte le stanze che voglio!».
«Sono stufo di sentir l’odore dei tuoi spaghetti!».
«Non sono spaghetti, ignorante, è bambù!».
«Ecco, adesso è spazzatura nel secchio!»; e fuga di Felix con una valigia piena di padelle, per andare a vivere con le due ragazze (fino alla fine un superbo divertimento) e ottenere finalmente una cucina tutta per sé, dopo una straziante rievocazione di ricordi sentimentali e di piattini esotici. La stessa vena, in Barefoot in the Park. La soffitta celeste piena di valigie celesti dove vanno a vivere appena sposati il giovane avvocato preoccupato e la ragazzaccia capricciosa figlia tutta jeans d’una mamma tutta «Vogue» offre altri ghiotti pretesti di grossa comicità «oggettuale» sul contrasto fra l’appartamento «prima» e «dopo». Lei è una Vitti, e lui un Peppard, giovani giovani e carini carini. La trama è un’inconsistente sciocchezzina, ma i gags di Nichols spiritosi e continui. Lei mette il vaso coi fiori sulla stufa e le cravatte nell’elenco telefonico, prepara i martini con un gin e un altro gin, e parlano tutti a una velocità pazzesca. Stavolta le valigie contengono legna per il camino, e lei tenta d’accenderla direttamente con l’accendino. Il cinquantenne rauco e latino esclama alla mamma in stola «vorrei avere dieci anni di più, perchè ai cosiddetti vecchi svergognati le cose van tutte meglio»; e riesce ogni volta divertentissima la spiritosaggine della salita senza ascensore. Ogni qualche battuta, entra qualche nuovo personaggio distrutto dalle scale a piedi, stravolto e senza respiro, oppure con fiatoni e muggiti selvaggi, e ci vogliono dei minuti per placarlo. Ci sono poi tutti i gags del freddo. La casa si trasforma sempre più scioccamente: paraventi di vimini, mobili di bambù, poltrone vittoriane, divani neogotici, letti da scavalcare per raggiungere la porta… Sono commedie molto «urbane», piene di riferimenti a posti e fatti di New York familiari agli spettatori.
Ma forse, in realtà, si tratta d’una commedia sull’America patrizia e anglosassone, disturbata e travolta dalle follie e leggiadrie e sciocchezze degli ultimi immigrati: un’allegoria delle magioni puritane dei James e delle Wharton invase da padelle e sangrìe e fiaschi di Chianti e pasta Buitoni… Nei pochi minuti che ho visto di Luv, la gaia barzelletta di Schisgal mi sembrava realizzata da Nichols più aspra e svelta che nella produzione italiana. Ma mi pare molto ragguardevole il suo film di Who’s Afraid, of Virginia Woolf? Sopra e intorno un assemblage d’oggetti sparpagliati e deprimenti, la macchina gira gira distratta e sognante come in certi Renè Clair, ma viene praticamente inventata una diversa inquadratura per ogni battuta: dai campi lunghissimi stravolti con artificiosissime lu ci «da commedia», ai primissimi piani in moto vorticoso. E paradossalmente, il film diventa statico e teatrale solo quando si esce da quella stanza. Infilando scarpe sotto i cuscini, piatti sporchi negli armadi, camicie e mutande fra l’insalata e i grissini, spostando carte in disordine da un tavolo a un tavolino, e spargendo cicche fra gli idoli polinesiani e i romanzi di Günter Grass, Elizabeth Taylor recita benissimo, tra l’Elsa Morante e la Simone Signoret. Un suo lunghissimo assolo, una camminata che è un’inquadratura di molti metri, indica semplicemente che finezza di risultati poetici riesce a tirar fuori Nichols da un prato illuminato e una donna e un albero e la luce di posizione di un’automobile che brilla a intermittenza, e come commento musicale semplicemente il tintinnio del ghiaccio che si scioglie nel bicchiere.
La Taylor reciterà benissimo anche in teatro, con The Little Foxes di Lillian Heilman.
E il teatro vecchio…?
A Broadway, scoraggiato dai titoli, dai temi, dai cast. La Leggendaria Efficacia, a questo punto, diventa solo allucinante, applicata come una ventosa al Luogo Comune.
Ho tentato un grande musical. Dal di fuori, assai attraente: Cabaret, con Lotte Lenya, trattò da Goodbye to Berlin di Christopher Isherwood. Poche cantanti, pochi romanzieri, si trascinano dietro da tanti anni un affetto così singolare e ostinato, quasi un cult… … Ma che vergogna! Intanto, un pubblico molto vecchio e tutto contento; e per questa platea di sessantenni giulivi, una caramellona confezionata apposta, da un boulevard che «deve» morire con loro. Non per nulla, prima della guerra, i teatri di Broadway erano tre volte tanti.
Il romanzo di Isherwood era splendido. Catturava uno stato d’animo e un’atmosfera «irripetibili»: i poeti inglesi del Trenta, in gaia trappola fra Marx e Freud, e gli allegri giovanotti, nella Berlino delirante fra Hitler e Brecht… Anche il plot era affascinante, tant’è vero che aveva già germinato una commedia e un film, I’m a Camera, nonché un’aperta imitazione di Truman Capote, Breakfast at Tiffany’s.
Ma per Isherwood e per Capote l’intera storia ha un senso e un sapore preciso. La capricciosa amicizia fra lo scrittore «difficile» e la ragazza «facile», svampita e adorabile, funziona come extravaganza astratta, e complicità da Così fan tutte, proprio in quanto non c’entrano i sentimenti, lui è culo, e così il sesso è fuori questione, come nelle convenzioni dell’ope ra buffa. (Ancora dopo la guerra, Auden mi aveva dato l’indirizzo di qualche gaio locale proletario di là, con incontri di boxe nel retro).
Invece, tutti gli sforzi dei produttori di Broadway sembrano indirizzati a prendere delle trame «diverse», e a trasformarle nella Solita Solfa, a costo di cambiare il senso dei luoghi e il «segno» dei personaggi. Così il morbido poeta inglese nella tragica Berlino del Trenta diventa uno dei tanti bravi ragazzi americani ottusi e «tipici» che s’installano in un luogo di villeggiatura esotica per scrivere un bestseller, e lì s’innamorano della prima bambolina che incontrano, apparentemente frivola ma in realtà con un cuore grosso così. Si vogliono bene, stanno tranquilli, sono contenti in mezzo a bizzarri indigeni; e la loro favoletta si può trasformare in qualunque film uguale a tutti gli altri film della categoria Suzie Wong.
Lo spettacolo è indecoroso. Sfrutta l’espressionismo tedesco per avvilirlo in un avanspettacolo fitto di numeretti 1925, tutti brutte imitazioni da Gypsy: lo strip–tease «ironico», la giapponesina con suoni di xilofoni, la parigina con una torre Eiffel in testa. Anche un nazista mite, e dei poveri ebrei vittime vagamente umoristiche. Mascalzonata suprema: la trasformazionesvisamento del personaggio di Fràulein Schneider in una vecchia zitella grottesca che esegue goffe smancerie matrimoniali con un vecchio ebreo dialettale, come contrappunto anzianopatetico–macchiettistico alle melensaggini sdolcinate della coppia giovane. Era la parte destinata a Lotte Lenya. Ma dopo qualche giorno ha abbandonato lo spettacolo: immagino per mortificazione.
Sui programmi era annunciata una lunghissima malattia.
Al suo posto, ho trovato una di quelle caratteriste che «ci dànno dentro». Ma come «Master of Ceremonies» (nonché Kapellmeister quasi brechtiano), il sensazionale animatore–agitatore Joel Grey tiene su l’intero spettacolo.
Broadway rimane un territorio senza guide: si sa come sia rara la critica drammatica in America. Tra le luminarie da fiera della vecchia Times Square e le tavole calde e i negozi di «scherzi divertenti» e i cinema di film nudisti e le predicatrici che strillano contro il Peccato, di anno in anno i «generi» fissati dal canone commerciale si offrono al pubblico suburbano consolanti e immutabili, anche per assicurare il recupero dei capitali investiti dagli impresari. La commedia sentimentale domestica e digestiva (e «carica d’umanità»), con una lacrima e tanti dolcetti, tutti i personaggi simpatici e carini, generalmente «adatti ai bambini», e un autore che soffre d’arresto di sviluppo emo tivo: crepuscolari «cuor d’oro» che fino a una certa età fanno delle esperienze vere, e una volta fissato un tema cessano di vivere per rielaborarlo ad uso turistico.
Ecco la biografia romanzata della sordomuta–prodigio o del quartetto vocale perseguitato o di un buon sindaco o d’altri caratteri cordiali e locali e soprattutto medi: così al dramma del personaggio «immaginario» contro il Destino avverso si sostituisce la conquista del Successo da parte di un eroe casareccio, «un vero americano che potrebbe essere ciascuno di voi».
Riecco la commedia elegante, da salotto: tappeti e trumeaux, paltò di cammello e vestaglie di broccato, perle, champagne, caviale, Bermude, vecchie signore che gorgheggiano con vecchi giovanotti, e un vecchissimo pubblico felice vedendo Charles Boyer in smoking di velluto e parrucchino biondo fare il guancia–contro–guancia sotto un abat–jour con Claudette Colbert in princesse di Balmain, al suono di Mademoiselle de Paris e fra le birichinate del cameriere filippino.
Ancora i tormenti nervosi di un’ubriacona che si droga in un Vecchio Sud franante dove ciascuno possa riconoscere casa propria e se stesso fra le eterne maschere del Vecchiaccio imperioso e lurido, del Giovanotto puro e contaminato, della Bella Figlia perduta e sofferente e non più giovane. Magari anche male operata all’utero.
Sempre il «teatro nel teatro», ma non nel senso di Pirandello: proprio commedie che trattano di altre commedie, musicals intorno alle prove di un musical, attori in parti di attori, spettacoli che provano come la realtà persa di vista venga sostituita dal narcisismo di un mestiere convinto che tutto il mondo si limiti al mondo dello «show business».
La commedia «pulita–sporca», o «sexy senza sesso», cioè scollacciata ma per famiglie: la risposta di Brooklyn a Occupe–toi d’Amélie. Soltanto, invece di un granduca in mutande nell’armadio di una cocotte, col suo uffizialetto geloso sul pianerottolo, si trova ghiotta e titillante, per esempio, la situazione di due coniugi sessantenni che hanno improvvisamente un bambino; o un papà playboy che torna da Montecarlo per distogliere con i suoi vezzi la figlia ingenua da un matrimonio sbagliato; o un marito e una moglie non giovani che sfiorano ciascuno per proprio conto l’adulterio francese ma senza commetterlo; e poi tornano alla loro casina più contenti di prima. Su pretesti simili, tre ore di ammicchi finti–salaci.
Il dramma «poetico», cioè un falso–Milton che si svolge nel Nulla, con Dio e il Diavolo e il Fisico e lo Psicologo che si scambiano intimazioni tipo «Dio è storia!», «La storia è giusti zia!», «Dio è giustizia!», «Il tempo è storia!». Tutto un pingpong di versetti con funzioni catartiche: come per assolvere a furia di noia la coscienza colpevole dello spettatore che si vergogna d’essersi divertito a The Music Man o Destry Bides Again.
O di essersi addormentato «mentre piano piano, senza fare confusion / viene l’Alienazion».
Spesso anche la giapponeseria o cineseria: col suo fior di loto, archi bordati di pizzo come sottogonne, le lanterne coi dragoni, i campanellini di Chinatown, la luna che ride di lassù, tutto un Sayonara goldoniano con bizze e princisbecchi fra innamoratini.
In verità, gli Stati Uniti non hanno mai avuto una vera drammaturgia: così come non sono mai riusciti a creare un vero formaggio, nonostante gli sforzi del grande paese per produrre l’uno e l’altra. Si sa fin troppo che i veri autori delle commedie americane sono gli impresari e il pubblico (formato di coppie suburbane in visita a New York, con la solita moglie che brama la «serata fuori» e il consueto marito che anela al relax). E gli autori che le firmano, non è un caso che abbiano poco in comune con la buona letteratura, almeno nel senso in cui vi partecipano piuttosto Ibsen e Shaw e Wilde e Pirandello e Camus.
Non per nulla le avventure di Miller e Williams nella poesia e nel romanzo sono paragonabili per flop solo alle commedie di Hemingway e Fitzgerald e Wolfe; e nell’economia di uno spettacolo qui il testo non ha molta più importanza delle luci e dei movimenti e degli «effetti». Infatti il «genere» teatrale più riuscito e felice in America è sempre stato quello composito e collettivo del «musical», originale e locale e «tipico» come il melodramma in Italia; e la sua epoca d’oro è stata stupenda, si è stati fortunati a vederne la fine qualche anno fa.
Ma tornando a rivisitare Broadway tardivamente, in un panorama decrepito e sempre uguale, le sole novità che possono colpire sono due tendenze non si sa fino a che punto significative: l’approdo dell’Assurdo a Times Square e la solenne riproposta di Eugene O’Neill come Massimo Drammaturgo Nazionale.
I fatti dietro la drammatica ripresa di Strange Interlude – dopo trentacinque anni – sono che al Lincoln Center in costruzione verrà presto ospitato un teatro nazionale tipo Comédie Française, affidato all’Actors’ Studio. Quindi gli attori che fanno capo a Lee Strasberg, in concorrenza con una formazione simile annunciata da Elia Kazan, si sono impegnati in questa breve stagione, insieme anticipo esemplare dell’attività futura e dimostrazione polemica contro gli impresari commerciali.
O’Neill è stato scelto per il primo spettacolo, inevitabilmente: come massimo autore d’America, e tanto più che il regista della compagnia, José Quintero, da molti anni lavora con ottimi risultati per una rivalutazione critica del suo teatro. A cominciare dal dramma postumo Long Day’s Journey into Night, attraverso altri semiperiferici come Desire Under the Elms o A Moon for the Misbegotten, questa opera di ripresentazione «esemplare» raggiunge così oggi i disperati monumenti «centrali» di un drammaturgo fra i più infelici: proprio perchè un Fato malvagio lo condanna a personificare l’eroe intellettuale tipico d’una certa cultura positivistica che prende di petto il Fato e le idee e il linguaggio, e farraginosamente divora Eschilo e Strindberg, Shakespeare e Hugo e Freud, ma senza assimilarli nè digerirli li risputa fuori a pezzetti, in una broda spesso ripugnante di battute tormentosamente mal scritte. Molto meglio (sempre con regìa di Quintero, anni addietro), la recitazione della scrittura di Thornton Wilder, in Our Town, altro classico, al Circle in the Square.
Sono le commedie peggio scritte nel mondo? Basta aprire o ascoltare a caso. Immensi, puzzolenti fumetti escono dalla bocca di Nina, la protagonista, che dice fra sé e sé, come se ripetesse le parole di un’intima ragione di vita: «Non è il figlio di Ned!… nè di Sam!… è mio!… ecco!… di nuovo!… lo sento vivere!… muoversi solo nella mia vita!… e la mia vita si muove nel mio bambino… respiro nel flusso che sogno e rendo il mio sogno alla marea… Dio è Madre… (con improvvisa angoscia)… Oh, pomeriggi… cari, meravigliosi pomeriggi d’amore, con te… perduti… spariti per sempre!…». Oppure, ancora Nina, si alza come un automa e calcola tra sé e sé: «Bisognerà ingraziarsi Charlie… non mi sento al sicuro»; come una Rosaura che si ricompone: «Giusto Cielo, ecco Fiorindo!… occorre dissimulare!». E Marsden si vergogna tra sé e sé: «Perché dunque ho cercato di ferirla?… la mia Nina!… e pensare che sono più vicino a lei che a qualunque altro!… darei la vita per farla felice». E Darrell, i cui pensieri, amari e disperati, sono quelli di un uomo con le spalle al muro: «E orribile!… Sam crede che io sia l’uomo migliore del mondo… e io gli faccio questo bel servizio!… come se non ne avesse passate abbastanza…». In che cosa mai si distingueranno questi dal «non so chi mi tenga dal fare uno sproposito» di un Tòdaro o di un Canciàn?
Ecco, i nove atti di Strange Interlude sono tutti scritti in questa maniera impressionante, abusando sconciamente dell’«a parte» dei guitti ottocenteschi non per spaccare la convenzione veristica ma per renderla in pratica più greve e ridicola, anche se si capisce che l’intento era invece di moltiplicare profondità e poeticità attraverso più «piani» di rappresentazione. Ne risulta piuttosto una serie di romanze e cabalette, una forma drammaturgica impostata sul «recitativo e aria», sul duetto con i trasalimenti: antidrammatica perchè ogni personaggio non si rivolge quasi mai agli altri, non dice quasi nulla in forma diretta.
Spiegano; si spiegano; rimembrano; informano sugli antecedenti; e verbosissimamente, tentando di fare della poesia; come se una somma di «a parte», in una commedia naturalistica, potesse costituire dialogo.
Ricordanze, memorie, chiarimenti non richiesti traboccano dal testo, abbondanti come i commenti sul plot forniti dai servi nella commedia classica, e negli «ora facciamo un passo indietro» dei feuilletons: «ma mentre la nostra eroina si rifocilla, provvisoriamente al sicuro nel tinello della buona ostessa, v’è chi trama nell’ombra nell’antro della fattucchiera». Pare il quartetto del Rigoletto, però senza musica ed eseguito come Il castello del cappellaio. E come tecnica drammaturgica siamo alla scena della narcotizzazione nella Lodoïska di Cherubini, con sostituzione di vini drogati, e due gruppi d’armigeri travestiti da santi romiti in due angoli di un corpo di guardia, sbirciandosi di sottecchi per vedere se gli altri bevono il filtro: «Là! Là! Mi par che faccia effetto!», «Là! Là! Non hanno alcun sospetto!», «Là! Là! Fra poco sono a letto!», ecc.
Cosa si può mai fare con un testo simile, questa operona positivistica anglosassone, questo equivalente vittoriano della Forza del destino, questa risposta del New England al Ballo in maschera, con una psicologia alla Salvatore Cammarano e un linguaggio che pare una brutta traduzione da F.M. Piave? Il prodigio di Quintero e dei suoi magnifici attori è che non l’hanno affrontato «dandoci dentro» oppure ingoiando il testo, ma lo risolvono recitandolo com’è scritto – e facendolo sentire tutto pulitamente e senza enfasi, senza far notare le differenze fra le battute dirette e quelle «interiori», sorvolando sulle insistenze drammatiche più pesanti, come quando si prende a braccetto un ubriaco, per farlo passeggiare con finta disinvoltura. Il risultato è che questa magnifica recitazione lotta contro il testo cercando di nobilitarlo senza far sentire lo sforzo. E certe volte riesce a obliterarne la rozzezza, presentandolo come una fantasia funeraria sopra un fagotto di luoghi comuni borghesi americani. Ma non di rado ne mette in evidenza le debolezze e gli espedienti in tutto il loro orrore: la psicologia rudimentalissima, laboriosamente costruita sui manuali di divulgazione popolare. (Basta mezza pagina di Freud per renderla ridicola: mentre la scoperta della luce elettrica non diminuisce affatto la poesia di Poe… e Proust non fa sentire «superato» Victor Hugo…). E una filosofia che quando affronta la Vita o Dio dà l’impressione di un abate Zanella che adoperi le conchiglie fossili per farsi delle collane «fantasia». E una poeticità basata su «evocazioni» tipo: «Avevamo giurato di non aver figli, e per due anni non dimenticammo le precauzioni… poi, una sera… un ballo… un punch… un chiaro di luna… oh, quel chiaro di luna!… che piccole cause hanno spesso i fatti più gravi!». E l’ossessione monotona sulla madre funesta, che è poi realmente la versione tragica delle barzellette sulla suocera tra i commessi viaggiatori.
E gli svantaggi dell’America, e della famiglia americana, e del lavoro americano, e degli altri miti nazionali… Come se veramente la Nemesi pseudo–greca dei suoi drammi condannasse il povero autore anche ad anticipare tutti insieme i clichés più volgari e noiosi dei futuri drammi esistenziali e psicanalitici di Hollywood.
Scenicamente, Quintero ha disposto fondali di tappezzerie liberty ingrandite, scure, a ramages; mobili vittoriani realistici, paralumi di antiquariato. I cambiamenti sono a vista: gira la piattaforma e cèdano gli scenari. L’illuminazione, teatrale e falsa, con spot che seguono gli attori dalle barcacce, come al varietà.
La recitazione è realistica, stilizzata, come in un dramma ibseniano su un gruppo di ottusi annebbiati che cercano di capire.
Naturalmente, in un’epoca abituata a drammaturghi che si ispirano consapevolmente alla filosofia, fa un po’ senso vedere questi personaggi che girano fra vecchie tappezzerie isolati dal loro riflettore, e recitando carte da cioccolatini: tutta una filosofia Pernigotti, uno «Zeitgeist» Perugina… E si capisce che la stilizzazione trova il limite d’una certa meccanicità, per forza, quando le battute invece di rappresentare direttamente tipo «Amami Alfredo» suonano indirette e descrittive tipo «Mi chiamo Margherita Gautier, malata d’un male che non perdona, e con dispiaceri da parte di un giovanotto ingrato», se non addirittura «Sono Brighella e ho perduto il baule ma buon per me il vecchio babbeo non s’è accorto di nulla».
Geraldine Page è sublime. Neurotica e cantante e ravagée fin dall’inizio come un’eroina di Donizetti; anche se Nina Leeds è una noiosa impostata dall’autore come una Leonora da melodramma a cui ne càpitano più che a Lana Turner e Susan Hayward in quei film catastrofici dove tutti scoppiano a ridere a ogni telegramma che annuncia nuovi infarti e divorzi. Ibsen se la cavava con molto meno; ma a Nina càpita tutto: padre geloso, fidanzato morto in guerra, buttarsi via tipo Ponte di Waterloo-, corteggiatore simpatico ma legato alla mamma; marito sempliciotto e povero, ma poi ricco e sicuro di sé; la Maledizione degli Evans, per cui guai ad aver figli; la rozza fantasia floreale di scegliere allora un altro padre per il proprio bambino; e sarà un Dottore che nulla distingue da un Ingegnere di «Bolero film»; e tutta un’incomprensione ventennale fra lei e il figlio e il padre vero e quello finto e la ragazza del figlio e l’antico corteggiatore e il fantasma della sua mamma. Ma con che agio superbo lei passa attraverso isole di felicità e di disperazione, e scontri d’amanti colpevoli, dai tormenti semplificati delle prime scene fino alla buona commedia moderna sul ponte dello yacht, dove ciascuno monologa per proprio conto affrettando la conclusione dell’epoca teatrale che va da Pirandello a Wilder; e lei in veli e turbanti e plaids alla Marlene Dietrich si lascia stupendamente affondare in un’acre vecchiaia gonfia di recriminazioni amare.
Meravigliosa, quasi sempre. Ma il più bravo di tutti è Pat Hingle: giovane e vecchio, ansioso e sicuro, trepidante e volgare, goffo come un amico grasso di Harold Lloyd e finissimo nell’identificarsi con le diverse fasi del personaggio e gli umori delle varie epoche, come se la parte mostruosamente complicata di Sam Evans fosse stata composta sulla misura esatta delle sue capacità espressive. E ottimo subito dopo riesce Ben Gazzara, uno di quegli attori che «scavano» il personaggio: visibilmente, ma con che acutezza vien fuori questo medico mondano anche un po’ Dottor Sottile, disinvolto e tarlato dai rimpianti molesti del cuore.
William Prince fa invece quello che può alle prese con il personaggio di Marsden. O’Neill lo vorrebbe simpatico: altrimenti non si spiega l’attrazione di Nina per decenni. Però l’opprime con battute seccanti e macchiettistiche: sempre la stessa frase d’entrata sulla mamma che non sta bene, perchè sia ben chiaro che come prescrive la psicanalisi da scuole serali chi è attaccato alla mamma sarà indeciso in amore. Ma è un vecchio espediente comico da vaudeville: se un caratterista entra ogni volta esclamando «Stiamo attenti a non perdere il treno» o «Avete visto dove è andata mia moglie?», dopo due o tre volte il pubblico riderà a ogni ripetizione.
Betty Field, la madre di Evans, è la mamma o la zia dei film con la ragazza neurotica «con cui non si può mai star tranquilli»; però truccata come una regina da balletto; e recita alla Katina Paxinou, perchè l’autore la carica di più presagi e visioni e segreti di famiglia che non una vedova di Euripide o una go vernante di Charlotte Brontë. Azucena è una spensierata di Franz Lehar, al confronto. Ma la scena delle rivelazioni fra le due donne, a base di suocere matte e di zie imbavagliate in solaio, è ridicola per le stesse ragioni del mio professore di greco quando commentava I Persiani di Eschilo: il sogno di Atossa è tragico perchè fatto dalla madre di Serse; fatto da nonna o zia o cugina riuscirebbe grottesco e satiresco (lì infatti si frana, volendo far troppo gli spiritosi con i tragici greci e confondendoli con il Padrone delle ferriere).
Compaiono anche Geoffrey Home, come un buon jeune premier; e Franchot Tone, con faccia da bambino truccato da vecchio padre. Gli ultimi atti sono forse i più seri: con meno fato greco e più tragedia americana. Però alla fine se si analizzano i colpi di scena più efficaci, uno si rende conto che è una drammaturgia da Buridano, basata su dilemmi artificiosamente gonfiati – Nina tra l’amante e il figlio, il figlio tra la madre e la ragazza – e rifiuti esageratamente scultorei. Non per nulla il pubblico, anche quello che piange ai primi atti, finisce per divertirsi a ogni nuova sciagura che grandina sugli infelici. E un momento fra i più soddisfacenti della serata è l’ora d’intervallo fra il quinto e il sesto atto, con pranzo eccellente da Sardi’s (in compagnia di Anita Loos! ma dove c’è un buffet, la potentissima Diana Vreeland si alza per servirla), fra le caricature di vecchie celebrità alle pareti e le ingiurie dei camerieri tutti italiani alle celebrità nuove, che non capiscono e ricambiano con altrettanti sorrisi l’insulto romano e il dileggio siculo.
Who’s Afraid of Virginia Woolf? è la più recente commedia di Albee: la sua prima in tre atti, su misura per Broadway. Gran successo di pubblico, esiti critici molto dubbi. Elogi soprattutto per la sua «onestà». A me pare brutta: lo stesso cedimento di Ionesco quando allarga per un teatro commerciale in tre atti pieni di ripetizioni e volgarizzazioni la grazia perfetta dei primi atti unici (che sono la misura giusta per un Assurdo senza «plot»).
La sotie surreale sulle contraddizioni della vita umana s’annacqua così in un mare di osservazioni sociologiche «dal vero» sulla vita dei professori universitari: luogo comune ormai fra i più insopportabili, perchè in ogni città americana c’è una università, e milioni d’intellettuali vi insegnano, tutti intenti a produrre racconti e romanzi e commedie sulla vita degli intellettuali nelle università. Il gioco selvaggio di ripetizioni e nonsensi viene dunque ridotto alle misure naturalistiche della commedia borghese; e si capisce che la ferocia meccanica della comicità astratta perde molti colpi applicata alle convenzioni del boulevard: come se Beckett venisse riscritto da P.G. Wodehouse.
Le domande indiscrete, le interazioni irragionevoli, i vuoti inspiegabili, le curiosità insensate, le furie illogiche ci sono sempre, con le solite insistenze su particolari fisiologici irrilevanti e imbarazzanti; e rinfacci dispettosi, e liti volute: ma tutto spiegato, facilitato, sottolineato da notazioni di costume che immiseriscono ogni impennata «assurda». E non per niente la scenografia è rigorosamente realistica.
L’idea di gente che tormenta se stessa e tormenta anche altri chiusi nella stessa stanza è tutt’altro che volgare: è di Sartre; e O’Neill con uno spunto assai simile aveva fatto il Long Day’s Journey into Night. Ma questo era un romanzone veristico dove succedeva tutto, mentre Sartre in Huis clos aveva avuto l’accorgimento di murare le porte e far durare la pièce meno di un’ora (come La cantatrice chauve). Albee ha invece due coppie d’insegnanti, una giovane e una anziana; non so come il testo specifichi i sessi, ma nella rappresentazione i personaggi sono ben bilanciati: la coppia «nuova» (un ex–atleta biondo e ambizioso, una bambinona soffice ma soggetta a gravidanze isteriche) dopo un party finito a mezzanotte vengono a bere dai due colleghi «arrivati»: una magra furente figlia del vice–rettore, e un fallito con la pipa, finto–stoico e neurotico. Per tre atti che durano quattro ore, invece di andare a dormire come obietterebbe un verista filisteo (qui le porte non sono murate), i quattro si insultano con battute paradossali e facili, con un pubblico che si diverte come a un Fraccaroli–Besozzi. Ma il tono è sempre uguale, unilaterale e noioso, perchè naturalmente una commedia di repliche verbali e non di fatti è un rotolo che si può svolgere o tagliare a piacere; può durare quattro ore come una o dieci; al di là di un certo limite la misura è arbitraria.
I quattro ottimi attori mimano figure d’amore e odio chiamandosi bastardo e assassino, e ripetendo che è tutto un gioco; ma è una commedia d’amore e odio senza amore, di lotta fra i sessi senza veri sessi. Ambizioni affiorano, meschinità vengono a galla, cattiverie saltano fuori, moltissime, continuamente, con regolarità; ninfomania e schizofrenia, isterismo e impotenza, bere e non capirsi, far male l’amore e dichiararsi guerra.
Interrogazioni villane. Iterazioni irragionevoli. Vuoti angosciosi.
Furie illogiche. Imbarazzi fisiologici. Dispettosi rinfacci. Curiosità insensate, furiosamente meccaniche, e perciò destinate all’eccesso esegetico, o a una sonnolenza specifica. Innumerevoli orrori del repertorio e del campus vengono elencati diligen temente, pedantemente, minuziosamente, scegliendone gli aspetti più paradossali. Ma Uta Hagen o Arthur Hill non paiono indimenticabili. Dopo dieci minuti si è già capito tutto; dopo un’ora sembra che ne siano passate sei. Ah, qualche taglio.
Dopo il secondo intervallo non si ha la forza di rientrare in teatro.
Oltre tutto qui Albee diventa più verboso di Claudel; e dietro Beckett esiste almeno una certa filosofia, ma al di là di questa commedia s’intrawede tutt’al più una caricatura di Strindberg fatta da Charles Addams, con Crudelia o Morticia, e le barzellette «cattive» di qualche anno fa, tipo «smettila di girare intorno, sennò t’inchiodo anche l’altro piede».
Altra istanza di come fa in fretta l’Assurdo a franare sorprendentemente nel boulevard è un’astuta farsa tipo Arsenico e vecchi merletti-. Oh Dad, Poor Dad, Mamma ‘s Hung You in the Closet and I’m Feelin’So Sad, di Arthur Kopit, il più simpatico rappresentante di una generazione agiata e viziata attualmente alla moda: alti, bruni, eleganti, educati a Harvard, con ville a Long Island e automobili sport e viaggi in Europa e serate a lume di candela con ereditiere belle e chic nei night–clubs di Manhattan. Ci si incontra all’Oak Room del Plaza, infatti. Tanto più ghiotto, quindi, su un piano sociale e mondano, questo attacco alle Madri sferrato nel cuore della Buona Società. E infatti Jerome Robbins ha messo su intorno alla grande Hermione Gingold uno spettacolo giustamente piccante e smorfioso, molto rassicurante per ogni pubblico: non si esce mai dal vaudeville dove ogni personaggio è una macchietta che danza e strilla e fa lazzi comicissimi e «non ha nulla di umano», mentre ogni deformazione del reale tira solo a strappar la risata.
La presentazione è a cartoni animati, come le réclames «ironiche» al cinema. Un balletto di camerieri da rivista. Due folli caricature surreali, una madre che è un pipistrellone di faille nero con frange di scimmia, con le insensate gerarchie di valori della Lady Bracknell di Wilde, le spietatezze della Vecchia Signora di Dürrenmatt, e in più i frills delle vecchie eccentriche tradizionalmente adorate dai pubblici anglosassoni, da Estelle Winwood a Margaret Rutherford; un figlio balbuziente e tremante in calzoncini bianchi da Piccolo Lord Faunderoy, praticamente il povero Ognuno americano immaturo e tormentato dalla Madre e dalla Ragazza. Poi, un trovarobato imponente d’oggetti «spiritosi»: mazzi di dollari incollati a fisarmonica, seggiole che camminano da sole, bara con mummia dentro, orologi a cucù che fanno versacci, simboli ovvi di rapacità come piante carnivore e pesci piranha, collezioni di libri e monete e francobolli che si prestano a battute comiche da rivista goliardica: «Solochov, Alain–Foumier, Alighieri… amici miei…». «Ecco una piastra del 1879: ottima annata per le piastre».
Arrivano presto gli altri due: il pomposo Commodoro che flirta con la madre in vestaglia trasparente, però con un blando dialogo alla Coward che fa ridere pochissimo, e un lungo monologo programmatico di lei addirittura fiacco, drammaturgicamente e poeticamente. Poi finalmente la Bambinaccia, altra nipotina di Ionesco: in rosso, con trecce e nastri, calzine di filo e scarpine di vernice, sconciamente imbellettata, petulante e aggressiva; e cerca di sedurre il figlio saltando oscenamente sul letto–sacrario della madre, con la mummia del padre che cade dalla bara a braccia avanti ogni volta che lei si toglie una sottogonna urlando sfrenatezze da Wedekind con vocine acutissime. Di fronte all’ultima gonna, il figlio preferisce ucciderla; e quando la madre rientra dalla spiaggia (esce ogni notte a picchiare le coppie), non le rimane che togliersi la sabbia dalle scarpe, e chiedere severamente di fronte ai morti e al disordine «vorrei proprio sapere cosa significa tutto questo».
(A Roma, poco dopo, fu eccellente l’interpretazione di Laura Adani, diretta da Mario Missiroli con scene di Gastone Novelli, alla Cometa).
Però, gli spettacoli più belli di Broadway sono sempre stati i musicals «tipicamente americani»: esemplari prodotti di collaborazione fra numerosi ingegni, di un divertimento enorme, di una vitalità pazzesca, di una perfezione formale da fare urlare dall’entusiasmo come il melodramma italiano dell’Ottocento.
(Lo stesso rapporto: Arthur Miller nei confronti di un buon musical fa la figura di Vittorio Alfieri paragonato a Giuseppe Verdi). Da Oklahoma! a My Fair Lady, oltre tutto, di un gusto sempre più sofisticato, al corrente con la cultura, le mode, la vita; con ricostruzioni di costume ricchissime, musiche sempre più scatenate, piene di perfida sapienza e d’intelligenti citazioni dei decenni passati, fino ai due capolavori: West Side Story e Gypsy. Per Bernstein e Robbins, che astuta e affascinante contaminazione fra Shakespeare e antropologia e zarzuela e Ben Shahn. Molto più magnetica e magica che nel film: balletto astratto e scenografia realistica e Puccini in agguato… … Rex Harrison inflessibilmente debonair nel suo squisito Sprechgesang fra sublimi toilettes di Cecil Beaton, dame lilla e azzurre che sorbiscono inimitabili cioccolate in imprimés floreali, colonnelli «che stanno bene in frac», pescivendoli cockney epigoni dei portieri shakespeariani nel mercato ortofrutti colo del Covent Garden che negli anni Cinquanta si viveva come le Halles a Parigi o i Mercati Generali romani… Ma basicamente in My Fair Lady non si rivede tanto una Ninetta del Verzee del Porta o La Prisonnière proustiana. Nell’ambiguo scapolo che si porta in casa una minorenne del popolo coi pretesti della filologia e della fonetica, i lettori di Pasolini ritrovano il professorino che batte tra i «fiji de na mignotta» e i «mortacci sua» al Monteverde e al Ferrobedò… Nonché battute rapidamente storiche. Mai più trovato niente di paragonabile alla Merman, nelle riprese anche più tardive di Gypsy. Cose da Callas, Feuillère, Gustaf Grùndgens…
«Il mio lavoro sono le mie figlie!».
«Ma le bambine diventano donne!».
«Non lo sono, e non lo diventeranno mai!»
… E quali demoni vengono fuori «maudits» nel sinistro strip–tease finale, finto, della gran madre furiosa, gelosa, delusa, prepotente… La forza di questi grandi musicals sarà che anche sotto apparenze di evasione e «magia» se la stanno prendendo continuamente con qualche aspetto preciso della realtà contemporanea.
Con una certa audacia di contenuti, un fiato abbastanza epico, una libertà passabilmente crudele. Sono poi enormemente divertenti.
E si capisce che raggiungono successi di pubblico pazzeschi.
Fra i grossi spettacoli popolari risaltano però quelli che mirano oggi ai temi più spregiudicati, meno cheap.
How to Succeed in Business Without Really Trying batte su una fissazione fra le più ingombranti e ossessive del costume americano d’oggi. L’arrivismo aziendale, lo snobismo della «casta dirigente», il dimenarsi in un mondo di grandi uffici dei Rastignac in flanella grigia per arrivare «at the top». E i manuali che insegnano come si fa. Ecco la mania nazionale della parola «executive» usata come talismano passepartout per tutte le mode e le pubblicità «persuasive». Abiti da «executive», scarpe da «executive», vacanze e automobili e ristoranti da «executive», cartoncini d’auguri e giochi per famiglie tutti ormai impostati su variazioni intorno a questa solfa. Lo spettacolo s’apre non per nulla con il protagonista Robert Morse che canta Come aver successo, manuale alla mano, convinto di riuscir subito. Su il sipario: e dietro di lui ce ne sono tantissimi, tutti uguali, manuale alla mano, che cantano la stessa canzone.
Morse è il trionfo dello spettacolo. Forse il migliore attore musicale del momento. Piccolo, forse vecchio, con una faccia tra Robert Kennedy, Mickey Rooney e il ragazzino della copertina di «Mad». Finto–buono, finto–perbene, finto–dolce. In realtà volpino, nascondendo un ghigno malvagissimo. Come fat torino d’ufficio si rannicchia come un gattino, un serpente travestito da agnellino, una faina che vuol passare sotto la porta del pollaio. Fa dei sorrisetti da bravo bambino, falsissimi. Si abbandona contro la spalla dei capiufficio strofinando il ciuffo come un animaletto di Walt Disney che cerca protezione, come un cucciolo che si lecca e si accarezza. Tutta una cagnolineria con la faccia e la lingua e il ciuffo e le orecchie. Compone così un ritratto agghiacciante del cinismo e dell’ambizione e della crudeltà disonesta e senza scrupoli che si possono normalmente nascondere dietro la faccia aperta e pulita del «bravo ragazzo» americano medio. E l’intero musical non è che una parabola scintillante e festosa di una scalata «at the top» gangsteristica e paradossalmente rapidissima di un Julien Sorel da Madison Avenue.
Il noiosissimo mondo dei grandi uffici e dei conflitti carrieristici in un’infinità di romanzi e di racconti tutti uguali diventa allora quasi affascinante. Cori mattutini di segretarie efficienti, ballettoni di dattilografe con carte carbone, gighe dell’intervallo per il caffè, marce di impiegati affettati a passetti, grossi sigari direttoriali, telefonate «personali» della mamma del capo del personale, lamenti serali di «è stata una giornataccia» in fila davanti agli ascensori. E in mezzo, una vera chicca: nei panni del direttore generale, Rudy Vallee, incantevole come negli anni d’oro di Joan Davis e Martha Raye. Beato lui, è rimasto uguale al miliardario in pince–nez di The Palm Beach Story che vent’anni fa accoglieva nella sua cabina Claudette Colbert fresca come una pesca, inseguita in camicia da notte per tutto un treno di vagoni–letto, con cani e fucili, dai vecchi soci ubriachi del Club della Quaglia.
Facendosi strada a gomitate e sorrisi, respingendo in vista della carriera le avances delle dattilografe che cercano di portarlo al ristorante, fischiettando gli inni del college di tutti i superiori, Morse imita sfacciatamente gli hobbies del direttore generale: il gioco del golf, e il tricot eseguito in maniera maschile («due dritti, tre rovesci», in tono rude, lavorando copri–mazze da golf a ciuffettini celesti). Resiste all’amante di lui, una vamp carica di volpi che cerca di sedurlo. Si difende con gli stessi gesti surreali dell’annegato portato a riva; si confonde; la chiama «Sir»; ma finisce per avviarla all’ufficio di un vice–direttore rivale, che allunga la mano e viene prontamente trasferito. Sventa congiure nei lavabi; sorprende consigli direttivi; vola con arpe (in una sequenza del sogno) intorno alla poltrona direttoriale. Deve, certo, combattere contro un rivale smorfioso e capricciosissimo che nulla distingue dal le sorelle cattive di Cenerentola, con trame di mamme e zie che lo appoggiano (sarcasmi anche qui orribili alla mamma).
Ma reagisce pronto.
Finisce, naturalmente, direttore generale. E la musica sarebbe banale, il décor fa piangere, le canzoni vengono ripetute fin troppo, il secondo tempo rifrigge molte cose del primo. Ma Morse e Vallee e il resto del cast s’avventano con tanta verve nel dileggio dei miti che lo spettacolo riesce molto da godere.
C’è un duetto della linea aziendale, tra il fattorino appena assunto e il vecchio impiegato con quarant’anni di servizio, che è puro Olmi: «La tua faccia è una faccia aziendale, il tuo cervello è un cervello aziendale…». «Tutto aziendale, si!… Gli hobbies, il tempo libero… la vita!». Pare la rivista «Il Menabò» cantata dal Quartetto Cetra, con Paolo Volponi e Ottiero Ottieri che dànno la mano a Katyna Ranieri e a Nico Fidenco… E il finale del primo tempo è un gran bel party aziendale, con ogni segretaria che si è comprata un modello francese «esclusivo», e poi sono tutti identici; ne ha uno perfino la vecchia segretaria del direttore che di solito è tutta sulla scarpa bassa, il capello corto, la sahariana da fiduciaria del fascio. Ma appena arriva la vamp, con su lo stesso modello, coro di tutti gli uomini: «Oh, che bel vestito!».
Il finalissimo si prende invece il gusto di profanare anche Il mito supremo, la Riunione del Consiglio d’Amministrazione.
In camera di consiglio il Presidente fa dei tip–tap con i fattorini, le vecchie segretarie saltano sopra i tavoli a ferro di cavallo, e gli «executives» («senior» e «junior») cantano come un pullman di sciatori in gita aziendale al Pian dei Resinelli.
Tutto diverso l’altro grosso successo di questi mesi, A Funny Thing Happened on the Way to the Forum, folle pastiche di commedie di Plauto, di George Abbott, autore di spettacoli dotati sempre di un ritmo stupendo: spesso divertimenti fantasiosi che fanno delle ironie sul presente fingendo di svolgersi «nella notte dei tempi». Come l’indimenticabile Once Upon a Mattress, tratto dalla fiaba della Principessa sul Pisello. La farsa plautina s’apre con una quantità incredibile di invenzioni visive per presentare i personaggi: un gran balletto di porte e finestre, di battenti e persiane; sipari in controtempo, gonne che cascano a ogni squillo di tromba, cappucci che diventano stole, cuffie che diventano reggipetti, tutto si trasforma in qualcos’altro.
Gambe finte alle finestre, sempre qualcuna di meno o di troppo, schiaffi da circo, capriole da jongleurs. Tutto un arrampicarsi sulle spalle, sparir nelle buche, riapparire sui tetti… Un mirabile repertorio di fantasie registiche; ma anche un magni fico protagonista, Zero Mostel, specialista di Joyce e Beckett passato a fare lo schiavo Pseudolus come un Vittorio Caprioli sessantenne ed enormemente grasso, agilissimo e tremolacchiante, stordito e ironico, pieno di trasalimenti e sorprese, furie e abbandoni, ammicchi e languori improvvisi. Labbroni spalancati, tripli menti agitati come bargigli, occhioni sporgenti col potere di far leggere al pubblico ogni pensiero prima che venga espresso. Si fa delle minestrine in tasca. Litiga con l’altro servo Hysterium, suo amico–nemico. Dice delle severità agli spettatori. E nei momenti d’imbarazzo lucida un capitello con il suo straccio, come quando Chaplin «fa finta di niente». «Seguite quell’uomo!» ordina il capitano ai soldati; e Pseudolus rifa il vecchio gag delle false partenze, con gli errori, le giravolte, le cadute, i passi insensati, gli sportelli che sbattono in faccia.
In una Roma che pare una Magna Graecia fra Guttuso e Gentilini, con un’infinità di vecchi caratteristi di Frank Capra sotto folli piume finte e parrucche deliranti, ciniglie e fustagni e braghe di tappezzeria, la situazione basica sarebbe la solita: giovanotto sventato e sentimentale con padre svanito e soprassalti da «vieux gaga», e madre autoritaria e ingorda che fa la matta con un Miles Gloriosus che pare Danny Kaye vestito da Escamillo. E lei, figlia di generale, è una disinvolta abituata a trattare con gli ufficiali che partono per Cuma o tornano da Siracusa. Ma lui la scambia per padrona della casa di fronte, luogo di danzatrici con tenutario che va ogni mattina in Senato a fare i suoi ricatti.
E ha appena comprato una fanciulla rapita dai pirati… Ma le trovate sono ghiotte; ricettari di talismani semipornografici, fatture di «pozioni per le passioni», filtri per far venir sete, la pratica magica dei «sette giri intorno ai sette colli», saluti e parate di soldati grotteschi: un gran bel pasticcione d’odori plautini e surrealtà di Alice e pizzicotti agli Stati Uniti d’oggi.
I «numeri» belli sono tanti. Un duetto dolcissimo fra il giovanotto e la ragazza, vergini tutt’e due: «Non so il tuo nome, però hai delle belle gambe». «Anche tu, anche tu, anche tu!». «Per noi non ci sarà mai felicità…». «Dovremo imparare a essere felici senza!». Una canzone delle «impossibilità delle diverse età», fra padre e figlio. Un gran bel quintetto di vecchi: «Ogni uomo dovrebbe tenersi in casa una ragazza che lavora»; e ne entrano continuamente, per aggregarsi con variazioni, che sono poi descrizioni dei lavori che dovrebbe fare la ragazza in casa, stanza per stanza.
Parecchi numeri sono tradizionali in questi spettacoli, per esempio il dialogo a gesti fra muti che si fraintendono. Il pa dre muto spiega il matrimonio al figlio ingenuo con segni di fiori e api e pollini; e lui finisce per comprargli un vasetto di miele. Un altro padre ha perso una figlia e la descrive disperato, ma nessuno capisce giusto: «che figlio strano deve aver perso!». Il numero di strip–tease è poi frequente, perchè dopo quelli favolosi di Gypsy i musicals cercano di annettersi qualche spogliarello sfrenato e stupendo. Viene inserito nel plot e variegato da lazzi comici per depotenziare la tensione erotica da nightclub. Così la risata esorcizza la carica sexy dello slip di tigre, e lo rende palatabile per le famiglie. Siccome poi in ogni spettacolo americano la casa allegra viene travestita da locale di spogliarelli, qui presentano coi nomi tipo Tintinnabula e Panacea e Vibrata delle cortigiane latino–esotiche tutte da godere: l’indiana con treccia in garofani e sonagli alla caviglia; la nubiana a conchiglie; le gemelle astrologiche a pagodine di chiffon; la nera a noccioline; la rossa in cuoio bianco e ottoni lucidi.
Le ragazze ricompaiono in veli neri a un falso funerale che è una baracconata più frenetica d’una marcia dei bersaglieri di Totò; e con urli e lamenti farseschi fanno le Eumenidi sexy, le Fenicie da «Crazy Horse», in uno scambio di persone totale.
Tutti i personaggi travestiti, corse, urtoni, baci d’addio rifiutati perchè è scoppiata la peste; strilli di eunuchi sui tetti; inseguimenti di cortigiane fuggite; madri di famiglia prese a calci nel sedere; gargarismi di macumbe erotiche. 1 in abiti di nubiana urla «devo liberarmi di questi vestiti!»; ma non ci riesce: quindi, percosse con fruste d’oro da un vecchio licenzioso, e minacce dai soldati per farsi dire dove ha sotterrato una pentolaccia di monete. Pseudolus, travestito invece da eunuco, pesca nel torbido nella casa allegra. Una matrona vecchissima, sulla porta, assicura: «No, davvero, non conosco questo indirizzo».
Il vecchio che fa i sette giri passa sempre più spesso e più stanco. E l’agnizione classica non si può fare, sembra: la vergine rapita e ritrovata è invece un vecchio senatore travestito da bambinaccia per certe sue trame; e si sgola a urlare: «No, non sono una danzatrice etrusca!» di fronte a un vecchio padre in lacrime, deciso a riconoscerlo come figlia adorata rapita con quello stesso medaglione al collo. Così alla fine la quantità di agnizioni è più pazzesca del solito: tutti finiscono sposati o riconosciuti o liberati, con una strip–teaser in premio.
The Boys from Syracuse è la ripresa di un altro Abbott di molti anni fa, con le deliziose musiche di Rodgers (fra cui This Can’t Be Love e Falling in Love -with Love) e la stessa funzionalità scattante.
Lo spettacolo è felicissimo, in un teatrino: una Siracusa tipo una Bisbetica domata di Strehler, ma con vigili di New York; due sorelle elegantissime in veli di nylon, fra palme e clessidre e ancelle che ricamano assurdamente cretonnes; delle Else Albani, dei Paoli Panelli. Cortigiane che entrano da tutte le parti, con un ritmo favoloso; in tacchi alti di specchio, braghe turchesche, ciglia e ombelichi d’oro, cimbali, frange, codine di ermellino, baci sulla spalla, piume di struzzo viola, matite a ombrellino per registrare gli impegni. E tutti gli scambi di gemelli previsti da Shakespeare nella Comedy of Errors. E gran travestimenti insensati: vigili che fanno boleri acrobatici in abiti da Coppélia, eunuchi in cuffia d’oro che buttano le ragazze dalla finestra, folli quadri mitologici con corse di Amazzoni e un Pigmalione vestito come Marcello nella Bohème che porta una Galatea pesantissima in tutù da Lago dei Cigni, cantando la Cavatina del Barbiere.
Niente male è un risveglio delle signore della notte la mattina presto: catini d’acqua sporca e cuscini sullo stomaco, scarpe in mano e parrucche di traverso. E molto bene il mago che fa suffumigi leggendone le formule nell’atlante dell’Encyclopaedia Britannica, la sacerdotessa pitica in costume di Pierrot viola, e un ritrovamento di gemelli che si risolve in un balletto tipo Shirley Temple col maggiordomo nero sui gradini della scala.
Non divertente è invece un altro musical che passa per efficientissimo dal punto di vista del «mestiere»: She Loves Me, con Barbara Cook e Daniel Massey. E un’evasione tzigana, quella via budapestina al vaudeville che impazzò negli anni Trenta con Elsa Merlini e Ivor Novello, e sopravvive oggi nelle operette con Marika Rôkk a Berlino–Ovest. Tutto un calendario da parrucchiere: strada civettuola, mattino, vecchino galante coi baffi, garzone in bicicletta, canzone del buongiorno. Seduttori europei e donne fatali da Cavallino Bianco. Nell’interno della profumeria, su le tende, fuori i piumini, e dentro le clienti in volpi; innamoratini con lettere furtive; padre che ricorda la giovinezza con il suo sorriso e la sua lacrima; valzer tipo «mentre singhiozza un violin / l’eterno valzer divin»… Elegante, fuori dal tempo, sciocchissimo. Autunno, con foglie che cadono. Inverno, con ghiaccioli. L’amore, significa lasciar cadere i pacchetti. La malinconia, è un carillon. L’intrigo è che lui e lei si sono conosciuti attraverso un annuncio sul giornale, come De Sica e Maria Denis in Pazza di gioia. Ma non si sono mai visti, pur lavorando nella stessa profumeria! Si scrivono!
E vivono vicini! Tutto il giorno! E non lo sanno! Quindi gran confidenze, con tutto il personale che partecipa, intrighi, impe dimenti, ripicchi. Viene il giorno dell’appuntamento… Ma non so cosa succede poi, ho piantato lì.
A Biverwind, invece, definito come «una cosina fresca», sono entrato a metà. E ho trovato una commediolina alla Deanna Durbin, in un teatrino cadente, polveroso, provvisorio, scosso dai treni della metropolitana e dagli sciacquoni dei gabinetti. Un bosco, un ruscello, due casine, un’altalena; una coppia spensierata e una coppia con problemini. Sentimentali amarognoli, ma ingenuamente. Non capiscono mai cosa succede. Nessuno si accorge dei propri sentimenti, se non viene aiutato da un altro, con deboli cabalette nel corso delle quali scopre finalmente cosa prova. Oppure con dialoghi fra usignoli e stormir di fronde, tipo: «Mi è capitato qualcosa… qui, stamattina… ho pensato a te… a noi due… sono cambiato, Virginia… tutto cambierà…». Accanto agli spettacoli «adulti», ce ne sono ancora parecchi, di questi.
Questo pubblico americano è buonissimo, generosissimo.
Ama il successo, adora la resistenza, l’oltranza, il non mollare, il tiremm innanz. E venera appassionatamente i suoi miti, le sue «stars», le sue «personalities», anche se stanno lì immobili e fanno poco più di un «ah» o di un «bah»: l’importante è che si mostrino «dal vivo», come nella Notte degli Oscar, per ricevere l’applauso fragoroso che conferisce carisma e rinfocolerà la carriera. Ma l’entusiasmo collettivo si espande fragoroso e smodato nei casi di abnegazione indomita e intrepida, anche a proposito di sciocchezze, purché tutte concentrate e fissate sul Durare e sul Farcela. E l’indulgenza si spinge facilmente al Trionfo, quando le più rinomate dive del cinema, superato il mezzo secolo, passano ad applicare il loro Darci Dentro ad altre attività per cui non sarebbero attrezzate, quali la letteratura o il teatro. Casi da paragonare all’ascensione di Reagan? O ai volumi autobiografici di Britt Ekland e di May Britt?
Per una singolare sorte produttiva, Lauren Bacall – che con la sua figura ossuta e il profilo tagliente potrebbe far benissimo la Falciatrice in una parabola medioevale di Bergman – ripropone invece in «musicals» cavernosi e macabri, e pochissimo musicali, alcune interpretazioni cinematografiche illustri: Bette Davis in Èva contro Èva (anni fa, con Applause), e Katharine Hepburn in Woman of the Year adesso. Operazioni che ambiscono alla «riscrittura», addirittura, e non si paragonano già alla tradizionale pratica per cui nelle parti più succulente si provano successivi attori diversi. Ma è quasi paradossale che la trama di questa trionfale Donna dell’anno sia poi una rinuncia alla Carriera in favore della Domesticità: proprio il contrario di quell’applaudito Darci Dentro professionistico… La Donna dell’Anno sarebbe infatti una di quelle giornaliste «schiacciasassi» tutte tese e protese e spietate nella carriera e nel successo, grande intervistatrice dei Grandi, da Madre Teresa, di Calcutta a Kissinger, con telefonate dalla Casa Bianca, deferenza e invidia dei colleghi, rubriche alla televisione con immenso indice d’ascolto, piglio, grinta, aggressività, anche nei nonnulla, attitudine a «mettere a posto» gli interlocutori non tanto facendo domande e porgendo orecchio a risposte ma «dicendogli il fatto loro» con perentoria raucedine, con feroce arrivismo, e una bersaglieresca prontezza nel sacrificare ogni angolino di privacy o di relax propri e altrui in nome della Retorica del Mestiere. Anche se poi tanto spreco di energie e tanta ostentazione di professionalità risultano chiaramente spropositati: il grande scoop al quale sacrificherà la «prima notte» nuziale è poi un’intervista a uno dei tanti ballerini russi che scappano dal Bolshoi per stabilirsi a New York, cioè un evento fra i più ripetitivi nelle recenti cronache gay.
Lei appare già applaudita e imbalsamata, la sera del Premio appunto, luccicante e cantando «maschio sciovinista figlio di puttana» con voce di nonna alcolica e risentita davanti a un sipario arricciato rosso dentro un arco di lampadine. Si muove con cautela. Tra luci basse e rosse, pare un travesti che rifaccia Irma Gramatica o Alda Borelli, quelle invitte rigide che facevano Ibsen come Niccodemi, e Niccodemi come Ibsen, sempre con una baionetta nella spina dorsale. (O forse è la Nonna dell’Anno?).
Su carrelli che scorrono quatti (madeleine! madeleine! come nelle stesse piattaforme portate trent’anni fa dai vecchi registi di Broadway negli spettacoli della Compagnia Vivi Gioi), ecco i radiosi arrivi all’ultimo momento della Grande Giornalista allo studio televisivo per il telegiornale mattutino in diretta: ma sembra un genio dell’improvvisazione incompetente in occasioni professionali mediocri (un commentino ogni mattina alle sette e mezza? sono cose da Donna dell’Anno? mah). Ma intanto, in una partita a poker fra vecchi amici modesti durata oltre l’alba nello studio di un cartoonist da una «striscia» al giorno, antipatie maschiliste per la commentatrice saputa e saccente che troppo la vuol sapere lunga su tutto. (Né spengono il televisore, che sarebbe così semplice, stanno lì a commentarla, fra valzerotti di maschilismo contro le ostentazioni di femminismo). Così, intanto, monologhi d’attore – Harry Guardino – col gatto protagonista dei suoi cartoons, che appare su grande schermo: come quando, nel vecchio Fantasia di Disney, Leopold Stokowski vero stringeva la mano a Topolino.
Presto la famosa colonnista si invaghisce del rustico cartoonista: ne risulta – al di là delle intenzioni produttive – una cotta fra anziani, un idillio della terza età, fra discussioni inani sul futuro del rispettivo lavoro. (E certo, c’è una vecchia regola teatrale per cui non si deve interpretare la teenager Giulietta se non si hanno quarant’anni e la corrispondente esperienza: sennò si produce una discrepanza audiovisuale fra i musini freschi e le battute «vissute» di Shakespeare… Ma è anche imbarazzante imbattersi in una signorina sui sessanta che cinguetta piani di matrimonio e carriera con voce attempata).
Secondo i rigidi canoni convenzionali, i due si incontrano per caso, si trovano antipatici e se lo dichiarano quasi abbaiando (lui le aveva fatto addirittura un cartoon contro). Ma presto si arriva al dialoghetto melenso fra luci basse, alle confidenze avvinazzate sui matrimoni precedenti, e un tenero ballo–a–due «vecchio stile» con dietro i gatti che mimano sullo schermo mentre lei non cita più Solzenicyn in vista di un’intervista, bensì Kierkegaard, «come è assurda la vita». E lo va addirittura a cercare nella taverna alla buona dove si intrattiene con giocatori di carte, sportivi col berrettino, e il barista che la sa lunghetta.
Tutto sul sicuro, collaudato, niente di nuovo, tutto appartenente al repertorio: anche il segretario di lei, naturalmente un po’ checca, e la fedele cameriera, naturalmente brontolona, con accento tedesco («tutto schnell schnell in questa casa, tranne gli aumenti di stipendio»).
Ma lei sempre aggressiva, sempre cavernosa, sempre ad alto voltaggio, mai riposante, mai rilassata, incessantemente impegnatissima in «discussioni di lavoro»; ed evidentemente incapace di organizzare il proprio tempo. Dunque, cantilena delle serate già tutte prese da incontri professionali (ma non è un vero cantare: piuttosto, un parlottarsi addosso dentro un fondale di valzerucci), e l’inopinata decisione di maritarsi, per stare un po’ insieme. Però lo champagne nuziale verrà bevuto dal marito e dal russo fuggito, mentre lei ticchetta alla macchina da scrivere.
Si sono conosciute signore che conducono personalmente imperi finanziari, eppure sono fuori quasi ogni sera a pranzo, freschissime, dicendo che durante il giorno hanno fatto poco o niente. Lei no: fa assai pesare il suo lavorar troppo, interviste e rubriche vengono menzionate fino all’incubo, tratta male il marito, incominciano presto i bisticci e i ripicchi noiosi, e anche le villanìe tipo «cosa puoi avere di così importante da fare, tu», buttargli via i vestiti, comprarglieli nuovi senza chiedere come li vuole, combinargli ricevimenti utili ma insopportabili, e se lui domanda «dì a tutti che ho un altro impegno», rispondergli «e chi vuoi che ci creda?». Una megera. Una rompiballe.
Non–coreografie modestissime, con movimenti elementari e banali; e lei, fumante di energia ma non nata per la danza, quasi immobile in mezzo. Duettini fra il segretario e la cameriera, che commentano tradizionalmente i malintesi padronali, mentre lei corre come una mentecatta da una serata d’onore a un premio a una cerimonia a una coppa, ingordissima di riconoscimenti e affermazioni. Sempre prontissima, sempre pettinatissima, sempre tesissima e disposta a tutto, con l’ostentazione del mai riposarsi, l’orgoglio del non dormire; avvinghiata ai soldi, alla carriera, al successo, alle cause per indennizzi e risarcimenti; petulante, arrogante, implacabile, incapace di un sorriso non meccanico e infliggendo agli altri tutto il proprio stress.
Lui si rifugia nel suo bar, lei lo perseguita col «dobbiamo parlare, parliamone, perchè non vuoi parlarne». E non si capisce neanche per un momento che cosa li potesse spingere insieme, se non la solitudine e la superficialità. «Ho scritto un libro…» canta lei, ed è un libro di quelli che insegnano tutto, come arricchirsi, come tenersi in forma, come farsi degli amici… Ma non funziona proprio. Il russo torna in Russia, spiegandole che il lavoro non è tutto, c’è la vita! (E lì, danza russa, di quelle sulle ginocchia che strappavano l’applauso obbligato nelle vecchie riviste, e anche qui). E continuano a ritornare le vecchie scene e le situazioni già viste, giacché è cosa ripetitiva.
Ma dopo una visita all’ex–marito che vive molto semplicemente in Colorado con una nuova moglie – bravissima e applauditissima in una tiritera lagnosa sulle cose meravigliose nella vita rustica: il numero migliore dello spettacolo – la gran rompiballe annuncia di sorpresa nel suo programma televisivo la decisione di ritirarsi in casa e cucina. Come se non fosse possibile gestire insieme marito e carriera. E come se non fosse un po’ imprudente ritirarsi dal lavoro alla vigilia della pensione. Nel finale, tornano i cartoni animati dei gatti. Ma non ci spiegano che cosa faranno adesso quei due. Bambini? A sessant’anni? Oppure i pensionati, su una veranda a Miami?
Se però la Bacali risulta affranta da questa lotta contro un non–testo, un’altra «personality», Elizabeth Taylor, sembra esausta dallo sforzo della non–recitazione. Sarà una coincidenza con l’èra Reagan se Broadway prospera e le vecchie volpi tornano fuori? Questa combinazione – Little Foxes — fra Lillian Heilman e la Taylor, certo, ai tempi del maccarthysmo sarebbe parsa improbabile, quando l’una era l’epitome di tutte le abnegazioni indomite della sinistra in odor di stalinismo, e l’altra era mascotte e feticcio della middle class più cioccolatosa e dolciastra.
(Del resto, da decenni Brecht è un monumento sul quale i passanti generazionali lasciano graffiti e magari sberleffi. E Dario Fo, come già il Carducci nell’Italia della Regina Margherita, si studia nelle università meritocratiche, si traduce e si premia all’estero, si include nelle antologie).
Con l’ombra di Bette Davis sempre sullo sfondo, Piccole volpi è un vecchio dramma positivistico che pare il nonno dei Corvi di Becque. Ecco applaudito a scena aperta un fastoso salotto rossastro (fra il magenta e il vinaccia e il pulce, colori caratteristici per il fasto internazionale nel decennio in cui Parigi, per guerra prussiana e Comune, aveva cessato di esportar moda–novità, e il gusto americano doveva arrangiarsi da solo). Ivi maggiordomo e cameriera neri spiegano presupposti e antefatti come nel vecchio teatro inglese; e viene a spiegare un po’ anche l’eccellente Maureen Stapleton, cognata bonaria e ansiosa, con recitazione simile a una Rina Morelli corpulenta in una Filumena Marturano.
Di là c’è un pranzo di famiglia; ed ecco venirne la Taylor, in pizzo rossastro e con la massima cotonatura mai vista. Gli avidi congiunti le si dispongono vistosamente intorno, tipo sciacalletti, in conversazione microfonata e alticcia, su parecchie poltroncine sparse in un atrio–salotto con un solo divanino. Come casa facoltosa, è strana: l’ingresso è un corridoio tortuoso, il vano–scala serve come soggiorno, la tavola non viene sparecchiata dopo il pasto malgrado la servitù di colore, nè viene chiusa la porta della sala da pranzo (forse per segnalare che sono degli ordinari?). Parlano solo di interessi, di soldi: è un feuilleton naturalistico sulle eredità contese; e si tratta di far tornare a casa il ricco marito di Regina, la Taylor, malato in clinica, per cavargli con qualunque mezzo le grosse somme necessarie e urgenti per le speculazioni e i debiti dei fratelli di lei. (Non si muove dunque passo, nè si batte chiodo, al di qua del Padrone delle ferriere e del Romanzo di un giovane povero). Complicate e verbose transazioni: prestiti, garanzie, scadenze, coupons, non si parla d’altro, noiosamente, con l’accento del Sud. Ma lei, con la sua vocetta: «Farò la gran vita nel gran mondo!». (Incominciando a cinquantanni? Mah).
Molte Liz nel pubblico: tutta una generazione di occhioni viola e ricciolini neri sulla fronte. Ma la recitazione della Taylor debuttante è curiosa e simpatica, perchè è un birignao «classico» stranamente moderno. Non, cioè, un birignao proveniente dalla tradizione, dalla scuola, dalla storia, dalla biografia, dall’esperienza o magari dall’essenza. E uno di quei neo–birignao contemporanei costruiti e impostati meccanicamente, da registi come Ronconi a Prato, e affidati ad attori che hanno tutt’altra formazione e una diversa storia, anche non privandosi di effetti facili e sicuri: il passaggio repentino dalla soavità affettata alle urla prepotenti, appoggiature e carrettelle ben note e garantite.
La commedia è già tutta smaccata e scontata nel testo, e la regìa sottolinea ed enfatizza: ci si aggira come rapaci inquieti fra Sardou e Bernstein, ed ecco i segreti foschi nelle famiglie abbienti, i matrimoni combinati, i misteri delle cassette di sicurezza, e che bene gli schiaffi coniugali in fine d’atto, con la cameriera nera testimone silenziosa di misfatti.
Vanno a letto tardissimo dopo cene abbondanti, e si svegliano prestissimo per breakfasts interminabili, sempre discorrendo noiosamente di investimenti e di debiti. Continue scene–madri intensamente affrontate. Caratterizzazioni di cattiverie approfondite con cura bambinesca. L’arrivo del malato (Regina ha mandato la figlia affezionata, per convincerlo) è l’epoca eroica di Ruggero Ruggeri, nonché di Giulio Stivai, Giulio Oppi, Giulio Donadio. Ma gli altri saltano addosso all’infermo come nel teatro dialettale: Govi, Musco. E non sottili, anzi grevissimi. Al confronto, i libretti «veristi» di Mascagni e Leoncavallo risultano lievi come soufflés. Ecco le scadenze febbrili delle cambiali disonoranti!
Ecco il cardiopatico ricaduto nelle sgrinfie della megera.
Eccoli lì, che si scannano fra consanguinei! E finali d’atto con «crepa! e dunque crepa, ché non aspetto altro!».
Che drammaturgia. Cose che la D’Origlia–Palmi non fa più da un pezzo (ahimè). E melodramma strappalacrime, con la zia Stapleton corpulenta e ubriacona che singhiozza alla nipote: «Tu sarai anche più infelice, perchè almeno io ho una mamma da ricordare con affetto!»._ Rapporti tutti asprezza e durezza: «Non mi piace, mio figlio! E uguale a suo padre!». «E ti costringeranno a sposare quello!». E giù vendette a lungo covate, e avanti con le minacce e i ricatti sui soldi. Coccoloni vistosissimi con sintomi clinico–realistici, la mano al petto, l’urlo soffocato, l’occhio che strabuzza, lo stramazzar plateale. E lei, con la sua vocina, come in un Piccolo mondo antico o moderno rivisitato da Patrice Chéreau: «Ho sempre avuto per te solo disprezzo, ti ho sposato per solo interesse». Indifferente, insignificante, composta, calma, col suo piccolo birignao «fabbricato» dentro l’impianto pesantemente naturalistico… La famosa scena delle pil lole (lei le allontana dal marito che rantola nella crisi fatale, e Bette Davis la risolveva nel celebre film in marmoreità statuaria) è un iper–Zacconi che va al di là di Teresa Raquin con gli spasimi agonici della paralitica muta, per raggiungere finalmente il «lo farò morire di sete!» della Regina di Biancaneve nei confronti del guardiacaccia che le ha riportato – in apposito cofanetto – «il cuore di un capretto». È l’èra delle megère!
(Bellezze, ex–bellezze, presenze, carismi, icone, dive, miti, stars, personalities; però anche attrici? Mah). E intanto l’agonizzante casca, ricasca, sale gradini aggrappandosi a Sardou, a Henry Bataille, crolla, accorrono i servi neri, sopraggiunge la piccina in pellegrina… E insomma, come dicevano le nonne e bisnonne in campagna: dopo una certa età, è prudente non far le scale, e dormire al pianterreno.
Lillian Heilman pare un Matarazzo o Mattoli più andante.
Fa sul serio quei melodrammi «camp» alla Douglas Sirk che divertivano tanto sia ai cinema pomeridiani di ieri sia alle attuali tv notturne: Donne e veleni, Amanti crudeli, Magnifica ossessione, Come le foglie al vento, Fiori nel fango… Spesso con una Patricia o una Dorothy che danzano selvaggiamente fra grammofono e bourbon infilandosi ninnoli o pannocchie qua e là, mentre un riverito Grandpa stramazza per le scalee d’una magione sudista fra le braccia di un Rock o Bob con berrettino girato.
E qualche solitajane o Jean o Joan o Lauren, fidanzata di un maniaco a corto di invenzioni, tira su naso e laringe in una serie di profili più o meno guitti.
Così, intanto, giù abbondanti e insaziabili liti e accuse fra congiunti stretti! Sempre minacce! Nuovi ricatti! Regina–volpi contro volpi – diventa una vera belva: il birignao si fa gelido quando diventa creditrice dei fratelli, vuole il 75% con vocine e con vociacce, e la cotonatura sempre a posto (nella definizione degli stylists: «pompadour»). Ma la figlia le si rivolta contro, anche più volpe – è il contrappasso! – ribattendole addosso le stesse angherie da lei inflitte al marito. Che giuggiole, quelle battute da vecchio melodramma, su e giù per la scala importante. «Non vogliamo essere cattive amiche, vero, Alexandra?».
«Dormi, ti prego, Alexandra, stanotte, con me». Ma la piccola è peggio di lei. «Sei tu, ad aver paura, vero, adesso, mamma?». E Liz risale la scalea, maestosa e distrutta, ma con la sua pompadour impassibile. Come arrivando – cotonatissime da un maestro parigino – lei e Grace Kelly in piedi sulle lance, sotto la pioggerella autunnale, nella gran ressa acquatica davanti a Ca’ Rezzonico per l’estremo Gran Ballo in costume e in maschera, nel fatale 1967. (Però, in seguito, comme die come questa possono venire interpretate chez nous soprattutto da Paolo Poli).
Più in là – dopo innumerevoli altri spettacoli che prolungherebbero questi referti – ancora l’eccellente regista Harold Prince e il sensazionale fantasista Joel Grey trionfalmente esumeranno alla New York City Opera la rarissima opera Silbersee (qui Silverlake, cioè «Lago d’argento») di Kurt Weill. «Una fiaba invernale» su libretto di Georg Kaiser, rappresentata a Lipsia nel febbraio 1933: tre settimane dopo l’ascesa di Hitler al potere, e tre altre prima dell’espatrio definitivo di Weill.
Tutto molto riorchestrato, adattato, tradotto. Ma un vecchio editore che assisté a quella «prima» non la trova molto infedele: solo con un finale troppo ottimistico, all’americana. A noi parrà piuttosto di ritrovare l’aura «anni Quaranta» delle edizioni Rosa e Ballo. Dirige Julius Rudel.
Ci si ritrova mirabilmente in una «parabola esemplare» fra Chaplin e il Puntila brechtiano e i fantastici mostri della Nuova Oggettività fra Grosz e Dix. Uno stupendo sistema polivalente e multiplo di pannelli luccicanti e senza peso, con infinite possibilità di trasparenze e dissolvenze e riflessi, e una perfezione tecnica incessante, leggerissima. Davanti ad alberi spogli di «monete del papa» bianche e secche, il Lago d’Argento sarebbe una piscina–giocattolo con interno di plastica scintillante; e anche una comunità di barboni buoni che vorrebbero bruciare la Fame in un falò, fra brusii vibrati e incalzanti. Però la Fame erompe rossa e medioevale dal fuoco, e mima ogni azione malvagiamente.
Guidati da Severin, un leader corpulento e barbuto come i nostri Curcio e Pavarotti, i barboni invadono un elegante negozio nella città dei ricchi, dove due commesse in permanentina platinata spiegano la domanda e l’offerta e il plusvalore della merce in uno splendido duettino melodico–acido a zaffate di valzer e tanghi. Ma durante l’esproprio proletario, eseguito come un quadro di Ben Shahn, l’omone si invaghisce di un ananas; e due luci acutissime fanno toccanti primi piani del faccione e del frutto, mentre struggenti cori interni evocano spiagge esotiche, palme, Dorothy Lamour.
Tutti fuggono con succulente vivande nei sacchi, e si salvano, tranne l’omone che incappa, col suo ananas, in un dazio militare terribile, dove enormi ufficiali intimano di sparare sul ladro a un omino piccolissimo, la guardia Olim: appunto Joel Grey, non solo chapliniano ma autoritratto macilento di Egon Schiele. Con le due mani sulla pistola, tremando, l’omino spara, ferisce a una gamba l’omone, e quindi si abbandona a rimorsi strazianti.
Ma arriva un sontuoso Messaggero, come nel finale dell’ Opera da tre soldi: annuncia all’omino che ha vinto un enorme primo premio alla lotteria, dunque entra a far parte della classe agiata. Gli consegna un manualetto per ricchi, stuoli di camerieri lo abbigliano in frac (su tangacci da Mackie Messer nel bordello).
Ed eccolo proprietario di un castello venduto da una perfida nobile impoverita, che rimane come direttrice di casa e di signorilità, macchinando trame vendicative.
Olim corre all’ospedale (tra medici alla Christian Schad) a prendere Severin azzoppato, e lo porta al castello senza dirgli perchè. Ecco dunque una tipica coppia chapliniana e brechtiana (Puntila e il servo Matti): l’omino buono che è un ricco expovero, e l’omone trattato da ricco senza esserlo. Ma cupo e inconsolabile.
Non gli piace niente. Rifiuta tutto. Vuol solo ritrovare chi gli ha sparato. E l’omino trema. Pranzi da Borghese Gentiluomo, balli di cuochi con manicaretti, anticipi musicali del Rake’s Progress di Stravinskij. Macché: l’omone in poltrona a rotelle prende a coltellate perfino gli ananas più mirabolanti.
Arriva al castello una poverissima Micaéla da Carmen, in pellegrina da Due Orfanelle, assunta dall’omino perchè consoli l’omone, e ricattata dalla malvagia perchè ne scopra i segreti. Lei suona dolcemente l’arpa, ma non commuove Severin neanche con la danza dei panini di Chariot sulla tavola, che diventa un fox–trot dell’omino con la Fame. E quindi, con uno di quei gran gesti che legavano l’espressionismo all’antinazismo, ecco una Morte di Cesare anti–hitleriana per arpa e contralto: svillaneggiamento della Morte di Cleopatra di Berlioz in stile Jenny delle Spelonche.
Fra trattenimento e incubi, il gran banchetto funestato appare ben modellato sul Macbeth verdiano. (Provocando il precipitoso esilio del compositore).
Olim agitatissimo si lascia sfuggire con la vergine commossa che fu lui a sparare. Ma la tremenda origliava dietro la plastica, e prepara trame notarili per riavere il castello col suo sconcio amante, vecchio porco uso Weimar, grugnendo «Siam volpi! siam tigri! i poveri sono conigli!» tipo «Soldati e bombe» nell’Opera da tre soldi. Ma i poveri irrompono, liberano la piccina reclusa («non son coniglietta!»), e Olim imprigionato fra trasparenze glaciali che fanno gabbia di Eichmann ridisegnata da Francis Bacon. Ma intanto i barboni rivelano a Severin che il suo feritore è il suo benefattore!
Ormai, però, l’omone e l’omino sono diventati talmente amici che scatta un duettone di solidarietà proletaria autentica.
Altro gran momento teatrale, tango fra i due, l’omone su un piede solo per colpa della ferita. «Lo vuoi tu questo castello?».
«Fossi matto, non vogliamo castelli!». E partono con solo un sacco d’argenteria.
Ma verso il Lago d’Argento, ecco la foresta e la nevicata del Cristallo di rocca di Adalbert Stifter. L’omone non ce la fa più, e l’omino lo ricopre col sacco, buttando via i candelabri e le appliques.
Ed ecco il Lago, gelato, con la piccina che li aiuta intrepida, gli amici li circondano, la Fame soccombe alla solidarietà umana, sorge un grande meraviglioso albero carico di frutti luminosi, e il pubblico si commuove. Cosa che Brecht non avrebbe certo amato, ma tutti gli autori di «fiabe d’inverno» invece sì.
Sì, soprattutto la musica ha i suoi fatali oggetti di «culto». Benedetti Michelangeli, la cui fama si accresce ad ogni concerto che non fa. (Oppure fa, ma con Celibidache a Monaco). Magda Olivero, inseguita nelle estreme apparizioni (dal Metropolitan a Verona) da una setta d’ammiratori più esclusivi e segreti dei «vedovi della Callas». Carlos Kleiber, già bene avviato a una fama di lupo solitario che esce dalla tana solo quando ha fame, magari a Cagliari… Ma Vladimir Horowitz è stato la Greta Garbo del grande concertismo novecentesco, e la sua riapparizione in pubblico dopo decenni di eremitaggio a Manhattan sprizza ancora il virtuosismo demoniaco della gran tradizione sulfurea dei Paganini o Liszt. Anche con qualche Belzebù russo in più: quelli del Maestro e Margherita di Bulgakov, e diavolini assortiti di Belyi e Sologub. Però la nuova magia leggerissima e quasi «casual» del vecchio incantatore dissolve e dissipa le accensioni e gli abbandoni dei virtuosi decadenti (come lui stesso, un tempo, o magari or ora). E come civetteria sapientissima offre piuttosto la quotidianità del trascendentale. La freschezza di una «prima esecuzione rivelatrice» di Chopin. La profondità nitida e soave del far sentire «tutto ciò che c’è dietro»: per esempio, con tocco e pedali sofficissimi e astuti, la finta semplicità perentoria del cosiddetto Sogno di Schumann.
Protagonista, neanche più la tecnica; e men che meno le «emozioni», circonfuse di fantasmagorie al crepuscolo; ma, eminentemente, il suono. Quale storia interna del suono pianistico rivisitato, anche all’indietro.
I programmi di Horowitz… Al Lincoln Center, davanti a un pubblico un po’ zarista, un po’ ebreo, un po’ beatle, un pochino post–moderno, il suo menu ricorda certi pranzi di cuochi virtuosistici e passionali: venti antipastini squisiti, seguiti come bis da tre mirabolanti desserts fra il vertiginoso e il Kitsch (e probabilmente composti non da Skrjabin o Rachmaninov ma da «Volodia» medesimo). Ed eccoci sulla strada maestra di Mosca o Pietroburgo nel cinema più delirante… A Londra, dopo avere attaccato un God Save the Queen alla maniera di un discepolo beethoveniano diligente di Wilhelm Backhaus, per l’ingresso del principe Carlo, il leggendario e scherzoso concertista esegue sei sonate di Domenico Scarlatti come se un allievo intelligentissimo di Maurizio Pollini svolgesse un corso appunto su Scarlatti quale anticipatore geniale e feriale del primo Beethoven e dello Chopin meno serale, ove un cristallo di remoto clavicembalismo scintilla, e talora fiammeggia, in taluni valzerini accantonati… E di qui potrà divampare il mefistofelico Rachmaninov della Seconda Sonata, alla Scala, fra uragani di applausi «carismatici»… Però intanto è stato indicato che ci si sta avviando, volendo, non solo al pompierismo e al technicolor ma a certe rarefazioni della Nuova Musica postviennese… «… E pensare che Trotzkij li chiamava i migliori figli della Rivoluzione: Horowitz, il violinista Heifetz, il violoncellista Piatigorskij» sorride Isaiah Berlin, nell’intervallo. Aggiungendo subito: «Aveva ragione Trotzkij». Ma l’ultima volta che incontrai Horowitz dopo i trionfi, sedeva con la moglie Wanda Toscanini e il suo agente da Mortimer’s, un ristorante molto yuppie presso Madison Avenue. E proprio al primo tavolino in vetrina, osservando divertito i frivoli di mezzanotte che se lo indicavano.
Era senza neurosi, vispo come un folletto, e quando gli ho fatto gli auguri di Pasqua Russa ha risposto allegro: «Ma la stiamo già festeggiando!». Era infatti un Giovedì Santo. Però Wanda non ne poteva più. «Aiutatemi a convincerlo, non vuole andare a dormire».