WOODY ALLEN

Fino a pochi anni fa, Woody Allen era un geniale comico da cabaret tutt’altro che delizioso, anzi volutamente angoscioso.

Interpretava inesorabilmente se stesso, rappresentandosi quale brutto goffo esasperato ragazzo ebreo di Brooklyn giunto alla sommità dei più raffinati studi rabbinici solo per franare preda lunatica e gracchiante di tutti i più stravaganti disturbi immaginati dai discepoli eretici del Dottor Freud, per i traumi e le frustrazioni della convivenza umana e culturale a New York.

Il suo successo in allucinanti night–clubs imbottiti come gigantesche bomboniere era dunque un fatto squisitamente urbano, metropolitano. Lo sostenevano un’eccellente tradizione locale di teatro comico yiddish, caratterizzato e «dialettale» come quello dei De Filippo, e insieme un gusto saturnino per le citazioni alla moda «obbligatorie» fra l’intellighenzia cosmopolita, accompagnate da spiritati sberleffi, irrefrenabili. Infine, un temperamento parossistico – e aforistico – paragonabile al sublime Groucho Marx. («Non riesco a credere nell’aldilà, però è meglio portarsi dietro un cambio di biancheria». «Mi hanno tirato una Bibbia. Mi ha salvato la pallottola che tenevo sul cuore». Può venire in mente addirittura Karl Kraus…).

Ma la fama di Woody Allen si accresce presto in parecchie direzioni, con le apparizioni televisive, le commedie a Broadway, le collaborazioni letterarie al «New Yorker»: parodie sul sesso, sulla morte, sui film dell’alienazione. Poi i primi film «d’au tore»: Take the Money and Run, What’s Up, Tiger Lily?… Era pura delizia Bananas, un frenetico «torte in faccia» su paradossali dittature sudamericane. E poi addirittura il trionfo, con due opere nuove a distanza brevissima.

In Play it again, Sam, il titolo non c’entra, e non c’è dentro quasi niente. Come nei film di Totò. C’è lui, un gran comico, e basta, ma la canzone che questo Sam dovrebbe suonare ancora sarà certamente un motivo degli anni Quaranta, giacché il protagonista è posseduto da un feticismo per l’Humphrey Bogart di Casablanca molto affine alle ossessioni Kitsch di Manuel Puig per la Rita Hayworth di Sangue e arena. In un appartamentino molto disordinato di San Francisco, l’omino represso viene abbandonato dalla moglie con mortificanti dileggi che finiscono in un «niente di personale, s’intende». Ma lo consolano due care consuetudini. Ha una giovane coppia d’amici: marito molto indaffarato, molto al telefono per comunicare i numeri successivi dove si può chiamarlo durante la serata o il weekend; e moglie graziosa con un gran daffare per trovargli una brava ragazza, prima di finire per cascarci lei.

Inoltre, l’adorato fantasma di Bogart lo visita continuamente, suggerendogli modelli di comportamento da «duro», con esiti catastrofici. Basta vedere che virtuosismi di gran scuola comica riesce a fare Allen asciugandosi i capelli col phon vicino a un armadietto troppo pieno di medicinali; o cosa gli càpita durante una disinvoltura al grammofono, con puntina che scivola sul disco e disco che scappa dalla busta come un piatto volante. Fra i momenti più convulsi dal ridere, gli sforzi per far tacere un carillon dentro un pacchettino mentre l’amico gli fa una confidenza intima; lo sfogo di Viva, superstar pornografica di Andy Warhol, che si avvinghia ai divani dichiarandosi ninfomane insaziabile, ma non appena lui la sfiora con un dito lo gela: «Ma per chi mi hai presa!». E nel finale, rimescolato con quello di Casablanca, all’aeroporto di San Francisco lui si congeda tristissimo da Ingrid Bergman nel vecchio film, mentre i due amici decollano oggi con un apparecchio a elica… La più recente extravaganza di Woody è un successo immenso.

Si chiama Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere, come lo sgangherato bestseller di un Dottor Reuben, e ne sbeffeggia i capitoli più mentecatti con una verve che devasta l’intero filone librario della divulgazione portentosa.

Il film ha parecchi episodi non indegni degli incomparabili Fratelli Marx.

In «I travestiti sono omosessuali?», un baffuto commerciante identico a Gino Cervi nei panni di Peppone va a colazione con la moglie e la figlia dal fidanzato di questa. Mentre i futuri suoceri parlano di come ci si veste in crociera e degli interessanti manufatti acquistabili dai primitivi, lui scappa di sopra col pretesto del bagno, apre gli armadi, indossa gli abiti della signora, e comincia a passeggiare felice davanti agli specchi, in cappello e borsetta, dandosi delle vigorose aggiustate alle mutande di satin. Ma per un timore improvviso casca in giardino, e viene subito scippato da un teppista in motoretta. Si trova dunque al centro dell’attenzione, in un crocchio di poliziotti accorsi e di signore che si lamentano della delinquenza del giorno d’oggi. Mai stato così felice! In falsetto, coprendosi i baffi, condanna la mala educazione dei giovani, e torna soddisfatto alla sua colazione.

In «Esiste la sodomia?», un importante medico internista riceve un paziente insolito, un pastore armeno venuto in visita dai parenti a New York, e disperato perchè amava teneramente e ricambiato una pecora, Daisy, l’aveva anzi portata in America con sé, ma da qualche tempo lei non lo ama più: lo si intuisce da mille piccoli particolari. Prima stralunato, il medico s’invaghisce a sua volta della pecora Daisy, la porta via scorrettamente al pastore, e comincia con lei una vita di lusso. La conduce nei grandi alberghi, dove ordina champagne, caviale, ed erba fresca; le regala calze nere e collane di diamanti, finchè la moglie si insospettisce (lo vede distratto, lo scopre che accarezza un golfino di lambswool…), e lo fa sorprendere in flagrante adulterio da poliziotti e avvocati. Al processo viene condannato, perchè vien fuori che la pecora ha meno di diciotto anni.

Rovinato, il poverino discende tutti i gradini della scala sociale, e finisce sui marciapiedi della Bowery, fra i barboni, a ubriacarsi con lo spirito per lucidare i mobili.

La comicità maniacale delle invenzioni di Allen sembra inesausta, non appena si avvicina al sesso. Ha uno sketch medioevale col buffone di Corte che non riesce a far ridere, perchè ripete al re: «Che cos’è un nero–bianco, nero–bianco, nero–bianco? una suora che ruzzola per le scale!». Però desidera pazzamente la regina, la stordisce con un succo di pompelmo affatturato e fumante, ma la cintura di castità non si apre; e prova prima con un temperino, poi con un attizzatoio, poi con un’alabarda… Ha uno sketch italiano, girato come Antonioni, con persone molto lontane fra loro che si sussurrano delle profonde sciocchezze contro pareti chiare molto eleganti e soprammo bili di design modernissimo: si tratta del dramma d’una signora che riesce a provare qualcosa per il marito solo in pubblici esercizi estremamente affollati, in casa no… E c’è lo sketch dello scienziato pazzo, con John Carradine in un maniero vittoriano pieno di strumenti demenziali come il laboratorio di Metropolis: tenta di trasferire il cervello di una lesbica nell’organismo di un impiegato ai telefoni, ma scoppiano le bombole nell’allevamento dei piccoli Frankenstein, scappa tutto il silicone, e gonfia un enorme seno femminile, alto decine di metri, che incomincia a percorrere le campagne spargendo morte (spruzzando latte), e la polizia non riesce a capire dov’è finito l’altro. «Non vanno a due a due, di solito?» si chiede lo sceriffo perplesso.

Il finale – «Cosa succede durante l’eiaculazione» – è un trionfo del surrealismo applicato alla fantascienza. Ecco l’intero corpo umano visto come immensa organizzazione tecnologica: nel cervello, una équipe manageriale di ingegneri in camice bianco, circondati da cruscotti e pulsanti, e l’irruzione ogni tanto della Coscienza in vesti di clergyman. Con quadranti e telefoni comunicano le disposizioni alle squadre ai gangli: gasisti e idraulici in canottiera, che bestemmiano azionando carrucole e aggiustando tubi nella melma. Tutti sereni in tuta bianca, come paracadutisti ottimisti, gli spermatozoi attendono il lancio.

Solo Woody recalcitra terrorizzato. Borbotta: «Ho saputo certe notizie sull’uso dei contraccettivi…».

America Amore
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