LA CITTÀ VISIONARIA

Off Washington, via New York; e di lì poi a farmi un bel bagno nel gelido Atlantico, sul North Shore del Massachusetts (le spiagge «bene» di Boston). Prima però, siccome è già arrivata la sera, ho il divertimento d’accorgermi che i giardinetti bui proprio davanti al cancello della Casa Bianca sono uno dei posti più malfrequentati della nazione, dopo una certa ora. Tutto un traffico tra i vialetti e i cespugli, un cicaleccio Luigi XV in mezzo a eucalipti e pagode: Milano al confronto è niente, intorno alla Fiera, come del resto Roma alle Belle Arti, o Londra a Earl’s Court, o Mosca davanti al Bolshoi, perchè qui a Lafayette Square se ne vedono di tutti i colori, non di un colore solo.

Sull’aereo sono seduto vicino a una disinvolta di mezza età, non ben fatta però ben messa, che come prima cosa mi fa, con dei gran denti in fuori, «Mi chiamano la Contessina Dracula, ma il mio nome è Marie–Celeste», e giù whisky con succo d’arancia e grapefruit, molto buono. Disinvoltissima: camicetta con titoli di musicals (e quindi My Fair Lady, Brigadoon, Damn Yankees, The Music Man), gonna con titoli di canzoni (e allora This Can’t Be Love, The Lady Is a Tramp, IHate Manhattan, Have You Met Miss Jones). E pantofoline un po’ turche – subito se le mette, appena seduta – con nomi di località alla moda, tipo Copacabana, Virgin Islands, Las Vegas.

Appunto da Las Vegas sta arrivando, perchè lei è di Bournemouth, Inghilterra (dove torna appunto adesso, va a New York per imbarcarsi sul Queen Elizabeth), però ha tanti amici dappertutto, in ciascuno degli States, specialmente a Los Angeles, e così un anno sì e uno no li va a trovare, e fa il giro. Allegrissima: «Tutte cantando» dice «le abbiamo fatte, le sei ore dì macchina da Los Angeles a Las Vegas, e con le mie vecchie canzoni sporche li ho tenuti su tutti, per tutto il tempo, ho smesso solo per i dieci minuti che siamo scesi a prendere il caffè». E andata senza il marito, perchè lei ospita gratis troppa gente nell’albergo che hanno a Bournemouth: specialmente ballerini e cantanti, che lei ama tantissimo. Anche gli sport la attirano molto, «… specialmente il baseball, ma preferisco vederlo alla televisione, così intanto si possono fare anche delle altre cose…», e dopo mezz’ora è diventata molto amica di tutti i passeggeri.

«Don’t you have les vapeurs, ma petite?» le chiede alzandosi in piedi al momento di scendere a LaGuardia una vecchia altissima che stava zitta nel primo sedile vicino allo sportello, piena di nastrini di velluto rosso fra i capelli bianchi e con tre ricchi orologi da polso, uno sopra l’altro; e così si viene a sapere che viaggia con la sua mamma.

Dall’aeroporto LaGuardia al centro di New York si fa in meno d’un’ora; e la cosa più bella da vedere qui, il meglio che l’America abbia prodotto insieme a qualche tipo umano perfettamente splendido e senza cervello, saranno pur sempre i grattacieli, meravigliosi in ogni momento, fin dalla prima volta che si vedono quelli di Wall Street lì in fila, sull’orlo dell’isola di Manhattan, quando si approda col transatlantico (ed è sempre all’alba, e ai raggi del sole loro cambiano di colore dal grigio all’azzurro al rosa). Ma appena dietro il gruppo di Wall Street, che sono proprio i primi e son pochi (quelli che si vedono in tutte le cartoline, con la nave davanti), ce n’è una quantità grandissima, sparsi per tutta la lunghezza dell’isola. Così, dopo aver visto da vicino quelli della 5th Street, che formano la prospettiva più favolosa, è molto più eccitante prendere un battello e fare la circumnavigazione di Manhattan; un giro da perdere la testa.

Si parte da brutti paraggi sul West Side, fra i moli delle grandi linee marittime; e tra la riva grigia–affumicata del New Jersey e i ponti sospesi e la statua della Libertà di nuovo, in mezzo a una quantità di navi che si incrociano a migliaia da tutte le parti, si passa proprio davanti al muso dell’isola, coi gracili giardini della Battery appiccicati sulla «skyline» come una mosca sul naso. E i piroscafi per Staten Island passano avanti e indietro, rossi, carichi di automobili e di gente, con la frequenza di uno ogni cinque minuti. Lì si arriva in pochi minuti a un’America rurale fuori del tempo, però popolosa, con larghe strisce di sabbia fra un dock e l’altro, casine basse fra le paludi, villaggi estesi come Bologna o Genova, coi loro bazaar di campagna e i loro autobus ogni ora e mezza, vecchie case che vanno in malora in fondo a larghe tenute, e vicino a una torva stazione elettrica la sorpresa di un vecchio Garibaldi Memorial.

Ma girato l’angolo di Manhattan ci si trova dentro l’intrico dei ponti e dei tunnel di Brooklyn, di fronte alle inquietanti torri di Brooklyn Heights, misteriosi alberghi aerei sopra un dirupo d’alberi e di passerelle sospese, come una passeggiata a mare di Nervi tirata su fin sotto l’orlo di una Dolomite. Dietro queste cime romanticamente tempestose, chilometri di negozietti levantini che vendono di tutto sull’Atlantic Avenue, e più in là l’incredibile magazzino Loehmann’s, che va visto a costo di tralasciare qualunque altra cosa, perchè non sarà il posto meglio decorato d’America, però è certo il più decorato. Come idea, un po’ la Ca’ d’Oro di Venezia; solo, è delirante: tutto un soffitto a cassettoni inglesi, un inginocchiatoio francese intarsiato, una cancellata di ferro battuto spagnolo, e tabernacoli neogotici, angeli svolazzanti, leoni di marmo con la coda dritta come gatti arrabbiati, divani di pelle di zebra o di giraffa, e soprattutto pavoni, pavoni, pavoni. È un posto d’abiti da donna d’occasione appesi a centinaia sulle loro grucce a tutte le altezze, il lotto da 4,50 dopo quello da 5,50, da 6,50, da 7,50, da tutti i prezzi, con una folla di donne in mutande di nylon e cappellino di sbieco che li tirano giù e se li strappano di mano una che tira da una parte, l’altra dall’altra, senza mollare, come energumene – per non lasciarsi portar via la loro «occasione»; e se li contendono strillando, anche con male parole («l’ho visto prima io, bugiarda!»), semisvestite sempre perchè non ci sono stanzini per la prova, e quindi tutte le centinaia di clienti se li infilano dalla testa o dai piedi, davanti a tutti e sotto la sorveglianza delle cassiere (rinchiuse in gabbie di ferro battuto a forma di pavoni alti due metri, e con gli occhi della coda fatti di lapislazzuli finti).

Mica tanto lontano, isolato alle spalle della rumorosa Broadway di Brooklyn, il villaggio di Williamsburg: fermo al tempo dell’arrivo dei suoi abitanti, gli ebrei dell’Europa centrale, ottanta o novant’anni fa, ma in realtà conservando abitudini e modi di vita dei ghetti di Polonia e d’Ucraina nel diciottesimo secolo. L’osservanza religiosa, con tutte le regole e le proibizioni, è strettissima, mantenuta a ogni costo con lo stesso mistici smo ostinato e ascetico dei leggendari «rabbi» del Medio Evo.

Non si legge il giornale e non si accende il fuoco di sabato; e si incontrano per la strada giovani studenti del Talmud, con la pelle emaciata e gli occhi bassi, che circondano con reverenza un vecchio imponente con riccioli davidici e una gran barba, cappuccio di pelo e robone: durante la settimana sarà un piccolo sarto o un maestro di scuola, ma nel giorno del Signore si sente un re, è un sapiente che dispensa saggezza al suo popolo fuori del tempo, in quell’unico giorno della settimana che per lui conta, e non importa niente se avrà a cena la carne fredda e le patate cucinate il giorno prima, e la mattina dopo dovrà tornare al ferro da stiro entro le sette.

Risalendo lo stretto braccio dell’East River tra Manhattan e Brooklyn si incrociano una dopo l’altra le sinistre isole dei pazzi, con degli infermieri in bicicletta, e l’isola di Welfare, ancora più macabra, sorprendentemente abbandonata e deserta nel cuore praticamente di New York City, e con solo qualche vecchia casa del 1880 cadente, con tutti i vetri rotti e i porticati a pezzi; come se ne vedevano qualche volta nello sfondo dei primi film di Chaplin, per dar l’idea del lato proprio più lugubre di un’America misera e antica.

Sulla sinistra, invece, avventandosi sulle screpolature di Manhattan, si intrawedono per un attimo prospettive visionarie in fila, una dopo l’altra, fra i grattacieli qui moderni fino agli ultimi piani, e poi addirittura gotici, puntuti come torri di cattedrali o castelli, verdi come se vi crescesse in cima l’erba: squarci improvvisi di slums fra i più spaventosi al mondo, neri edifici sepolcrali tenuti su dalle scalette di ferro incastrate nella facciata per non franare tra i bidoni delle immondizie sul marciapiede; superfici di cristallo e alluminio che riflettono il cielo; campi di gioco nel miraggio del Central Park, dove ancor oggi un’orribile popolazione di «fuorilegge» si ammassa tutte le notti; e i sereni palazzi dei grandi ricchi, con parecchi Renoir in ogni stanza.

Dopo Randall’s Island si è persa alle spalle definitivamente Brooklyn, e si imbocca lo strettissimo Harlem River. Subito s’alza lì il Bronx con lo Yankee Stadium davanti, e gli irregolari pezzi di collina dove le costruzioni nuove vengono su disordinatamente come in una periferia europea povera. Siamo alle spalle di Manhattan, oramai, con Harlem sotto lì dietro, ma attualmente si cessa d’andare con motivi folkloristici all’Apollo Theater per i concorsi canori dei dilettanti; e più in là ancora sono spar se le acropoli degli antichi potenti dell’estuario, la Morris–Jumel Mansion o la Van Cortlandt House: fastose magioni costruite verso la fine del Settecento da avventurosi inglesi scappa–dacasa diventati ricchissimi nelle piantagioni alle Indie Occidentali, ora convertite in musei di mobilio d’epoca, con due o tre visitatori al giorno che si aggirano guidati da una vecchia Figlia della Rivoluzione fra i letti a barca e le biblioteche ottagonali delle fiammeggianti dame franco–olandesi cariche sempre di pappagalli e di scialli, instancabili nell’intrigo amatorio o affaristico o politico; però «George Washington dormì qui», e lì mise rimedio alla Ritirata da Long Island.

Superata l’ansa del fiume, sotto una gran roccia a picco dipinta d’azzurro da allievi della Columbia University senza paura delle vertigini, la selva di Fort Tryon s’alza come una rocca sul colle; ma la rocca sono i Cloisters, quel «capriccio» di ricostruzioni medioevali che è la dépendance all’aperto del Metropolitan Museum, col portale dei Templari di Beaune, gli affreschi visigotici di Burgos, i crocifissi borgognoni, i leoni di Zamora, il chiostro di San Guglielmo d’Aquitania, e poi quelli di Bonnefont, e di Trie, e di Cuxa, tutti portati qui pezzo su pezzo, e la cappella di Notre–Dame de la Grande–Sauve, e le tombe catalane, e i leggendari arazzi della Caccia al Liocorno e vari grumi o gliommeri d’antica Europa decostruita e ricomposta in contesti alienati, con tutt’intorno zinnie e petunie da giardinetto del parroco.

Più giù, in pieno fiume Hudson oramai, è qui che la città mostra infine i suoi aspetti veramente più fantastici: in faccia alle rive boscose del Newjersey, il parco di Riverside s’alza per una distesa di chilometri, come un altopiano indiano carico di vegetazione nei quadri di Max Ernst, con la città visionaria là in alto, tutta torri, cupole, pagode, rosse e arancione, verdi e gialle, di cui sarebbe arduo calcolare la distanza o la forma. E non importa niente sapere che la torre rossa è un immenso ospedale cattolico dove si è letto sui giornali di stamattina che Elizabeth Taylor deve avere un bambino nuovo, o che la cupolaverde appartiene alla Columbia University ove dovrò andare a sentirmi qualche lezione di letteratura del professor Lionel Trilling. Passo come ebbro di questi spazi, di questi colori, sotto l’infinito ponte George Washington sospeso sul fiume all’altezza delle stelle, e tutte le finestre dei grattacieli sono ormai accese, in maniera impressionante, e si sbarca dopo aver fatto l’intero giro della città visionaria.

Più tardi, il sole già alto illumina sotto di noi il campo a forma di quadrifoglio di Logan, l’aeroporto affondato coi suoi quattro lobi in fondo alla baia di Boston. Poi un’ora di trenino fantasma, su quelle linee locali con nomi fantasiosi che evocano lontananze indefinite, pionieri insabbiati, e gente isolata, dimenticata, persa… e comunque cessano quietamente di funzionare una per volta, perchè il loro esercizio è passivo da decenni. Dopo luoghi con nomi storici importanti come Revere, Lynn, Salem (sempre i posti delle streghe), si incontra una fila di stazioncine rurali col loro doppio binario in mezzo ai campi, una baracchetta lì vicino, e un paio di macchine cariche di bambinoni biondissimi col loro ice cream in bocca. Tutto intorno, prati laccati di verde cupo, e alberi invernali, abeti e betulle, e le casette coloniali bianche, e le guglie aguzze delle cappelle unitariane o presbiteriane. Sono i villaggi dove vive oramai più di metà dei bostoniani «veri», cacciati dalla città dall’aumento degli affitti e dalla decadenza di interi quartieri che si degradano in slums: così si sono stabiliti in «comunità» allacciate e divise da una invisibile rete di gerarchie rigorose ed energici pregiudizi sociali. Beverly, Ipswich, Rockport, più a nord, sono le nuove roccheforti del New England più segreto e altezzoso, e lì si appiattano le magrissime e schifiltose signore già di Beacon Street, che a furia di arricciare il naso sopra qualunque cosa si sono praticamente ridotte a non uscir più e a non vedere più niente (mentre i mariti, si capisce, vanno e vengono dagli uffici in città decadute alzandosi presto e tornando tardissimo in lunghe e lente colonne di macchine spesso bloccate dalla neve o dagli incidenti).

Ma ecco qui finalmente, proprio sulla punta del Cape Ann, due celestiali ex–discepole di Roberto Longhi, ora direttrici di musei a Washington e a Boston: le Misses Mongan aspettano in macchina, e si va insieme alla loro casina nel bosco della Punta Halibut, un villino della loro bisnonna puritana coi baldacchini di percalle sui letti e tantissime opaline di tutti i colori sulle étagères del salotto; e tante barche di pescatori nel porticciolo sotto le finestre, come un Portofino da Mayflower. Facciamo un rapido bagno fra le rocce, nella meravigliosa acqua gelata del Nordatlantico color bronzo opaco, in mezzo a un’infinità di granchi e di bambini che fanno dello «skin–diving» per acchiapparli, vestiti da testa a piedi dei loro scafandri di gomma nera come i diavolini del Mefistofele; poi una incantevole colazione sul pratino dietro casa, col console di Finlandia e un avvenente nipote missionario in Cina; tantissimi meloni d’acqua, e del punch squisito.

Stasera, poi, a Beverly, avremo riso e pesci con tante salsine polinesiane in una casa completamente piatta e praticamente giapponese sulla scogliera, tutta cristallo verso il mare e tutta legno di teak sul lato di terra, con dei samurai scolpiti e dei finti Botticelli che servono da quinte scorrevoli per separare gli «angolini», tanti libri, tanti cuscini per terra, un camino centrale, e l’affabile Giorgio de Santillana, con i congiunti Venini simpaticissimi. Si discorre di letture, e di amici: il solito Moravia, diffusissimo. E più tardi ancora, dopo un giro con le torce e i cani lungo la spiaggia, al riparo dalle ondate altissime che terranno svegli per tutta la notte, un salto ancora sotto un castello stregato di fronte: un maniero degli anni Ottanta fosco e sepolcrale come la magione degli Amberson di Orson Welles, macabro come un disegno di Chas Addams, e certamente due o tre zie murate vive nelle torrette là in alto, come in un incubo di Poe o Charlotte Brontë perversamente manomesso dal vecchio Hitchcock.

America Amore
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