KEY WEST
Il mito della vecchia Key West perdura da gran tempo nella cultura americana, forse per quel nucleo crepuscolare segreto che si appiatta in fondo ad autori così diversi come Hemingway e Tennessee Williams, abitanti affezionati di quel nidino di memorie; e colpisce tuttora vari disinvolti facoltosi e spregiudicati che fanno l’avanti e indietro dalle discoteche di New York, oggidì.
Ultima fra le «keys», le isolette in fila che si protendono dalla punta della Florida verso Cuba e il Tropico: dunque finti Caraibi, finto Messico, finto esotismo, finto estero, finte avventure, finti rischi e pericoli e «romance»… Le palme sbattute dal vento, la costa battuta dalle onde, l’umidità che rende attaccaticcia la camicia e bagnato il giornale… Un surplus di pittoresco, di gusto della desolazione, di povertà smorfiosa, di decadenza cenciosa, di Nonna Speranza con forfora e birignao e ninnoli.
Palme, frange, frappe, pizzi, pendole, ventilatori a pale sul soffitto, mobiletti a vetrine e ribaltine, tovagliette sotto zoo di vetro e di tarme, tipitipitì, carillon, bric–à–brac.
Ma sarà sempre stata così? Paccottiglia e bigiotteria in clima sudaticcio uso Tristes Tropiques? Gusto della degradazione con i centrini? Chincaglieria e oleografia della zia?
Oppure, quando la regione era ancora più misera di adesso, bastonata dalla Depressione, ci saranno stati in giro «grossi per sonaggi» di varia umanità? Delle Claire Trevor strapazzate? Dei contrabbandieri di bibite col sigaro caraibico? O ce n’erano un tempo, e adesso non ce n’è più? O sarà stata più o meno la stessa solfa?
Sembra, comunque, proprio il contrario di quei posti pittoreschi e caratteristici che si ritrovano modernizzati e deplorevoli, ricostruiti. Qui nessuno ha rimosso una ragnatela.
Villette frananti, casine della bambola dilapidate, roulottes accasciate, automobili sfasciate e senza ruote, parcheggi di «mobile homes» per pensionati, ospizi di vecchietti, pensioni per nidiate di checchine. Molti «Papas» in giro, con la stessa barba bianca e pensosa di Hemingway e di Burl Ives. Trenini elettrici da giostra o da bagagli in stazione, con famiglie di turisti impettiti, fra mucchi di rifiuti.
Ogni motel, ogni pompa di benzina, ogni farmacia, ogni pizzeria, proclama d’essere «la più meridionale negli usa»; e questo si può anche prendere nel significato poco favorevole; giacché ecco scarpe vecchie e bottiglie rotte nelle aiuole, intonaci fradici, serramenti penduli, vetrine squallide che paiono uscite dal Centro–America tragico di Orson Welles trucido e delle guerriglie represse.
Luoghi ove, dovunque, comunque, l’Ornamento è Delitto cheap. Negozi con mutande antiche e barattoli polverosi, fra sassolini e nastrini di cellophane accartocciato, stufette usate, poltrone sfondate, camicette da maricón sulle Ramblas.
Sul mare, la strada. Sulla punta, la piazzetta dove ogni sera si raduna una piccola folla per applaudire tradizionalmente il tramonto. Bambagioso e filaccioso: strisce bianche fredde sotto, filamenti rosa confetto sopra, che non si mescolano; tutti gli zombies battono le mani quando va giù il sole, e via in calzoncini e zoccoli. All’interno, nella scacchiera delle strade erbose, quadratini di casette e giardinetti e muretti in dimensioni uniformi.
Piscinette di tre metri per quattro. Ibiscus, sbadigli, spossatezze, mucchi e mucchietti di immondizie, lanciate fuori, in giro. Mare spesso spaventoso, vento soprattutto malevolo.
Poveri bianchi, poveri neri, vecchietti pensionati, vecchietti malvissuti, vecchietti musicali nei programmi televisivi. Sui canali locali, soprattutto zarzuelas spagnole del primo Novecento, con tenori e soprani grassissimi, carichi di boccoli e riccioli, unti di brillantine e ceroni, tutti occhiate assassine e tirabaci.
Oppure, prediche bibliche non–stop per 24 ore. Numerosi emaciati, macilenti. Brutte barbe, brutte panze, capelli in di sordine. Vecchini zoppicanti in tinte pastello. Donnoni, donnini, donnette.
Giro dei bar preferiti, locali frequentati, ristoranti prediletti.
Quadri di barche deplorevoli, ritratti di Hemingway canaglieschi, illuminazione passabilmente sinistra. Ubriaconi, zozzoni, zozzette, marchette d’ambo i sessi ugualmente sgangherate e litigiose a incroci di palme ventose e piovose. Esclamazioni fra le più volgari. Tipi da «paraggi della stazione», incrociando la passeggiatina di giovani papà che fanno la mammy a piccini attoniti appesi sulla schiena. Mammine sgobbone, con occhialini rotondi su pallore grigio. Mammine losche, con amicacce alticce e vocianti. Paradosso di questa piccola malavita imbottigliata in un minuscolo cul–de–sac. Già, siamo in fondo a una strada di centinaia di chilometri senza deviazioni laterali.
Come un interminabile ponte Mestre–Venezia, percorrendola di giorno: ore e ore su lunghe arcate e fondali paludosi e melmosi, e barene, vegetazione bassa e monotona, spiazzi polverosi e ghiaiosi, odori fetidi.
Due grandi alberghi eccellenti, molto separati e rinchiusi in sé e autosufficienti, con servizio cerimonioso e grandi sollievi chic nelle stanze e nel ristorante, però.
Fuori, per lo più, le taverne del teppismo suburbano, forse anche ravvivato con l’arrivo dei «boat people» cubani, con pessima réclame per la loro ex–patria, entusiasta di averli «sbolognati», benché allevati sotto la Rivoluzione. Oppure, il frou–frou dei ristorantini gay, casine della bambola cubana decadente «non grata» in patria. Ivi la ninnolaggine trionfa minutissima, però il cibo risulta – non si sa perchè – sempre tremendo. (L’incompatibilità fra gay restaurant e buona cucina si fa regola universale?).
Eppure lì si rivede per l’ultima volta Tennessee Williams, a colazione, un Santo Stefano, in un apparato di tovagliette tutte rosa, svolanti intorno a una piscinetta, dimagrito, ringiovanito, non iroso come un tempo, sobrio, modesto, salutava, forse riconosceva, poi sorrideva cortesemente al piatto e parlava a bassa voce con le posate e col tovagliolo, tranquillo. Tutto solo.
La casa più ricca nel quartiere più povero apparteneva invece a Hemingway, davanti a uno scalcinato Museo della Marina da «banana republic», con piccoli motoscafi, piccoli sottomarini che arrugginiscono sotto gli eucalipti, minuscoli siluri, mitragliatrici fatte dall’elettrauto.
Ecco un giardinetto tropicale pieno di gatti, discendenti dei cinquanta che teneva; gatti–soprammobili d’ogni dimensione e materiale, in vendita; e cartoline di gatti al banchetto dei ricordini, con dépliants che reclamizzano un gay restaurant «nazionalmente acclamato». Dopo il salotto ora emporio, la sala da pranzo in finto–Quattrocento con savonarole a zampe, due moretti veneziani col vassoietto, un lampadarietto di Murano fantasia; e un candeliere di ferro battuto, una zuppiera inglese, delle piastrelline di ceramica messicana, mostrate come cimeli.
Un piccolo mondo da Zia Pina?
Di sopra, un letto da negozio di mobilio spagnolo, con coperta da Casa Pupo a Londra. Ancora quadri di gatti. Segno dei tempi, un distributore di bibite sotto il portichetto, anche con un errore di scrittura: «specal» invece di «special». Negli scaffaletti, fa impressione che i libri siano tutti di autori ormai completamente dimenticati.