SU E GIÙ PER LA 101

Long Beach pare una enorme Livorno, così orizzontale che guardando avanti per ogni boulevard non si vede niente. Poi, moli con qualche palma e qualche aiuola, spiaggette finte fra le case e le navi, file di macchine con la gente dentro che non scende neanche, seduta immobile come i romani al Pincio. E parcheggi vastissimi, deserti; eliporti abbandonati; vecchini che si avviano alla spiaggia in cappello di paglia, traversando i prati artificiali. Moltissimi vecchini: anche poveri, tante volte in tristi abiti scuri del Trenta. E pattuglie di polizia; Chevrolet cariche di marinai; neri che pescano zufolando quieti, con la lenza e lo stecchino in bocca; povere cameriere devastate nei ristoranti, premurose e artificialmente allegre.

I soliti tosaerba, dappertutto: con poco da tosare. E dappertutto, nella desolazione, la popolazione dei vecchietti, fra gli zampilli e i campi di golf. Campi che sono spesso disastri, palme trapiantate e morenti, operai che scavano, lavori inutili, una tragedia.

Appena fuori dalla città, questa pianura secca a monticelli di cenere, antenne elettriche, baracche di lamiere, enormi globi di cemento come uova bianche; mucchi di mine della marina, nuove, in depositi dietro la rete metallica. A sud, scendendo lungo il mare, a sinistra campi di migliaia di antenne che pompano petrolio, a destra darsene di migliaia di barche tutte uguali. Fino a San Diego, tutta una duna gialla e una pianura sabbiosa.

Da Long Beach alla frontiera messicana il paesaggio è di una desolazione avvilente. Dune di sabbia, lingue di sabbia, cespugli aridi. Colline secche, paludi morte. Natura ostile, clima soffocante, mare nemico. Centinaia di chilometri di spiagge percosse da un’acqua livida, con cartelli di pericolo e segnali di pescicani. Lungo il mare, moltitudini di macchine e roulottes che servono da abitazione permanente, con stracci appesi fuori, come se fossero scoppiate tutte le bombe e la popolazione si rifugiasse sulle coste.

Le colline dietro appaiono sassose come nelle isole greche più nemiche; oppure s’allargano in una steppa grigia coperta dalle zampe nere delle pompe di petrolio. Ai lati della strada, negozietti che vendono di tutto, baracche basse. Chioschi di cactus, stands di begonie e fucsie. Antichità, perfino: cioè pentole di rame. Su una roccia, improvvisamente un’Arca di Noè, con animali di latta e cartone. E motel coperti di polvere che annunciano cibi polinesiani, pietanze messicane, smorgasbord.

La sabbia e l’umidità sono soffocanti, s’attaccano alla faccia, alle mani, non vengono via neanche a fregar forte; cariche d’una salsedine terribile.

Luoghi deserti. Poi, improvvisamente, oasi di Costa Azzurra.

Porticciuoli di yachts, ciuffi di palme con albergo a chalet civettuolo.

Eliporti, case di pancakes in stile Sette Nani, motel che offrono piscina calda, televisione e coffee house. Laguna Beach è piena di mosaici di conchiglie, modellini di velieri in bottiglia, negozietti di foulard e borsette di penne di tacchino.

La Jolla poi è pettinatissima, trionfo della poinsettia e del sicomoro, con ville di gusto tradizionale, teneri prati, viali delle palme alti sopra le rocce, alberghi e balconate.

Intorno, subito, «executive homes», «influential homes», «pace–setter homes». Cioè, lotti di volgari case avvicinatissime, a tanti piani, una addosso all’altra: gli svantaggi della città più le scomodità della campagna. Chiosco delle informazioni lì pronto, vie interne già asfaltate, modellino dell’intero progetto illuminato dall’interno, e gli acquirenti pronti in fila.

Ceci me rappelle cela? Oceanside, a metà strada fra Los Angeles e San Diego, è un Lido di Camaiore piatto e sterminato, completamente provvisorio. Ai margini di Camp Pendleton, il maggior campo d’addestramento dei marines sulla costa occi dentale. In divisa da fatica o in jeans verdi e maglietta, con la nuca rapata e l’occhio assente, sono lì tutti che errano a migliaia per queste vie artificiali, dove tutto par fatto apposta per tener lontano il mondo. I negozi espongono oggetti irreali, i giornali più lontani vengono da San Diego e Los Angeles, non portano altro che cronaca locale e pettegolezzi di divi.

Né fatti, nè idee. L’orizzonte non esiste, il mare è immobile davanti alla costa piatta. Le vetrine sono piene di cappelli da cowboy e stivaletti ricamati, i bar di coche–cole e patate fritte, le edicole di Tuesday Weld, i cinema di comiche con i Bowery Boys, la televisione di pubblicità. L’unico saloon è in mezzo a un deserto: decorato con reti e conchiglie, completamente al buio. Al banco, una bionda rauca e non giovane che parla di tutto il bene fatto dall’esercito all’Alaska e agli esquimesi durante la seconda guerra mondiale.

Rimangono solo due evasioni apparenti (ma dopo tutto questi sono volontari, non capitati qui per forza). Una nel cibo messicano, orribili tortini di fagioli pestati, con spezie disumane che reclamano birra a fiumi. L’altra è il negozio del sergente maggiore pornografo. Sembra una cartoleria di paese, con questo grosso proprietario identico al «cattivo» nelle comiche di Chariot, ma sottufficiale pensionato dello stesso Camp Pendleton.

Alle pareti c’è tutta la sua carriera in trent’anni di fotografie e pergamene. Promosso, decorato, superdecorato, lodato dal generale, encomiato dal commodoro, congratulato dal maresciallo. Sotto, scaffali carichi dei fumetti più folli che si possano pubblicare in un paese libero, con titoli come «Spie scoperte e crudelmente punite», «Ragazze prigioniere mortificate e legate», «Donne risolute che dominano uomini forti», «Prigioniere spaventate vendute come schiave».

Non si riesce a entrare, perchè è affollatissimo. Stanno tutti lì a leggere senza comprare, non si capisce come guadagni il sergente. E certo su tutti i bandi di arruolamento si legge che «Il corpo dei Marines vi farà diventare uomini». Ma è piuttosto folle l’idea che dopo aver fatto il percorso di guerra per tutto il giorno questi escano per passare la sera a leggere in piedi le storie del «Giovanotto torturato dalla Inquisitrice Spagnola» e della «Ragazza senza aiuti mandata alla deriva nel mare in tempesta» e della «Fidanzata robusta che disarma e lega a un palo un intero sestetto jazz». D’altra parte, nell’ipotesi di una guerra mondiale, a chi se non a questi mercenari fuori dal mondo toccherà pagare di persona per salvare quello che resta della civiltà europea?

Appena sdraiati accanto, si voltano e porgono automatica mente il dietro, secondo l’addestramento di «prendilo come un real man». Chissà cosa faranno tra loro.

Una volta all’anno, d’estate, Camp Pendleton è aperto al pubblico per il «Rodeo & Carnival» dei marines. I festeggiamenti cominciano ai cancelli d’ingresso, con donnone nere in berrettone che regalano cotillons e forniscono mappe e indicazioni.

Sono indispensabili, come i numeri d’ordine dei posteggi: molte migliaia di famigliuole percorrono infatti le decine e centinaia di chilometri di pianura stepposa attraversate da autostrade a quattro piste, fra colline selvagge scavate dai solchi rossi dei carri armati.

Tra i percorsi di guerra, ogni tanto, una gran baracca con su scritto «Scarpe» o «Scope» o «Bambini» o «Lavanderia»; e gli altri bisogni delle grosse comunità d’ufficiali con famiglia che vivono appiattate e mimetizzate nelle pieghe del campo.

Cartelli continui di «Allacciate le cinture di sicurezza – e vivete!»; e statistiche luminose di quanti marines muoiono al mese per aver guidato scioccamente. «8 giorni dall’ultima morte!». A tratti, folti d’eucalipti, un lago artificiale, un gruppo d’arcieri che si esercita al bersaglio. Elicotteri sempre sopra che sorvegliano.

Dietro una curva, parcheggi smisurati con almeno cinquantamila macchine: si fa in fretta a fare il calcolo contando sui lati dei quadrati. Tutti devono scendere, e sono imbarcati su centinaia d’autobus militari da poliziotti in nastri blu che scuotono la testa e strillano confusamente gentili. Pare l’autobus della scuola: pieno di bambini messicani eccitatissimi, di nonnini in camicia di raso albicocca cangiante, di giovani papà grassi in maglietta rossa, di mamme bionde in calzoni di lamé d’oro e camicette ricamate a madreperle pendule, col loro tacco alto e il pullover bordato di visoncini.

Ecco il Grande Carnevale: alla Billy Wilder, dentro un anfiteatro naturale che è piuttosto un imbuto di polvere. Venti cowgirls in bianco e verde sfilano dietro la loro reginetta sotto un cartello che vieta il possesso di alcolici nel recinto; e in piedi su un cavallo docilissimo il cowboy le prende al laccio, prima una, poi due, poi sette insieme. Ma oltre a qualche sciocchezza fantasiosa come saltare nel laccio o tirarsi bambini piccolissimi da un cavallo all’altro, i «numeri» girano attorno ad alcune prodezze basiche: sellare il cavallo selvaggio saltando poi giù dalla parte della testa; stargli sulle spalle per otto secondi con gli speroni avanti e una mano sola; rovesciare a terra il manzo di colpo saltandogli addosso da un cavallo; cavalcare il toro toccandolo con una mano sola e senza cambiarla; legare tre zampe a scelta del vitello con due corde, tenendogli giù anche la testa.

I concorrenti sono tutti marines cresciuti nei ranches; ma ne girano a migliaia anche fra il pubblico, tutti con bardature pittoresche, parlando di cavalli incessantemente. Fanno tutto, oltre che domare i cavalli, dal momento che è la loro festa e tengono a mostrarsi buoni. Vendono hot dogs, popcorn, patate fritte, in stands e tukul ricoperti di stagnola. Portano il ghiaccio in camion, e si passano di mano in mano i blocchi bestemmiando quieti. Fanno i poliziotti con superbi caschi bianchi a righe rosse e gialle. Corrono con la Croce Rossa a recuperare un caduto che non s’alza, fra gli applausi un po’ a vanvera della folla. Conducono giostre dei cavalli col valzer del Faust, gestiscono tiri a segno e pesche di pesci di celluloide e Last Chance Saloons, sempre con uno più grasso in mezzo col bracciale da «supervisor». Cullano felici enormi cani di piume celesti. Vendono coccodrilli di plastica come clips, con su scritto «state attenti a guidare, e divertitevi!».

Le migliaia di famigliuole siedono sui gradini di terra rossa del cratere. Sono frequentissimi fra gli spettatori i poliomielitici vestiti da cowboy, le paralitiche in carrozzella abbigliate da cowgirl, le amputate con la loro gamba d’alluminio dentro lo stivaletto ricamato; e sotto il cappellone nero, bave, glaucomi, cataratte, apparecchi di sordità. Il consumo di gasose è frenetico.

Lasciandosi indietro le vallate di frutta e viti piene di nomi locali come Orange e Pomona e Topanga, basta passare un paio di catene di montagne verso l’interno per trovarsi in un deserto tipo Castigo di Dio Biblico. Grigio, bianco, sassoso, piatto fra montagne dentate del medesimo colore. La strada segue le gobbe del terreno, è una pista coperta di catrame senza paracarri.

E il vento è atroce. La macchina fa salti di parecchi metri; e finchè si va allo stesso livello della ghiaia intorno importa niente; ma passare un ponte o un viadotto fa una certa paura, si rischia di cascar giù se non si va a passo d’uomo. Aprire uno sportello tra le folate è difficile, chiuderlo quasi impossibile.

Incidenti ridicoli: non si riesce a stare in piedi, fare una pipì diventa un’impresa grottesca. Va via anche la radio. Invece delle solite otto o dieci stazioni ne rimane una sola, e continua a trasmettere la Serenata del somarello.

Compare una baracca circondata da carcasse d’automobili scoperchiate. Poi una capanna che vende aspirapolvere usati.

Poi, di colpo, senza che nulla sia cambiato nel paesaggio, una quantità insana d’agenzie immobiliari. E per molte decine di chilometri adesso ecco in fila i cottages–modello a 395 dollari: con un piccolo supplemento in più per moquette e aria condizionata.

Cartelli continui che insistono: «Executive Acres», «Prestige Retirement Community», «Summit View Homes», «Senior Citizens Paradises». Sono molte migliaia i vecchi che evidentemente vengono a passare qui i loro ultimi anni, come a Cannes o a Sanremo; e questa lottizzazione del deserto s’allarga frenetica, come posto di ritiro è più frequentato della costa, è uno degli aspetti più bizzarri della vita californiana d’oggi.

Le zone lottizzate non presentano certo attrattive diverse dalle Vallate della Morte. Steppose uguali, percosse da questo vento spaventoso. Aria netta, luce spietata, profili decisi delle montagne gialle. Sassi grossi e piccoli; cactus del tipo Joshua Tree: cioè un porcospino infilato su un palo, un mazzo d’aghi da lana in cima a un tronco spinoso. Se i vecchi escono, il vento li butta a terra. Se hanno bisogno di qualunque cosa, venti o trenta chilometri come minimo, per l’emporio più prossimo.

Per parlare a un vicino, bisogna andarlo a trovare in macchina.

Se stanno male, possono anche morire.

Per centinaia di chilometri, non un filo d’erba nè un fiore nè un albero. E neanche un’attrattiva di tipo Las Vegas. Invece, sulle spianate di ghiaia, casine in forma di cappello da Mago Merlino, di berretto da medico di Molière, di en tête da Fatina dai Capelli Turchini, magari con su scritto in paillettes «cocktails». Sale da poker aperte 24 ore contro orizzonti surreali, con insegna di «Benvenute le signore». Piccoli supermarkets, Chiese di Cristo, lavanderie, motels Le Sabbie, ricambi d’automobili, piatti e bicchieri giganti sormontati da un enorme «non si fa credito». E pagode svizzere in forma di tenda poligonale di cemento, ritiri spirituali della «Scienza della Mentalfisica». Di sera, neon luccicanti: «Christus regnat», «Only you», «Senso unico», «Visitate la capitale dei datteri», «Installate l’aria condizionata sulla vostra macchina», «Venite alla chiesa battista», «Frequentate la cappella luterana», «Iscrivetevi fra i testimoni di Geova», «Pensate all’anima».

Le demenze del deserto culminano in Palm Springs, che è indubbiamente una piccola città schifiltosa e chic, con una piscina ogni due abitanti; e ville di vetro e ardesia con enormi soggiorni a moquettes bianche spesse e divani a venti posti foderati di zebra. Ma risulta un’allucinazione in mezzo a un lago asciutto e sabbioso. Dopo ore di deserto orribile passate ag grappati al volante, spinti indietro dal vento contrario così che non si possono far più di cinquanta miglia all’ora, a salti, mentre il sole calante passando fra una dolomite e l’altra illumina le ventate di polvere come raggi malati di Tintoretto, questa oasi manicurata di palme moribonde scosse dalle raffiche fa un’impressione di città artificiale, volontaristica, parrucchieresca.

L’aria è di un nitore insostenibile, molto salutistico, e la pulizia di ogni superficie quasi disumana; i campi di golf e le piscine calde stanno chiusi fra i loro paraventi di plastica; e le Cadillac e le Jaguar dormono ben riparate. Per una comunità di poche decine di migliaia di persone, poi, sessanta imprese d’aria condizionata, settanta agenzie immobiliari, altrettanti medici specialisti, quaranta boutiques da donna, venti da uomo, e tre istituti di bellezza per cani. Le sere poi sono molto lunghe, perchè sotto queste montagne enormi si entra nell’ombra alle quattro del pomeriggio, e il ritmo mondano pare molto intenso. Ma dopo tutto l’unico senso che può sostenere questa città è di vender bene l’idea che avendo le palme belle vicino al mare diventa chic venirle a cercare brutte e malate nel lago salato (e sia pure illuminate una ad una a cura del municipio).

La pianura piatta e secca, a casine accasciate col garage che occupa metà spazio, poi comincia ad alzarsi in colline senza alberi, solo antenne della televisione. Dopo, chilometri di filo spinato intorno ai laboratori di precisione e alle caserme della marina, ai binari e alle navi da guerra. Ecco San Diego.

La vera città è allucinante, nata com’è sulle sabbie e cresciuta soltanto sulle industrie di guerra, aeronautica, flotta, missili.

E stata la protagonista della guerra nel Pacifico, lo sarebbe di qualunque altra guerra, anche di più. Ma la si gira benissimo, perchè le autostrade hanno preceduto le case.

Le costruzioni sono tutte bassissime, portando in alto su un palo insegne e simboli: anche una guglia sopra un’antenna per segnalare la chiesa in una baracca, o magari un’automobile intera issata a dieci metri d’altezza per avvisare che si lavano le macchine per 99 cents. Il simbolo della città, invece del numero degli abitanti tenuto aggiornato a San Francisco e a Los Angeles sui tabelloni illuminati allo sbocco delle autostrade, in polemica con New York che aumenta meno, sembra che siano due meccanici a torso nudo nell’atto di lavare una jeep davanti a una torre industriale. E del resto l’intera propaganda civica o per gli arruolamenti si basa sull’industriale e il climatico e il sexy, nè più nè meno come quando i giornali californiani pubblicano titoli tipo «Ken è arrivato a Beverly Hills, e tutte le donne vanno pazze per lui».

Ciò che rimane della cittadina spagnolesca fine–Ottocento inghiottita dalle fabbriche e dalla marina è una modesta architettura da pueblos in pochi esemplari, con pilastri piramidali: cioè uno stile Ramona. E la stazione: due campanili coloniali, e in mezzo la porta in forma di bocca spalancata, tipo Cabiria o Inferno, con sopra iscritto santa fe. Ma il vero panorama sono il gran porto in forma di stivale pieno di navi e la distesa dei depositi di benzina e gasometri e la Convair e la General Atomics, i chilometri di capannoni dove si costruiscono i missili intercontinentali.

Tant’è, basta camminare per la strada: non esiste nel mondo moderno una comunità più popolosa di soldati di mestiere.

E a questi mercenari è affidata in gran parte la difesa dei superstiti «laissez–faire» dell’Occidente, di cui non sanno nulla.

Il downtown di San Diego è allegro e lunare perchè in poche centinaia di metri quadrati di «Tenderloin area» riesce ad accumulare nei suoi negozi milioni d’oggetti che non servono a nulla se non a compiacere ai desideri più innocenti e fantasiosi di molte decine di migliaia di marinai.

Armadietti con chiusura automatica; abiti civili in affitto; anelli con enormi pietre colorate; anelloni più rozzi da applicare al cazzo; patate fritte; tiri a segno con l’orso; diamanti artificiali per fidanzamenti rapidi; enormi ciambelle ricoperte di cioccolato; immense automobili rosa e nere in affitto; blue jeans Levi Strauss (è la marca più popolare in California, perciò vengono chiamati «levis»); frappè oppure vodke tascabili (fino a ventun anni non possono bere alcolici in pubblico, e la maggior parte non li ha, anche se hanno già fatto in tempo a combattere a Cuba).

In ogni vetrina un cartello propone pegni, assegni, impegni sulle paghe. I più allettanti li espongono i sarti, fra giacchette d’argento con collettini di velluto nero, cinturini laterali con fibbie, spacchetti sormontati da martingale a parecchi bottoni, baveri accollati con fiocchi di gros–grain, polsini a manicotto con risvolti impunturati. Giacchette di loden di nylon, fra il tirolese e il ‘700 e il liftier da commedia musicale. Stivaletti da Texas bianchi e neri, con ramages d’oro e tacchetto alto, bottoncini laterali, fibbie d’argento e di strass, punta a spillo («Acme, garantita la punta più sottile del mondo»).

Al cinema, la storia di una ricca cinese assassinata nuda in un bagno turco di San Francisco. Nelle edicole: «Mabel la soggiogatrice», «La ragioneria in poche lezioni», «Come sottomettere per sempre il marito», «Il russo per principianti», «Il ranch delle stenodattilografe con la frusta», «Il parto naturale sotto i vostri occhi», «Il taglio cesareo come alla vostra presenza», «La nascita di quattro gemelli come in casa vostra», «Maisons europee ed asiatiche visitate per voi dal Famous French Pornographer Monsieur Rétif de la Bretonne».

In giro, quasi soltanto ronde militari. Un negozio sì e uno no serve per gli arruolamenti, col sergente dentro, come nella guerra dei Trent’Anni. Sui muri, i manifesti conservatori: «Per la salvezza della nostra Repubblica, incriminate il Presidente della Corte Suprema».

Il lato sci d’acqua e pantaloni capresi è spostato sul Coronado, la penisoletta che si raggiunge col ferry in pochi minuti, per un braccio di mare affollato di incrociatori e portaerei.

Oppure, facendo un lungo giro in macchina intorno alla baia, per una strada deserta piena di fuochi in riva all’acqua e di coppie colpevoli coi capelli scossi dal vento come in un vintage Warner Bros.

Forse presto il concetto di vacanza verrà sistemato su isole artificiali, con una natura inventata e la sua proibizione alle automobili. Il Coronado già suggerisce questo modello. Yachts, tennis, golf, Gloriette, viali tipo Lido di Venezia, un immenso albergo liberty a balconate e torrette, tipo un Suvretta da mare.

Dentro, tappeti e poltrone e camini: il castello di Citizen Rane, deserto tranne che per il Pranzo Sociale dei Macellai Occidentali.

Di fianco, un Villaggio Messicano a capanne di paglia, tanghi, candele: un Meo Patacca per aeronauti.

Cinquantanni fa quando San Diego era una cittadina di poche migliaia di abitanti, il municipio aveva designato una gran collina a crepacci come giardino pubblico. Oggi gli abitanti sono più di mezzo milione, e San Diego si definisce «una città costruita intorno a un parco». Balboa Park coperto di eucalipti è un giardino fra i più impressionanti: più vasto di Hyde Park, più accidentato delle Buttes–Chaumont, più fiorito del Bois de Boulogne; e più ancora che in Svezia o in Olanda un sogno civico d’architetti moralisti: la domenica, non essendoci altri posti dove andare, tutta la popolazione è obbligata a cascar lì.

Eucalipti, crepacci, burroni, vallate, ponti; ma crepacci con dentro autostrade a quattro piani; burroni che contengono un intero giardino zoologico e ponti del diavolo; vallate destinate addirittura a un villaggio, il Villaggio delle Nazioni, ciascuna ha il suo cottage dove si va a prendere il tè: ma l’Italia non c’è.

In compenso, un buon segno: la Francia divide il suo con le Filippine.

In tutti, merende domenicali e dolcini tìpici: con profumi diversi a seconda della bandiera sul tetto: Islanda, Cecoslovacchia, Danimarca, Scozia, Ungheria. Più allegra di tutte la Germania, tutto un valzer, un piano–e–violino con fette di torta, Goethe e Brahms nei ritratti sul muro. Fuori, sotto, impazzano il sole, l’erba, i concerti, i recitals, le arti e mestieri, il teatro di marionette, la Fondazione Ford, i coretti di hillbillies, i cimiteri di cani, gli ospedali di gatti: siamo in un’area «ricreativa».

Ma più sopra nella collina s’arriva in un luogo di magia.

Degli Alcazar, delle Alhambre, delle Certose. Il rococò gesuitico trasfigurato nella meringa e nello schiumino, il petit four che diventa cupola, l’amaretto e il frollino che aspirano all’abside e alla navata. Le Tre Marie? O almeno Dieci? Macché, sono i padiglioni sopravvissuti alla Esposizione Panama–Pacifico del 1915; costruiti con intenzioni spagnole–rinascimentali, propositi barocchi–messicani; ma di gesso, di stucco, di cartone, con ornati fioritissimi. Campanili a veroni, colonne tortili inghirlandate di pampini, tutta una proliferazione d’angeli e trombe, d’angurie e serpenti. Quindi cadenti, frananti, giù a pezzi, impossibili da riparare. Ma convertiti finchè è possibile ad usi ancillari e pratici.

Così, di fuori è Granada (dopo un bombardamento o un terremoto). Ma dentro, gran plastici di trenini–singhiozzo non si sa perchè memorabili, che corrono. Astronauti, missili, cabine pressurizzate. E un museo dell’aerospazio che è anche un museo dell’uomo e nello stesso tempo museo immaginario, un matrimonio ideologico fra Malraux e Soustelle e Walt Disney.

Portici, tipo un Fornaretto di Venezia fatto da Visconti con gli stessi criteri di Senso. Statue equestri di Carlo V e Filippo III, tutta una Plaza Mayor. Carillons sui campanili. Esedre da Montecatini.

Una sera viennese che è il trionfo dell’ortensia, della begonia, dell’amarillide con la sassifraga. Il più grande organo ad acqua del mondo, in un anfiteatro di muse e di belle di notte, con un concerto pomeridiano tutto abbandonato a Sarasate e a Chabrier. Un villaggio degli artisti, che espongono pueblos all’acquarello o in pietra dura sotto bougainvillee implacabili.

Picnic indiani sotto i sicomori, radure con fuochi, bocce, giostre, calumet. Un parco dei giochi: vecchini sui trenini, con cravattìni a farfalla; vecchiette con la zazzeretta celeste avvinghia te al carro dei pompieri in miniatura, che gira sempre intorno alla stessa cabina telefonica per tutta la mattina, con sirene laceranti che non smettono mai.

Mai visto un pubblico così felice. Fa quasi paura, forse non è neanche giusto. Un’aria di ballo della scuola, di festa degli alberi, di passeggiata dell’asilo, di libera uscita dall’orfanotrofio e dal cronicario. I mercenari in queste ore libere s’abbandonano alla fantasia vestimentaria, si caricano di frange, qualcuno con moglie più vecchia in occhiali e maternity dress, il suo bambino in carrozzina e l’altro presto. Con enormi sacchetti di pistacchi rossi, si spenzolano per afferrare le ninfee arancione nello stagno verde.

Una serie di ristoranti, con dentro il caos. Chiamati Il patio del re moro o Il paradiso in terra, La siesta, La fiesta, o magari La maràntega. Pieni di cancelletti, archetti, ghiaia, rampicanti, fontanine, sposini, camerieri in rosso come diavolini. Il più puro Festival di Spoleto: infatti non si riesce mai a mangiare.

In un palazzone crollante, un salone tipo stazione a forma di F sgombrato da tavoli di ping–pong ammucchiati in un angolo: si riempie di gente all’ora di colazione. Sbarre tutt’intorno; le allieve della scuola di ballo aggrappate in tutù; l’orchestra in un angolo; la musica più dolce del secondo romanticismo; e la maestra in mezzo, incredibilmente russa come nelle caricature, spiega gli entrechats alle due del pomeriggio ai genitori (che lavorano nelle fabbriche di missili) delle bambine che sgambettano alle sbarre.

I boati dell’organo sconvolgono il parco alle due e mezza.

Corriamo. Non tanto pubblico, però «a modo». Tutte signore in raso giallo, cappelli di velluto nero, occhiali di strass, stola di cincillà di orlon.

II giardino zoologico di Balboa Park è il maggiore della California, forse il più straordinario al mondo; si allarga continuamente; ma forse più curioso ancora degli animali è il pubblico domenicale.

Costruito benissimo: in un canyon profondo, fitto d’eucalipti, si scende a terrazze nei crepacci laterali. Anfiteatri di foche, giardinetti Art Nouveau con pavoni rosa e fenicotteri arancione, buche sotterranee di certi tapiri «estremamente notturni», circuiti per lasciar correre i ghepardi regalati dalle case cinematografiche. E i coccodrilli sbadigliano; il gorilla siede in un angolo del suo recinto non finito che «aprirà il prossimo weekend» avvisa il cartello; i bambini parlano alle tartarughe, nutrono gli aironi rosa di popcorn; i mercenari of frono sigarette ai roditori e ai plantigradi. E roccia finta, e rami di cartone, e missili sopra la testa, e cielo fitto d’aeroplani grossi e piccoli.

Si entra nella gran gabbia dei pappagalli, fra doppie porte di rete metallica, la si percorre tutta in discesa. Ma ad ogni canto d’uccello viene da alzare la testa per vedere se esce da un altoparlante, come per le strade di Los Angeles dove serve come pubblicità ai negozi di calze.

Davanti all’«aquila calva», simbolo della nazione americana sul sigillo e sui dollari (ma paradossalmente in via d’estinzione) con la sua testa bianca e un gran bel becco d’avorio, sfila per tutto il pomeriggio una delirante collezione di cartoons di Steinberg: grassi mostruosi che fotografano le antilopi, vecchine senza una gamba che visitano il serpentario, poliomielitici in carrozzella fra una scimmia e l’altra. Indianini appostati allo stagno per vedere quando l’ippopotamo tira fuori la testa dall’acqua, urlando di gioia «cabeza! cabeza!» appena spunta un orecchio. Famiglie obesissime: padre e madre enormi, mostruosamente gonfi, con vestiti sformati da clown; bambini d’una pinguedine impressionante, sfasciati da disfunzioni di tutte le ghiandole (ce ne sono moltissimi, quasi la metà…), senza collo, senza caviglie nè gomiti, con immensi sederi, sempre mangiando, pescando con pigra ingordigia nei loro sacchettoni di chicche. Dall’occhio ironico dello struzzo si vede che capisce tutto: più umano e intelligente di nove su dieci persone nel parco. Con lo struzzo è chiaro che sarebbe possibile vivere, capirsi, parlarsi. Ma con questi? Non so.

A San Diego infine, otto mannaie su una nave da guerra con equipaggiamento nucleare ed equipaggio misto vengono accusate di intimità lesbiche in camerate e in angolini, da certe commilitone moraliste o invidiose. Dunque, Corte Marziale, come per The Caine Mutiny: si vede ogni sera in tutti i telegiornali, si rivede ogni mattina su tutte le prime pagine dei quotidiani. E la stessa materia della commedia The Children’s Hour di Lillian Heilman: due maestre accusate di colpevoli tenerezze da una piccina maligna, e benché innocenti non potendo reggere la pressione e l’onta una o tutt’e due si ammazzano.

Macché, adesso. La linea di difesa delle mannaie accusate davanti al tribunale militare è di portare come testimoni dei trucidi che ripetono: «Lesbica quella? Mi fate ridere, quella è una gran troia, me la son fatta tante volte, se la sono fatta tutti, chiunque sa che è pronta alle partouzes, ecc.». E il tribunale: ah, sì, è una troia? Allora viene assolta, con tante scuse! Ogni sera, al telegiornale familiare: è una gioia, meglio di qualunque capolavoro di Lillian Heilman.

A meno di mezz’ora da San Diego, appena oltre la frontiera, Tijuana: cioè la città visitata ogni anno da più americani che non Londra e Parigi e Roma messe insieme. Non perchè sia bella. Di messicano–tipico non ha nulla, costruita com’è da pochi anni sull’orlo della penisola della Bassa California, lunghissima e deserta e lontana da tutto quello che in Messico ha un senso e un sapore. Per di più separata dal resto del paese: c’è il mare. Finta, quindi, proprio per ragioni geografiche. Però ha una gran reputazione di vizio: con bische, corride, droghe, e tutto.

Lungo la strada, già réclames folli e monumenti pubblicitari fra il maxi–Brasini e il Ruschena–plus e la centrale elettrica «iper» illuminata a festa. Alla dogana lasciano passare le centinaia di macchine in fila senza neanche guardarle, è sabato notte. Di là, subito, cento baracche di copertine per sedili e tappetini da macchine. Una gran Porta Portese: fisarmoniche, organini, indianini, cappelloni; e copertoni usati, cioè una cosa che negli Stati Uniti non si vede mai. Ciechi, gobbi, venditori di pannocchie. Capanne per «nozze e divorzi a prezzi ribassati».

E tutti i negozi spalancati per tutta la notte.

Per le porte aperte si vede bere, giocare, gli spogliarelli: «El twisto», «Girlesque», «Miss–guided missiles», su sfondi di cartone da avanspettacolo, cieli, rocce, fontane, castelli; coi comici in giacca a quadri troppo lunga e i baffoni neri; e ragazze gonfie, bassissime di sedere; e l’imbonitore sulla porta che acchiappa per le maniche. Per tutta la notte le strade sono piene come in una sagra dei nostri paesi prima della guerra. Migliaia di americani con l’occhio sbarrato perchè hanno bevuto, cauti nel passo e lenti nella contrattazione; e festose comitive familiari messicane con tante nonne e tante nipotine, col loro gelato.

Il Drago Verde, la Volpe Azzurra; e dentro, un onesto varietà meridionale, ma col venditore di marijuana alla biglietteria.

Bar lunghissimi, tipo dopolavoro, pieni di trombe; e complessini anche per le strade, col guitarrillo e il guitarrón. Sombreri da peone. Giostre da paese. Tutti i selciati sconvolti da lavori lasciati a metà; nei nuovi locali non ancora finiti si entra sulle assi fra la calcina e le buche, sotto lampadari tipo Murano cinese, con gli orchestrali in smoking luridi che girano impacciati fra i tavoli come si vedeva nei film pseudo–ungheresi.

Licores drive–in. All–night abogado. Un avvocato in «affari internazionali» con studio in un cantiere e targa di cartone (dorme nella baracca del geometra). Venditori di spiedini di carne fritta nera. Cinema chiamati La Paloma o Amapòla che dànno il film Orgullo de mujer. Il vermut San Tomàs, «il vermut che fa ambiente». La Libreria Santa Rita, che rievoca la morte di Papa Pacelli. La Birreria Heidelberg. Le cose più impressionanti sono certi gatti di plastica alti un metro, neri o rosa, che costano mezzo dollaro; certi abiti ricamati e traforati e dipinti, rotondi a tutte le altezze; certi portalibri di pietra gialla, pesantissima e diafana; certe corride a colori fluorescenti, su drappo nero, per vederle nel buio.

I reati che si possono commettere, secondo un avviso della polizia, sono otto gradazioni di ubriachezza molesta, in ordine crescente di gravità: ebrio impertinente; ebrio indignado; ebrio escandaloso; ebrio rinas; ebrio lesiones; ebrio voltado; ebrio orinando en la calle; ebrio insultos al gobierno.

Tornando indietro, dopo il dispensario celtico alla frontiera, la prima sosta è a una coffee house servita da cameriere in abito cowboyesco. Non contenti d’aver guidato tutta la sera, tutti mangiano senza scendere il loro chili con carne. Che è una pietanza sciagurata. Intanto riunisce tutti gli odori delle rosticcerie, lavanderie, friggitorie, caserme, collegi, bagni turchi e colate di catrame. Per di più ha influssi psicologici, perchè fa venire dubbi morali e rimorsi molesti. Per esempio: è giusto mangiare orribile chili a questa frontiera invece di stare a casa facendo un lavoro serio qualsiasi?

In un paese dove i palazzi sono nuovissimi, le chiese funzionali, e i musei ridicoli, il concetto di «monumento» naturalmente si deforma e si sposta. Come l’opera d’arte può assumere l’aspetto di Oggetto Trovato o di Arnese d’Uso, così la «vista» di carattere contemplativo–turistico riguarderà ormai il Sorprendente, l’involontario, l’inaspettato Quotidiano. Oppure, il Luogo Comune. Cheap, regolare. Facciamo quindi apposta a cominciare da Forest Lawn, dove l’Arte si tira da parte per cedere il passo alla Sociologia. Questi famosi cimiteri californiani sono giustamente esemplari come accoppiamento di sagàce speculazione degli imprenditori con la ricerca da parte della clientela di segni esteriori di prestigio sociale. Ma rivelano anche qualcosa di più: addirittura una nuova idea della Morte.

Finora era stata più o meno tremenda o sacra, variamente punitiva o liberatrice o retributrice o redentrice o Sorella Morte o Manomorta. Qui forse per la prima volta diventa Graziosa e Carina: con la Cultura delegata a funzioni analgesiche e consolatorie per mezzo della ripetizione di forme collaudate dalla tradizione filistèa europea.

Questi Parchi Memoriali o Mortuari sono quattro o cinque, stabiliti di solito su parecchi chilometri di colline ingrate e steppose subito ricoperte di magnifica erba continuamente rinnovata.

Begli alberi, strade asfaltate (tutta una curva deliziosa), declivi con lapidi e fiori (quelli artificiali sono proibiti), e di tanto in tanto edifici ove s’addensa l’Arte. Per esempio, il Grande Mausoleo di Glendale: ovvero «undici piani di capolavori artistici, rarissimi marmi importati e più di trecento finestre istoriate, nonché le meraviglie della scultura: l’unico posto al mondo dove il San Giorgio di Donatello e la Pietà di Michelangelo si possono ammirare fianco a fianco».

A Glendale, nelle cappelle del parco si somministrano riti di tutti i culti, sotto l’insegna «sola nostra teologia è l’Amore». Sono chiostri benedettini e rettorati scozzesi, absidi romaniche e guglie gotiche e navate Tudor, non di rado portate dall’Europa pietra su pietra come i Cloisters di New York; oppure ricostruite fantasiosamente fra le magnolie, con cuffie uditive per i sordi, perchè possano sentire anche loro il Preludio e Morte d’Isotta e il valzer di Intermezzo. Con giardinetti a tre cancelletti per meditazioni, sedie per amanti con scioglilingua fatali, e poetiche leggende autenticate da eredi, vicari, notai, badesse.

Dalla Chiesina delle Eriche al Tempietto dei Platani al Santuario dell’Amore al Sacrario di Santa Sabina, la Morte abbraccia la vita e s’awinghiano insieme alla Religiosità e all’Arte: Apollo e Dafne con Santa Rosa da Lima, Buddha naturalmente con Mosè, i dignitari massonici con gli eroi di Guadalcanal, Canova con Pollaiolo e con Thorvaldsen. L’artista e il copista, le opere e i busti, i chioschi e i baldacchini, l’altare cosmatesco e il pozzo portafortuna. Lapidi da tutte le parti. Il Credo del Costruttore. Premendo il bottone, esce dal ligustro la Fiaba del Cristo Sorridente. Il giro è lunghissimo, il sole caldissimo, una giornata non basta.

In un tremendo odore di fiori marci, le cripte si ramificano negli undici piani del Grande Mausoleo, una Fiera di Milano travestita da Escuriale e più grossa della Stazione Centrale. Vasi, statuette, simboli massonici, motti dialettali, scritture orientali, citazioni poetiche, lettere di mamme, «ci manchi molto…».

Le centinaia di vetrate brillano di paillettes come abiti di Orry Kelly, e le statue si inseguono dal sacro più stucchevole al più indecente profano. Veneri danzanti, olandesine in zoccoli, piccole fiammiferaie, putti col cardellino, Muse della tv. Gli artisti sono quasi tutti italiani: Vincenzo Jerace, Pietro Brazzà, Antonio Savignoni, Ernesto Gazzeri, Rosa Carelli Moretti. Dal go tico si passa al moresco, dal romanico o romantico al rococò e al bombé, da terrazze di dalie e gelsomini e agrifogli e petunie a cupi angolini dove arriva il rumore delle macchine che macinano i morti. Ci si perde per scale e ringhiere, per altane e ballatoi.

Santuario della Benedizione, Gallerie Sempreverdi, Salone della Rimembranza, Corridoio della Misericordia, i lavabos, Esedra della Redenzione, Colombario dell’Amore, Pianerottolo dell’ispirazione, Santuario della Felicità Raggiunta, Salone della Serenità, Galleria dell’Esaltazione, Colombario dell’Adorazione, gabinetti, Corridoio della Riunione, Angolo della Speranza, altri cessi, Rotonda della Devozione, Scala della Compassione, Anticamera del Rifugio, Santuario della Tenerezza, Galleria del Canto… Ogni tanto, un enorme tempio, con la sua opera d’arte dentro e gli altoparlanti che la spiegano. Per esempio, una vetrata che riproduce l’Ultima cena di Leonardo, commentando che quella di Milano è passata sotto tante mani che ormai non è più quella vera. L’unica giusta è questa, conservata nel vetro intatta e fedele. Tutta una drammatizzazione: il Fondatore del Cimitero disperato a Milano; poi un’improvvisa Ispirazione: la Cena! Ed ecco l’ultima depositaria dei Segreti del Vetro. E lì tutta una cataratta di vicissitudini melodrammatiche, col lavoro che non va avanti e l’effigie di Giuda che continua a rompersi… La fusione del Perseo non è nulla, al confronto; e la storia viene accompagnata da musiche eroiche ma «buone», da varo della portaerei.

Lullabyland. Un enorme cuore di mortella e ageratum occupa l’intero fianco di una collina. Dentro, tombe di bambini piccoli, bambini nati morti, e qualche nonnina affezionata.

Anche se sono vissuti solo un giorno o due, si chiamano Henry B. Smith III o Lucius E. Brown jr, e avevano già avuto soprannomi buffi come Muggsy o Bunny. Qui possono giacere accanto ai sepolcri di Theda Bara, Jean Harlow, Carole Lombard.

Alla fine, il Museo. Due armature, pietre preziose montate e no, lettere di Dickens e Longfellow, monete citate nella Bibbia, statuette indiane, ventaglio della Pompadour, prime edizioni delle fiabe di Andersen. Gli inestimabili tesori sono tutti qui. I banchi vendono dischi della Crocifissione, un’ Ultima cena da colorare con gli acquarelli, portapenne in forma di Natività e piatti con su il Sermone della Montagna. Borsellini funebri, zuccheriere e pepiere cimiteriali. Gioielleria religiosa: clips sacre, orecchini benedetti e braccialetti edificanti.

Forest Lawn a Hollywood è invece molto più indietro coi lavori.

In fondo a una strada tipo via Flaminia a Tor di Quinto.

Ma invece dei galoppatoi ci sono gli studios della Warner Bros, deserti, con bandiere acciaccate che sventolano e un cartellone che esalta «il buon senso civico accoppiato al buon gusto cinematografico».

L’enorme cimitero qui è appena cominciato: una chiesina bianca tipo New England all’ingresso; e dietro, lavori incompiuti.

Una enorme linea elettrica passa sopra le Colline dell’Eterno Riposo appena attaccate dai giardinieri. In alto, ancora secche e gialle. Giù, l’imbalsamazione della natura segue gli stessi criteri cosmetici dei cibi colorati, delle bibite profumate, delle musiche riarrangiate, e – si capisce – dell’imbellettamento dei cadaveri.

Camion che scaricano terra, pini appena trapiantati, giovani e vecchi neri avanti e indietro coi trattori, dietro siepi di limoncini. Ogni cinque o sei metri, un rubinetto. Le vie asfaltate s’arrestano tutte dopo pochi metri, con motti di pace e gentilezza e ricordi sempreverdi sull’orlo dei marciapiedi: ma il prato dietro non è ancora stato collocato, e i mosaici in forma di Cinemascope nascono dalla sabbia a metà.

Scalinate che conducono nel nulla, larghissime. Un gran muro di marmo, con su un nome: Charles Laughton, il primo arrivato.

Controluce, irreale, un servizio funebre sul prato. Le gobbe steppose delle colline dietro. Le macchine colorate contro l’erba verdissima. Uomini in nero e donne in abito estivo contro l’orizzonte, col vento che muove adagio le gonne a fiori e i capelli.

Uscendo da Los Angeles verso Santa Ana, prati annaffiati, aranceti, baracche crollanti, roulottes; fabbriche piatte lungo il terreno, come livellate nelle pieghe della campagna; insegne di «Prestige Retirement Community»; e riflessioni involontarie sul diventare di colpo più vecchi e più saggi, con dubbi. Come sempre, improvvisamente un parcheggio sterminato, metà vuoto e metà buio; e in fondo il luccichio di enormi lettere luminose: «Pancakes 8c Steaks», «Il posto più felice della terra».

Qui Fellini, subito! Una nana in tacchi alti, calze rosse, gonna scozzese sul blu, mantelletta scarlatta e berretto da fantino, bottoni d’oro, frustini, si scudiscia le caviglie sull’entrata, sotto il cartello dei prezzi: «Ingresso, guida, e cinque avventure assortite»; oppure «Ingresso, dieci avventure assortite, e colazione».

Sarà una guida? o una visitatrice? Ci travolge una comitiva di delinquenti giovanili in cuoio nero, in gita aziendale. Entriamo a Disneyland e ci si para davanti una massa di festeggiamenti così smisurata, da buttarsi nel primo posto che si vede, non sapendo scegliere.

Non ne verrei mai fuori, è un cinema con sei schermi su sei pareti, tutt’intorno. In piedi su una piattaforma centrale si piroetta come galline impazzite per non perderne neanche uno, di questi film muti meravigliosi; e sempre sei contemporaneamente.

Una damigella in lungo si butta da un monoplano col suo ombrellino, e atterra senza spettinarsi su un mucchio di fieno.

Due malvagi rivali non vogliono che poliziotti e preti si stabiliscano nella Cucina del Diavolo, e finiscono per lottare sui binari mentre sopraggiunge sbuffando la vaporiera. Una coppia criminosa di dentisti butta una paralitica in mare per ereditarne le sostanze, ma il cane ha visto. Il fantasma dell’Opéra trascina una Semiramide fra i cunicoli. Una crestaia in cuffietta ha visioni sacre in una capanna su un ghiacciaio.

Si è sopraffatti dai godimenti. Di qui un naufragio di baleniere, di là una vergine conculcata da una megera, di su un salvataggio in cima a una ciminiera per mezzo d’un biplano acrobatico, di giù una vittoria a Indianapolis osteggiata da un grassone in cilindro. La cassiera è di cera, ma le figuranti di questa zona girano affabili in camicetta a righe e gonna lunga fra le monache sportive, i posteggi per carrozzelle, il pittore barbuto che fa la silhouette in due minuti, il carro dei pompieri che passa carico di damine, il negozio di candele tortili «di tutti i colori dell’arcobaleno».

Siamo nella Frontierland, una delle quattro zone di Disneyland, tutto un Davy Crockett. E l’illusione teatrale è perfetta: porticati western costruiti con un senso della prospettiva impeccabilmente «magico» (pianterreno normale, primo piano più basso, secondo piano bassissimo, come vedendoli con l’occhio del bambino). Il personale è numerosissimo, passano centinaia di comparse ilari e disinvolte in magnifici costumi del West o di Fantasia, tutte di gran bell’aspetto.

Le altre zone sono i Paesi delle Fiabe, dell’Awentura, del Domani.

Ma non ci si aspetti di visitarli in ordine. Mescoliamo tutto: il padiglione della chimica pieno di ottani per scolaretti studiosi e l’officina di Mastro Geppetto che vende topolini meccanici, il Matterhorn traforato di cascate, seggiovie, cremagliere, e il Nautilus che dondola e fa star male, col suo armonium del Capitano Nemo e fuori dai finestrini cofanetti di crisopazi, con la loro piovra sopra, a ventose minacciosissime. Dentro nella Balena. Fuori nei Piatti Volanti, che spiccano balzi altissimi su cuscini d’aria, sopra un fondo traforato elastico. E su nel Castello della Bella Addormentata, con gabinettini segnati «Principini» e «Principessine» nelle torrette uso Ludwig. E giù nelle canoe per la spedizione nella giungla, con imboscata di natìvi e coccodrilli che spalancano le fauci. La giostra dei cavalli è una spettacolosa torta nuziale che gira nel colonnato di San Pietro, e che cosa vende il Mago Merlino nella sua boutique?

Maschere da scienziato pazzo, con occhioni pilotabili.

L’aria è carica di profumi e gorgheggi, e nessuno distinguerebbe da un albero vero l’enorme baobab di plastica del Robinson Svizzero, con foglie di gomma che si tirano come elastici e un ristorante sulla cima. Solitudine o moltitudine? L’ottimismo previttoriano di Robinson Crusoe risolve tutto o non serve a nulla?

I bambini di tre anni entrano nelle cabine telefoniche alte un metro, invece dei numeri trovano sul quadrante le facce di Topolino e Biancaneve, possono telefonare a tutti, anche a Paperino e Pluto, che rispondono.

Il sorriso nazionale. L’obesità nazionale. Le neurosi nazionali?

Tutto giusto. Come mangiano, tutti, continuamente. Enormi quantità di popcorn, ice cream impressionanti. Bene. Trenini nel deserto. Miniere abbandonate. Isole di pirati, con tesori e mappe di tesori. Fortini con strombettii: «carica!!!». Nitriti; ruggiti; e cessini con su scritto «Braves» e «Squaws». Le sirene dei battelli, il carro dei pompieri con la sua sirena, la campanella della pieve, il trenino–singhiozzo col suo fischio svizzero, il cinguettio di Cenerentola, quello di Biancaneve, quello della Fatina dai Capelli Turchini. Battelli di Mark Twain, zattere di Tom Sawyer, galeoni di pirati, vapori a pale. Mulini a vento, e ad acqua.

Alberi con capanne di Tarzan sulla biforcazione dei rami.

Comprano cappelli (li vende naturalmente il Cappellaio Pazzo). Partono sui missili. Volano Sull’Elefantino Dumbo, con Peter Pan. S’accampano nella Valle dei Castori. Entrano nelle tazze del Folle Tea–Party, in forma di giostra, e fanno tutto il giro dalla Marmotta alla Lepre di Marzo. Forse Evelyn Waugh dopo aver cantato i cimiteri lo farebbe volentieri un romanzetto sulla vita sessuale di Disneyland, un idillio nel personale, per esempio fra un giovanotto della Horseshoe Revue in cappellone e camicia rosa con elastici neri alle maniche, e una fatina che guida il galeone di Peter Pan in fuga da Captain Hook. Insidiati ovviamente da un esploratore in casco tipo sughero che cattura coccodrilli di gomma. Eccoci al Disneyland Hótel: dal bal cone d’ogni stanza si può prendere la monorotaia, volare felici verso la Magia… Venice di giorno non l’ho mai vista. Non so cosa può sembrare alla luce del sole, se ci va gente o no. Ma si capisce che sarà preferibile ricordarla come un incubo. Ci sono arrivato per caso, scendendo da Santa Monica lungo la costa, verso le dieci di una sera di nebbia: la solita nebbia che s’alza dal mare quasi ogni notte, densa come quella finta dei film del terrore. Anche nelle notti d’estate. E di solito si passa senza accorgersi che cambiano i nomi da Manhattan Beach a Redondo Beach a Huntington Beach in un continuum sempre identico (e abbastanza sinistro) di casine basse e baracche di hamburgers e monticelli di cenere e palme morte in spiazzi ghiaiosi. Da un lato della strada, le onde sgarbate e ostili del Pacifico; dall’altro, le pompe del petrolio in fila che affondano la proboscide nella sabbia come un esercito di enormi grillitalpa neri.

A un tratto ci si trova invece in un paesaggio bizzarramente familiare, benché ancora più macabro. Somiglia a Chioggia? A Sottomarina? A Pellestrina? Strade strettissime, canali, ponticelli, campielli, mercatini di pesce… Portici, archetti gotici, capitelli con angeli e leoncini, le colonne di Palazzo Ducale, verniciate di cementite nera, un St. Mark’s Hótel in stile Rialto, col suo evangelista davanti… Delle Giudecche incompiute, delle Fondamenta Nuove irreali, delle Mercerie dilapidate, una Riva degli Schiavoni lunga come quella vera: solo, lasciata a metà. E gli abitanti si fanno intorno, come nel Settecento quando arriva un forestiero di distinzione: ma è una popolazione incredibilmente miserabile, solo nel più euforico buonumore la si potrebbe paragonare per qualche barlume artisticheggiante a una Burano di guerra o dopoguerra.

Barbe. Sandali. Ragazze vestite da giovanotto, piedi nudi, calzoni di tela di sacco. Nere obese sdraiate sul marciapiede. Vecchie ubriache che parlano da sole. Vecchini tremebondi in giacconi da marinaio stracciati. Certe piccoline panciute, non giovani, in braghe scarlatte da sulamita e pantofoline d’argento, con delle otiti, delle cataratte, comunque con tante bende in faccia: insieme a neri discinti, che si grattano; e altri neri lazzaronano foscamente, come negli eccessi più trucibaldi della propaganda razziale.

Abbandonata, decrepita, deserta, ecco dunque Venice, un sobborgo di Los Angeles di cui si sapeva vagamente che esiste, ma che cos’altro? Niente, è fuori da tutte le strade, ci si càpita solo per caso o perdendosi. Non figura sulle guide. Vedendola in questi vapori da film espressionista parrebbe magari un luna–park dell’età d’oro di Eric von Stroheim e Gloria Swanson, una Biennale da Femmine Folli; invece è molto anteriore agli anni deliranti. Risale agli inizi del secolo, era un progetto visionario di costruire sulle paludi una Venezia artificiale identica a quella vera, e altrettanto grande, un Castello d’Armida per la California. Cioè le stesse intenzioni di Disneyland. Ma qui non ha funzionato, è andata subito malissimo. Così i canali sono stati riempiti di ghiaia, e non si è speso più un soldo per la manutenzione delle case: sono andate immediatamente in rovina, costruite di materiali labili e attaccate dalla Natura nemica.

I diseredati le hanno invase perchè i prezzi devono essere bassissimi; e fanno un’impressione insieme di Bassifondi di Gor’kij, con una Cipro da Otelli delle filodrammatiche, e la più cupa Depressione di quelle drammatiche fotografie fatte dalle agenzie agricole di Roosevelt.

Nell’atrio del St. Mark’s Hótel si aggirano vecchi paralitici in vestaglia laida, senza neanche la televisione. Rari i negozi, e vendono cenci. Cellophane al posto dei serramenti. I canali sono pieni di terra e calcinacci, le strade sbarrate da paletti di ferro: cunicoli bui interminabili e certo pericolosi, con rantoli di gatti lamentosi e un tremendo cattivo odore. Macchine fracassate.

Macchine coi finestrini rotti a sassate. Macchine usate come deposito di stracci. Palizzate divelte. Cartelli di «Vietato appendere panni nei pubblici esercizi». Dalle finestre aperte, gente nuda che si dimena in stanze luride.

Queste calli lagunari strettissime e incredibilmente sporche sbucano tutte sulla falsa Riva degli Schiavoni, d’una surrealtà allucinante da cattivo quadro. Davanti, una spiaggia estesissima, farinosa, artificielle; con rotonde slabbrate e chiuse da decenni.

E al posto di una qualsiasi piazza San Marco, enormi distese chiuse al traffico: si va solo a piedi, tra fanali a gas e buche nel selciato destinate una volta agli alberi. E una Venezia che diventa irlandese, elisabettiana, cantonese, hawaiana, catalana, napoletana, della Foresta Nera, trasformandosi in un villaggio di ristoranti tipici che non hanno avuto successo e sono quasi tutti chiusi: senza battenti, e dalle finestre si vedono le sedie polverose sui tavoli, lampadine che pendono solitarie, il pavimento che si gonfia con funghi che nascono ed erbe maligne. La sala da ballo si chiama Aragon (chiusa). Un’ambulanza va avanti e indietro lentissima, ombre lontane si perdono nella vastità della sabbia, si sdraiano a gruppetti di cinque o sei.

I monumenti più cospicui di questo lungomare sono enor mi gabinetti pubblici, molti, illuminati, a pagoda, con mosaici: in uno i vecchi giocano a carte, in un altro le donne lavano la biancheria, in un altro i marinai fanno la lotta, da un altro ancora viene una tromba lacerante come nei cattivi film. Improvvisamente, alle spalle, un bar per signorine sole, affollatissimo: e schiamazzano, si percuotono, corrono dentro e fuori avvinazzate.

O vestite di sacco e a piedi nudi; oppure con manto di velluto rosso e coroncina d’oro. Mezze misure, niente.

A nord di San Francisco, invece, le highways attraversano una natura disabitata e rarefatta. La bellissima via costiera è quella percorsa dall’eroina del film The Birds: strettissima, a curve eleganti, campestre ma a mezza costa su un gran mare luccicante, fra colline chiare, e piena di boschi dietro e sopra. Addentrandosi fra i redwoods, i più maestosi e tristi e grandi alberi, in una luce subito più opaca e cupa, si passa per una zona probabilmente molto simile a come l’hanno vista i primi arrivati. Tranne – si capisce - per le due cupole dell’osservatorio sulla collina più alta.

Un cartello: «Vietato tirar palle di neve ai veicoli e ai loro occupanti».

Sotto, a matita: «Attenzione! Attraversamento di astronomi!». Sempre un po’ di nebbia. Casette di legno severe e rudi.

E giovani papà e mamme in stracci chic che allevano i bambini nei boschi perchè non possono sopportare la città.

«Proibito usare esplosivi sulla strada», invece, sulla speedway per Sacramento: tra i campi e i frutteti e i tagli dei boschi per rifornire da cent’anni le segherie. Nuovi cantieri in aperta campagna: parecchie nuove industrie si stanno stabilendo in queste solitudini fuori mano per approfittare di certi sgravi fiscali e della vicinanza alla capitale dello Stato.

A Sacramento stessa, un gran Campidoglio circondato dai giardini pubblici. Un paio di chiese costruite per rievocare il gotico. Un paio di grattacieli antiquati, di quelli che avevano ancora il tetto: verde, a mansarde. Ma nulla che ricordi i minatori d’oro o i cacciatori di pellicce o le stazioni delle corriere a cavalli o le stagioni d’Opera più tumultuose del West. Nulla che distìngua semmai questa città dalla periferia industriale di Utrecht o Arnhem. E il saloon pieno di sciantose è sostituito come dappertutto da cinema puritanicamente aperti solo di sera.

I film sono nudisti e francesi, con titoli tipo «Il suo bikini non si bagnava mai». Sono poi montaggi di pezzetti ripresi a St.Tropez con la macchina a mano: yachts carichi di ragazze che giocano a palla vestite solo di cappellini di carta da martedì grasso, con la Tahiti–Plage come sfondo e l’Espana di Chabrier come accompagnamento.

L’albergo dove mi fermo è tutto un mogano e una moquette rossa, con un congresso di veterinari della guerra spagnola (1898), curiosamente tantissimi. Su un solo divano, venti centenarie Figlie della Rivoluzione in abito da «convention»: raso bianco da Prima Comunione lungo fino ai piedi, cloche di fior d’arancio o berretto bianco da yacht, occhiali d’argento, sciarpa di raso gialla e blu. Mangiamo i nostri fichi bolliti. Pazienza.

Quindi, strada deliziosa, fra colline ripide e morbide, prati acquosi, larghi alberi sparsi. Paesini bianchi. Manifesti di rodeos, teatrini che riprendono musicals di vent’anni fa, cartelli sbiaditi di «Vendesi cavallo», carrozze e vecchie automobili sul tetto delle casine dei mediatori, come insegna. Verso Salinas, campi di verdura, fabbriche di zucchero, e all’entrata di ogni cittadina cartelli verdi per la ricerca di braccianti agricoli.

Sui bordi della strada, continuamente stands e baracche che vendono fragole, ciliegie, meloni, ribes, olive, mandorle, pannocchie, champagne locale, ogni specie di frutta secca. A un chiosco d’arance vedo arrivare una macchina con sette vecchie; scendono le tre più cadenti, chiedono al vecchino decrepito al banco quali arance fanno più succo per i soldi che spendono. Discutono per mezz’ora. Ne comprano per un dollaro, le arance sono orribili.

Su questa strada procedevano nel Settecento i francescani di padre Jumpero Serra, costruendo la Catena delle Missioni; ciascuna a una giornata di cammino dalla precedente, trenta o quaranta chilometri, una ventina in tutto per l’intera lunghezza della California. La meglio conservata è San Juan Bautista, uno dei luoghi dove la vita pare imitare i film. Lunghi porticati con archetti bianchi di calce e la balconata sopra, tetti di legno e cactus davanti: luoghi da cavalleria spagnola e peones accovacciati per terra. Stalle bianche con gran portoni; albergo giallo e rosso con veranda al primo piano su cui dànno tutte le stanze, e fregi sul tetto. Bandi incorniciati della Wells Fargo con taglie per banditi messicani colpevoli di ruberie da strada maestra. Di fronte, alla Missione, le robinie e i ligustri, le rose dei Padri, le tavolate per i pellegrinaggi, un orto di ulivi carichi di merli, un’aiuola di candide calle intorno a una statuina della Madonna di Lourdes. Ma nessuna persona in giro. Il luogo è deserto, ben restaurato, morto. Soltanto, a una fermata di autobus, un marine accompagnato alla partenza dalla mamma e dalla fidanzata. Tutti e tre obesissimi, fino al grottesco; e tutt’e tre con gli stessi pantaloni chiari larghissimi, gli stessi occhiali spessi, lo stesso passo ondeg giante e insicuro. Gli abbracci di commiato sono scene d’affetto fra orsi di pezza.

Deviando un pochino verso Reno (Nevada), ecco uno spettacoloso Gay Rodeo cautamente annunciato solo in taluni locali.

Migliaia di spettatori e partecipanti, tutti vestiti da cowboys o comunque vestiti come se, trattandosi di robusti giovani.

Soprattutto, gli abbigliati o spogliati da antichi Romani in filmacci economici. Le acrobazie sono tradizionali, classiche, nello stadio, fra le birre; ma in manti e mutande da gladiatori fanno ancora più sensazione, quando zompano da un cavallo all’altro senza briglie o si esibiscono disinvoltissimi in piedi sulle schiene dei cavalli al galoppo.

Pasadena. Ha il California Institute of Technology, è vero; e chissà quanti Premi Nobel, e fondazioni Guggenheim. Ha anche Linus Pauling; e il Blue Boy di Gainsborough nella galleria di Henry E. Huntington. Bisognerà tornarci. Ma si ha l’impressione che qui nessun boom sia mai arrivato. Sembra di fare un salto indietro nell’età di Roosevelt. Il municipio è uguale al monumento ai caduti a Sant’Ambrogio, a Milano. Il Museo, una pagoda cinese piena di divinità precolombiane. Il dipartimento del culto è un college di Cambridge, con giardini a oleandri che vanno a finire contro cupole di San Marco e campanili romanici pavesi. Il teatro, la celebre Pasadena Playhouse, è un cortile catalano, un patio andaluso. Ma il resto della cittadina pare il quartiere Trionfale di Roma.

Case quasi tutte vecchie. Cioè del Venti, del Trenta. Quindi, incredibilmente decrepite. Cottages vittoriani di legno e latta, con reti moschicide alle finestre, arrugginite e strappate. Gli intonaci gialli e verdi si pelano, i serramenti non verniciati si chiudono male e cascano a pezzi. Vecchi obesi, in camicie a palmizi tipo Truman, e calzoni rotti. La vecchia America casalinga di Arcibaldo e Petronilla… Vi si tornerà.

Una spiaggia da sbarco alleato tipo Torvaianica, per molte miglia a sud di San Francisco. Dune, cespugli, villaggi italianizzati; ma un mare molto più drammatico sotto. Alberghi tipo Des Bains. Cominciano dei Cieliti Lindi alla radio.

Compaiono i primi «cipressi di Monterey»: angolari, storti, tragici, come spezzati e devastati, crescono solo in questa regione, con delle barbe bianche di muschio. I ciuffi di bosco possono sembrare quindi parchi di ville: ma con qualcosa di giungla e di filamentoso in più.

La villetta vittoriana di uno che smonta macchine in mezzo a un improvviso deserto, circondato da carcasse. Vendite ai bordi della strada di carciofi e di mele, di piccoli cactus. Nausea da frutta secca. Delle Rimini di motels; e poi dei boschi deserti, improvvisamente, d’affascinante bellezza. Ristoranti napoletani, pizze. Campi di carciofi.

Di Monterey dovremmo magari sapere fin troppo, dopo tutte quelle descrizioni di Steinbeck (ed. Bompiani) quando c’era poco altro da leggere, in guerra. Ma i suoi personaggi non ci sono più e i loro nomi si ricordano poi? Oggi saranno ricchi, anche se probabilmente sono i loro nipotini a correre le strade presentando donne messicane ai soldati che se ne servono soprattutto per cantare in coro.

Era un villaggio addormentato di pescatori, con deliziose costruzioni ottocentesche: alberghetti messicani, teatrini, cappelle, case di balenieri in pensione, il villino di R.L. Stevenson. La guerra e il turismo hanno trasformato la penisola, ricca ora quasi sfrenatamente. Tutto intorno, cartelli di stabilimenti militari civettuoli come alberghi di una ville d’eau. Scuole di guerriglie e commandos. Corsi di lingue per le truppe d’invasione. Fort Ord.

«The Leadership Human Research Unit». Gli istituti di perfezionamento della Marina: in mezzo ai parchi, tra un Politecnico e un Forlanini e Montecarlo e Montecatini. Insieme alle centinaia di motels hanno spazzato via le vecchie attività pescatorie, che sopravvivono sporadiche per necessità di folklore. Boulevards di palme corrono lungo l’Oceano, tappeti di portulaca mauve ricoprono pesantissimi ogni sporgenza di terreno, ristoranti rustici costosi si sono stabiliti sul molo. La protezione del «naïf» è organizzata come a Mikonos. E Cannery Row non è che una via morta protetta come a Pompei, percorsa da famiglie forestiere attonite alla vista di vecchie fabbriche deserte e chiuse. Leggono «Peninsula Packing Co.» e «Enterprise Packers» e «Oxnard Canners, Inc.» e «Aeneas Sardine Products Co.» sugli edifici cadenti e scuri con lo stesso interesse curioso di chi scopre a Ostia Antica la Via dei Balconi o dei Magazzini Granari Repubblicani.

Il sabato sera, la città si riempie. File di macchine giù da San Francisco, tutti i militari fuori a bere, e chiunque ha una villa nei dintorni non sta molto in casa. Il centro di Monterey diventa Piccadilly Circus o Times Square in una notte estiva di festa.

Uomini in scuro, signore pettinatissime, studenti nel giaccone giallo e rosso di cuoio e maglia che è un’uniforme di giovinezza come la toga praetexta; italiani, cinesi, spagnoli, neri, soldati, uffizialetti in pullover; la polizia civile e militare, che ogni tanto sequestra una bottiglia a qualcuno e gliela versa in un tombino sotto gli occhi. I locali di dissipazione sono centinaia.

Esce da un vecchio teatrino una gran folla in abito da sera, dopo aver visto le Footlight Follies, una rivista per beneficenza data da dilettanti chic con biglietto a cinquanta dollari. Entrano altri in jeans e maglione a un teatrino vicino costruito intorno al 1850 e inaugurato pare da Lola Montez. Qui altri dilettanti rappresentano fedelmente gli antichi melodrammi popolari irlandesi senza «metterli al corrente»: pieni di sotterfugi e presentimenti, rivelazioni, minacce, pericoli, sventure, disperazioni, svenimenti, con enormi barbe finte. E nel piccolo foyer, bacheche di memorie, vecchi costumi e programmi e libretti e ventagli e parrucche.

Una famiglia perseguitata dagli usurai. Padre e madre che si chiamano fra loro «mother» e «O’ Grady». La figlia Molly testa–rossa, bella e risoluta, concupita dal creditore con la barba che la ricatta con le cambiali in mano, e lei risponde fieramente di no. Torna un fratello emigrato, li vuol portare nella Terra dei Liberi: ma lasciare le memorie dei nonni… Un giardiniere e una cameriera si uniscono nelle abnegazioni, si tolgono il pan di bocca: lui dialettale, col berretto, comincia tutte le battute con «come stavo dicendo…». Gli usurai, a passetti e falsetti: fischiatissimi dal pubblico. Gli «aparte», tutti ululati. I momenti di fierezza, battendosi le mani aperte sul petto. Molly più di tutti, con rumor di ciccia. Arrivi e partenze che devono restar nascosti, rumorosissimi. Prima che il personaggio entri, passi spietati a lungo fra le quinte. Ottimo odore di pancakes dalla cucina. Negli intervalli, spuntino e pianista. Alla fine, fuori–programma di balli tradizionali.

I bar si chiamano fantasiosamente Pigalle o Colony, Ferro di Cavallo o Gabbia d’Oro o Dollaro d’Argento. Vittoriani–opulenti, o scandinavi–ascetici, o Luigi XV, o Liberty: o le diverse cose insieme. Alle pareti, tappezzerie a rose rosse su fondo nero unito; o damasco amaranto con piatti inglesi e appliques d’ottone con globo rosso a fragolona. Lampadari, a gas o al neon, gialli e celesti. Baldacchini capitonnès sopra i bar, sopra la macchina delle sigarette, sopra il juke–box. Panneggi di stucco dorato. Una parete a musmè: tante Madame Butterfly su mensoline rococò. Abat–jours su odalische alla Brancusi. Angioletti su specchi molati. Vetrine piene di bouquet nuziali, borsette di perline, ventagli romantici, manicotti edoardiani, sciar pe neogotiche, e sopra una pergamena scritto: «È la miavita!

Sono io che la vivo! Gli altri non c’entrano!».

In mezzo, una enorme gabbia clorata, infiocchettata come un albero di Natale, con uccellini di strass e luci magiche dall’alto.

Dentro, seduta a un piano–bar di specchi e paillettes, una di quelle vecchissime sciantose tipo «red hot marna» che vengono tirate fuori da ogni ospizio dopo trent’anni di dimenticanza perchè sono la più furiosa attrazione di questi anni.

Vecchissime, biondissime, grassissime, professionalmente allegre e grottescamente truccate, vestite da bambine ma proiettate sul Passato e sul Mito. Quindi non inquietanti nè pericolose, in nessun senso. E per di più, chiuse nella gabbia. Perciò, adorate dagli spettatori del sabato sera. Sei ore di coro, come minimo. I Love Paris, Mack the Knife, Oh What a Beautiful Morning, Carefree!, Stranger in Paradise, tutto sulla nostalgia, sui ricordi, su «ciò che sarebbe potuto essere e non fu». Impressionante, quindi, dal momento che l’età media di questo pubblico è sui venticinque anni, l’abbigliamento sul cashmere a colorini tenui, e tre quarti sono allievi ufficiali di carriera che trovano in Mae West un’alternativa romantica al missile. Dietro l’angolo, nello stesso isolato, i neri cantano le stesse canzoni nel locale riservato a loro, con una nera altrettanto vecchia e grassa ugualmente in gabbia su un piano–bar più modesto.

Più tardi, ubriachezza e pentimento. Per il gran rituale puritano della colpevolezza da weekend è disponibile una sola tavola calda aperta 24 ore. La prima volta ci passo prima di cena in un vortice d’uffizialetti in rosa e lilla. La seconda, sei o sette ore dopo, con un pianto di cowboys davanti alla televisione. Venuti in Porsche da Los Angeles a trovare un fratello militare; ma era consegnato e non poteva uscire. Così s’erano ubriacati insieme, non potevano più guidare nè l’uno nè l’altro; e intanto gli era venuta fame. Quindi, tutto uno sbrodolar birra, un abbraccio alla salsa di pomodoro, un lacrimare sopra i piselli, un singhiozzo alla cipolla gemendo alla senape «non giudicarmi così perchè mi vedi sporco di cibo, a Beverly Hills ho i miei “dates” con una nota starlet…». Il momento è deamicisiano; ma soprattutto perchè la donnina che ci serve è la medesima di sette ore fa. Piccola, non giovane, bruttina, magra, indifesa, in piedi da tutta la sera: eppure professionalmente alacre, in un paese dove chi non è giovane e piacevole e allegro viene messo da parte e buttato via.

Sul promontorio, la riserva Del Monte: si passa di colpo da paesaggi estremamente selvatici ad angoli pettinatissimi. Pineta tipo Castelfusano: però espressionistica, data la forma folle del cipresso di Monterey. Urto di correnti oceaniche, cartelli di naufràgi. Sabbie bianche, cave per vetrerie. Masse di uccelli marini immobili. I cerbiatti di Walt Disney. Non ci si può fermare, anche perchè la strada è stretta, se non nei punti designati.

Tutti lì fermi, per esempio, a guardare il cipresso solitario: uguale agli altri, l’unica differenza è che sta solo, non nel gruppo poco più in là.

Poi si diradano gli alberi, s’aprono prati verdissimi, i campi di golf più belli al mondo; vecchine giocano sole, in tweed, e fatta la buca risalgono sul camioncino che serve da caddy, con le loro mazze dietro. L’albergo è tra una Villa d’Este e un Formentor, con bungalows e boutiques. Ma molte casine sono sepolte nel bosco, con cartelli all’inizio dei sentieri: «The Smiths House», «The Chas. D. Smalls», «The Edw. B. Rogers».

Alla fine, Carmel, forse la più bella spiaggia californiana. Somiglia al Forte dei Marmi di oggi, ma scende con un pendio come la Marina di Massa. I cipressi sono stupendi, la spiaggia candida, i negozi e i ristoranti ancora abbastanza belli, le ville nuove piuttosto volgari. Sopravvivono diverse civetterie: le case senza numero, la posta che non arriva (però fra i vialetti solitari i radar controllano gli eccessi di velocità delle macchine). E qualche pittore rispettabile dei vecchi tempi eremitici non se ne è ancora andato. Ma il luogo sta per scoppiare sotto gli arrivi turistici.

In fondo al paese, un’altra Missione deliziosa: campi, vigne, porticati, cimiteri e come simbolo tangibile della condizione sospesa dei Padri i loro servizi da tavola: porcellane che arrivano metà da Cardiff e metà da Canton.

Ci sono un Little Sur e un Big Sur. Fra i due, Point Sur, un promontorio brullo con un faro in cima a un aeroportino da elicotteri dietro. La natura è settentrionale e solare, pare la piana di Colico o la Valtellina, di un bel verde pallido brillante.

Il piccolo Sur non è gran cosa; valli di mezza montagna, ma senza genziane: prato gialloverde, erosioni color zafferano, fiorellini modesti e gialli, erbe grasse rossastre, qualche macchione con la sorgente dentro. Giù al mare, Cogoleto cinquant’anni fa. Da San Francisco a Los Angeles, sembra ancora la riviera ligure prima della colata di cemento.

Lungo la costa deserta, capanne di legno, rade di baleniere, cassette per la posta sperse nelle rovine, all’imboccatura di un canyon sassoso. Cassette e porte sono spennellate a colori vivaci dove un pittore si è costruito la baracca da sé, con assi e latta.

Ma i dintorni sono lasciati squallidi: pochi fiori su stecchi alti nelle discese polverose fino agli scogli. Gran vento sempre: in giro con giacconi da marinaio, a spasso col cane che addenta ranuncoli.

La nebbia pare fitta a tutte le ore. Il parabrezza, sempre bagnato.

Poi cominciano gli alberi. In una decina di chilometri, come un salto dalle Prealpi alla Baviera: una lunghissima valle, stretta e umida, una meravigliosa aria d’alta montagna. Bosco fitto e nero, alberi che si saldano in cima a volta da cattedrale, cespugli tipo lamponi, tanta acqua che cola, baracche di legno dove ci si aspetta come minimo il camoscio al mirtillo.

Invece, il solito hamburger con salsa ketchup; e una paradossale tirchieria applicata all’abbondanza, la prima volta che mi càpita in questo paese. Tutto un sistema d’ingegnosi aggeggi, probabilmente costosissimi in sé, per risparmiare zucchero e tovaglioli, economizzare sapone e senape. «Sta qui vicino Henry Miller?» chiedo all’emporio che vende tutto in mezzo alla foresta. «Very nice» risponde il padrone. «Però sono trenta miglia su per un canyon non asfaltato: di consegne a domicilio a queste condizioni è chiaro che non possiamo farne».

Back to Santa Monica, l’inevitabile termine di tutti i boulevards; e il Sunset che viene meno torcendosi in un complesso dedicato a tutte le religioni. Dunque moschee, Madonne, mosaici, mulini anche a vento, calotte, cupole. E l’ormai immancabile viale delle palme – una Sanremo più bella – con gerani e azalee e begonie, e ville subito dietro la passeggiata a mare. A sud, verso Long Beach, la fine del mondo occidentale, ormai già vista una volta: quel triste paesaggio a gobbe gialle e secche. Gole, canneti, palafitte, Venice, tramonti tempestosi, parcheggi deserti, nebbie e vapori dopo il crepuscolo. A nord, per Malibu, il lungomare delle Palisades alto sulle rocce. La collina alle spalle.

La costa, un’altra Torvaianica: spiagge molto volontaristiche, speculazione piuttosto frenetica, mare che per molte miglia si vede e non si vede. Coperto da casine polinesiane: una addossata all’altra, per godere tutto l’anno i piaceri della vicinanza d’ombrellone. A destra, rocce scure con qualche cespuglio in cima.

A Malibu, infine, una spiaggia libera. E una pizzeria trendy, presso un molo tipo Brighton. Davanti, un po’ di generici della tv fanno del surf–riding; strillano buttandosi sulle onde; tornano sulla strada al tramonto scuotendosi la sabbia dai mocassini.

Alle spalle, un «eremo francescano» offre ritiri spirituali anche cheap. Le magioni favolose restano invisibili.

Girando tanto in macchina intorno a Los Angeles si ascolta naturalmente della gran radio: una dozzina di stazioni, tutte perentorie e ottimistiche. Sempre canzoni su San Francisco, il Golden Gate, i cable cars. Ce ne sono molte di più che a Milano sulla Madunina e i Navigli. Nelle radio dei tassì, invece, una eterna partita di baseball che non cessa mai, giorno e notte, coi suoi applausi di folla regolari e uguali.

La réclame che si sente di più è un coretto nasale e smorfioso con un banjo. Ripete incessantemente, accelerando come nel Bolero di Ravel «a dollar down and a dollar a week», ed elenca in mezzo le infinite cose che si possono comprare a rate, un dollaro subito e poi un dollaro alla settimana. Alla stazione radio italiana, canzoni risorgimentali e reggimentali probabilmente apocrife: «Te saluta ogni mattina / te saluta ogni cuggina / te saluta ogni cognà». Qui la pubblicità è bizzarrissima, fatta in una lingua italiana che non esiste: esageratamente floreale e liberty, come se si fosse sviluppata autonoma dalle réclames dannunziane dell’«Illustrazione Italiana» ai primi del secolo, prosperando senza più contatti col «parlato» della madrepatria.

«Ci permettiamo di offrirvi una leggiadra canzone, col vostro riverito permesso…». «Una eletta schiera di specialisti del salame mantiene alta la delicata tradizione nazionale degli insaccati…». «Quel signore si sta godendo il fumo del suo sigaro… si accende facilmente… brucia uniformemente… ma non vogliamo dirvi di più! Lasciamo all’eloquenza del suo aroma…».

Per forza in uno Stato così basato sull’automobile la polizia del traffico diventa importante come la milizia nelle dittature.

Ma diventa anche la scelta a portata di mano per il maniaco esibizionista che non può uscire con tante frange addosso, sennò lo arrestano. E poi la corruzione della polizia californiana è leggendaria, ripetono tutti: tradizionalmente enorme, zarista, gogoliana, grottesca.

Le divise sono incredibili. Tutto quello che può desiderare un mitomane col solo scopo d’abbigliarsi fantasiosamente e percuotere taluno con impunità. Anche il sogno a occhi aperti del bambino di sette anni ingordo di giocattolini. Casco d’oro lucido; bluse di raso gialle e blu come l’Opéra di Parigi, calzoni a bandine di passamaneria come nelle riviste della Osiris, giacconi con baveri di castoro; guantoni con paramani da moschettieri, stivaloni a fiocchetti per tenere l’arrestato «sotto il tallone» fuor di metafora e con viva reciproca soddisfazione sadomaso.

Moto bicolori. Fanali gialli e rossi e arancione. Catarifrangenti celesti; tubi di scappamento cromati; marmitte rococò. Telefonino per giocare a far «Pronto Pronto Centrale». Catenelle argentate e dorate sugli stivali e intorno alla vita. Anche parecchie poliziotte: abbronzate e depilate e vestite da omacci. Ogni giorno, sui giornali, abusi di polizia tremendi. Nei locali «leather», anche chi finge fa tremendamente sul serio.

Multe frequentissime, quante se ne sono prese. Dieci o dodici dollari per ogni sosta vietata o voltata da una corsia che non va bene. Ma non si possono conciliare subito, gli agenti non possono ricevere soldi. Bisogna andare ogni volta alla sede centrale.

In un paese che è il trionfo del civettuolo, degli uffici di tipo parrucchieresco, delle chiese agghindate come modisterie, dell’anagrafe–confetteria, delle banche piene di tulipani e di valzer, l’edificio delle multe a Los Angeles è tutto a vecchi mattoni e tubature arrugginite, come un orfanotrofio di Dickens, in mezzo a un quartiere di demolizioni. Niente musiche. Pavimento da palestra fascista. Alle pareti, diapositive illuminate d’orribili disastri. Nessun particolare risparmiato. Chevrolets che fracassano Buicks, Studebakers che esplodono, mg triturate dal treno, Corvettes infilate nei burroni, volanti di Oldsmobile conficcati nello stomaco, folle intorno a cadaveri, facce sfigurate, nasi tagliati, familiari piangenti, corpi sanguinolenti, assicurazioni che pagano poco.

In fila, mamme nere pettinate alla Paggio Fernando con la loro rete della spesa, e giovani mogli in camicia da uomo e blue jeans che pagano la multa del marito. Ma agli sportelli, impiegatine nasali e timidissime che succhiano giuggiole e rispondono che non san niente, loro sono contabili e basta. Impossibile quindi ogni contestazione.

A Beverly Hills invece si deve entrare in Municipio. Un’Alhambra fra magnolie fiorite, con anche del Positano e dello Stupinigi. Dentro, una biblioteca… uguale al cinema Odeon di Milano; gabinetti di marmo grigio; e un’aula di tribunale tipo birreria di Merano, però con panchetti imbottiti come i sedili della Jaguar. Alle multe, un impiegato cortese e mondano scherza con tre grossi bambini (hanno la patente a sedici anni) e intanto si svaga con me in italo–spagnolo forse anche un po’ rumeno.

«Piuttosto che pagare vado in prigione, si potrebbe?» ride uno dei tre. E gli altri, sghignazzando: «Vacci, vacci, che poi ti veniamo a trovare, ti portiamo le arance e i compiti».

Arriva, verso le dodici e mezza, una comitiva di signore, tutte con la loro multa fresca: il trionfo del visoncino azzurro, del bassotto da Signor Bonaventura, del completino da patio gialloverde, della pantofola di lamé. Fuori, la Rolls–Royce rosa e la Bentley mauve. Come civetteria fine, la Volkswagen d’oro.

America Amore
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