CAMPUS
Il nome di Harvard, una delle Università più importanti e famose del mondo, incute reverenza a tutti gli americani, ma non certamente alle ragazzine che sbarcano lì ai primi di luglio, per passarci i due mesi della Summer School, e scaricano bauli, casse, ferri da stiro, asciuga–capelli e racchette da tennis dalle giardinette guidate dai padri e dai fratelli. Cariche di tutti i loro arnesi e di borse di tutte le forme, prendono possesso dei dormitori che hanno ospitato soltanto maschi per secoli; di solito vengono installate nelle case delle matricole, abbastanza rozze e sotto sorveglianza più diretta: quelle degli studenti anziani, più chic, sono quasi sempre chiuse d’estate, e quindi nessuna avrà la soddisfazione di dormire nel letto dell’Aga Khan.
Le case delle matricole sono tutte intorno a uno dei posti più belli che esistano, lo Harvard Yard, il vasto prato verdissimo e ombroso, pieno di vecchi alberi folti, carichi di scoiattoli che vanno su e giù per i tronchi, attraversano l’erba e si fermano a mangiare vicino alle persone distese, senza nessuna paura, con le loro manine e codone sempre in moto. Gli edifici intorno o dentro allo Yard sono generalmente di mattoni rosso–scuri, con portichetti e serramenti verniciati di bianco, a due piani, se si tratta di dormitori; le biblioteche e gli uffici delle Facoltà hanno invece volentieri facciate quasi imponenti, colonnati, scalinate, campanili con guglie e cupolette bianche e blu. Raggi di una luce incantevole filtrano dai rami spessi, come se si fosse nel bosco di Biancaneve, a illuminare i colori verde e fulvo dominanti; nelle ombre del crepuscolo diventano vividi e cupi.
Ciascuna delle case che accolgono più di tremila ragazzi e ragazze per la scuola estiva non ne contiene mai più di una cinquantina.
C’è un ingressino, una scala di faccia, e da una parte e dall’altra, al pianterreno, le common rooms, con qualche poltrona, un televisore, un frigorifero, un’asse per stirare, un fornello, e il lavabiancheria nel seminterrato. Le stanze sono distribuite in appartamentini: e ciascuno ha a sua volta una piccola common room, o sala di studio, con le scrivanie, le lampade, le poltrone, il camino; e due camere da letto, con una o due brande, affiancate o sovrapposte, un armadio a muro, e pochi altri mobili. Non esistono serrature alle porte interne. Le docce sono meravigliose. I saponi, gialli accesi. E poi ciascuno porta quello che vuole, quadri, vasi, sedie a dondolo, statue, bandiere alle pareti, portabiti da appendere al muro. I ragazzi non possono entrare nelle case delle donne, e tanto meno queste possono ricambiare la visita, neanche col pretesto di aggiustare la biancheria. C’è una polizia molto severa che ha sede nello Yard (l’Università ha il suo proprio corpo di polizia, come il suo servizio postale, la sua impresa di costruzioni, e tutto), e sorveglia ogni movimento. Le case degli uomini stanno aperte, con porte spalancate, per tutta la notte; quelle delle donne chiudono all’una. Se una ragazza torna dopo quell’ora, non le fanno niente; ma dato che non esistono portieri o custodi, deve andare al comando di polizia, e un sergente con la Colt alla cintura e una lampadina tascabile la accompagna fino alla sua porta, le strappa via il maschio se ne ha uno insieme, e la richiude dentro fino alle otto della mattina. Se una sta male, deve telefonare che la vengano a prendere.
Una ragazza che arriva a Harvard per la prima volta approda in un posto che è stato a lungo una università esclusivamente maschile, anche se a un certo punto è stata affiancata dalle istituzioni di Radcliffe, facoltà e dormitori riservati alle donne.
E un posto che ha sempre avuto uno straordinario prestigio, e questo si riflette su tutti quelli che ci sono passati: gli scienziati, gli storici, gli amministratori più importanti hanno studiato e insegnato qui; i personaggi più notevoli della nazione, compresi parecchi presidenti degli Stati Uniti, ci hanno passato anni di studio; e i visitatori stranieri più illustri ci sono capitati tutti, prima o poi. Di qui vengono fuori i consiglieri politici ed economici del governo, i dirigenti delle grosse industrie, gli autori di libri che vengono subito discussi in tutto il mondo. E inoltre è un posto che ha una forte fama di severità scientifica, di non–conformismo politico, di orgoglio intellettuale, di una moralità personale che va da eccessi di puritanesimo a punte di diabolismo… Ce n’è abbastanza da mettere paura, o soggezione, a tutti quelli che arrivano, generalmente da remoti paesi dell’interno, soprattutto per poter dire «sono stato a Harvard» dopo aver fatto i due mesi della scuola estiva. Le tasse altissime, infatti, le iscrizioni ristrette, e la severità degli esami, rendono abbastanza difficile a uno studente ordinario di fare qui tutto il suo corso di studi. Ma la scuola d’estate non è molto stretta; e non è riservata ai più ricchi o ai più bravi.
Quando questi tremila ragazzi e ragazze, generalmente molto giovani, arrivano ai primi di luglio, si sono già iscritti a qualcuno dei corsi seguenti: antropologia, astronomia, biologia, chimica, lingua cinese, letterature classiche, economia politica, magistero, fisica, matematica, inglese, francese, storia e lingue orientali, belle arti, geografia, geologia, tedesco, pubblica amministrazione, relazioni internazionali, storia, linguistica, italiano, giapponese, spagnolo, scienze mediche, mineralogia, musica, filologia, ingegneria, scienze politiche, psicologia, lingue slave o semitiche, relazioni sociali, sociologia, statistica, zoologia; e ciascuno di questi corsi è poi diviso in infinite classi e specializzazioni.
È incredibile come tutti prendano lo studio con impegno; è verissimo però che viene favorito da condizioni d’ambiente meravigliose.
Il «campus», cioè il terreno alberato vasto e sereno su cui tutte le università americane stabiliscono i loro edifici, si trova nel mezzo della città di Cambridge, alla periferia di Boston, circondato da case e negozi che vivono tutti in qualche modo sulle necessità del mondo degli studenti. Fra le pochissime cose che quindi si richiedono a questi la principale è di vestirsi in maniere non indecenti, perchè lo Yard è aperto, e parecchia gente di Cambridge deve attraversarlo per andare da una parte all’altra della città. Durante l’anno accademico non c’è bisogno certo di avvertimenti simili: l’abbigliamento degli harvardiani è tradizionalmente molto chic: bei vestiti scuri, belle camicie di oxford, button down, cravatte di foulard, scarpe inglesi.
Ma nel corso estivo le regole di eleganza sembrano scomparse.
Il caldo e la presenza femminile cambiano ogni aspetto severo dell’Università, e fra i banchi, gli scaffali, le rilegature, non si vedono più giacche di tweed o pantaloni di vigogna, ma gambe abbronzate, braghette corte, camicette di nylon verdi o rosa.
Abbastanza inverosimile, per noi, è la mancanza di civetteria in queste ragazze. Una fanciullina italiana, portata qui, prova uno shock improvviso a vedere le sue coetanee, ed è una cosa che ho visto capitare più di una volta. Quale delle nostre fanciulline andrebbe intanto a passare i due mesi di vacanza tra le aule scolastiche e le biblioteche di Facoltà, sia pure col deliberato proposito di trovarsi un fidanzato «definitivo»; e poi, una volta fatta questa scelta che implica la rinuncia al mare (perchè qui le vacanze sono molto più corte delle nostre, e la scuola estiva le riempie tutte), andrebbe caso mai portandosi dietro non più di un paio di abiti belli, da mettere pochissime volte, e riempiendo invece le valigie di calzoncini e di camicette?
Qui uomini e donne sono vestiti nello stesso modo, in calzoncini, appunto; e dal momento che i veri shorts non sono ammessi se non alla spiaggia, portano quelli cosiddetti bermudas, cioè le braghe lunghe che siamo abituati a prendere in giro quando le vediamo addosso ai boy–scouts; e naturalmente queste americane sono fatte di bellissime stoffe, tinte unite pastello, quadretti chiari e scuri di «Indian madras», fiori rabescati tipo cashmere, righe un po’ somiglianti a quelle dei tessuti per arredamento; ma non c’è niente che mortifichi di più la gamba, e trasformi la figura più svelta in una mezza burattina, tanto più se queste braghe sono accompagnate da camicette uso liquidazioni nei grandi magazzini, e peggio ancora dalle scarpe da tennis o da pallacanestro, col loro calzettone di lana bianca a metà polpaccio. Anche parecchie donne vecchie e grosse in città vanno in giro con sederi enormi che scoppiano dentro i bermudas.
Il normale abito estivo, di tipo princesse, con le maniche o senza, si vede praticamente solo alle festine del venerdì sera; ed è già tanto se si arriva qualche volta alla gonna e camicetta; ma calze di seta, scarpe col tacco, borsette, foulards, bei golfini, niente.
Per donne e uomini, poi, come scarpe non esistono altro che i mocassini marron, al di fuori delle scarpe bianche di gomma: ma sempre coi calzettoni alti; e neanche nell’uomo fanno un bel vedere, con le braghe al ginocchio e il cappello di paglia che qui si porta molto frequentemente; eppure questo è uno stile d’abbigliamento così diffuso e normale che ben presto cessa di sembrare ridicolo anche a noi che veniamo da altri paesi.
Continuerà a colpirci semmai la serietà esagerata che si accompagna a questi vestiti buffi.
La vita in comune al campus comincia abbastanza presto alla mattina, perchè la mensa della Harvard Union chiude alle nove, e chi non ha fatto colazione a quell’ora deve andare ai corsi a pancia vuota. Le case degli studenti non sono attrezzate per cucinare; e tutti in principio ricevono una carta per mangiare alla Union, che è un bel posto, a saloni e verande, pareti di legno, ampi tavoli scuri, ampi ritratti di benefattori in cornici dorate, trofei di caccia sui muri e coppe vinte nelle gare di canottaggio. La cucina funziona piuttosto bene, col sistema del self–service: i clienti si mettono in fila, prendono lungo la strada le loro posate con un vassoio tondo diviso in parecchi scompartimenti, e passano davanti a uno schieramento di vecchie sorridenti vestite di verde, che versano mestolate di pappa in ciascuno di questi. Sono sempre cibi già un po’ digeriti: composte di verdura, carne accomodata, gelatine colorate, frittatine con legumi, densi brodi, dolci farinosi; e si beve tè ghiacciato o latte o caffè. Il vino e la birra sono peccato: quindi niente.
Ai tre pasti si va vestiti nello stesso modo, e ci si sbriga in un quarto d’ora, venti minuti: non di più. Poi si riprende il vassoio, con i bicchieri e le posate, e si riportano allo sportello dei piatti sporchi. E poi, indietro a studiare, anche di sera: prima delle sette la mensa è già chiusa, il sole è ancora alto sul campus, e le biblioteche rimangono aperte fino alle dieci, come oasi meravigliose d’aria condizionata, piene di tutti i libri e giornali e riviste che si possano desiderare, e che si vanno a prendere negli scaffali tutti aperti al pubblico. Due chiacchiere sulla porta, e poi dentro tutti: ma di sera si va spesso all’ultimo piano della Lamont Library, nelle Stanze della Poesia, arredate come salottini, con eleganti abat–jours, poltrone di cuoio rosso, riproduzioni di bei quadri, e tanti grammofoni collegati a cuffie: così ciascuno può sentire le sue opere e le sue letture di versi senza disturbare il vicino. La discoteca è ricchissima. Tutti per prima cosa si tolgono le scarpe, e mettono i piedi sulle poltrone accanto. Nei gabinetti, ci si struscia e sfoga abbondantemente ma piuttosto automaticamente.
È per noi abbastanza incredibile la familiarità dei rapporti fra i professori e gli studenti: le classi non sono che raramente vere «lezioni», ma più spesso gruppi di lavoro che discutono intorno a un tavolo; e gli insegnanti non sono dei tipi pomposi che hanno fretta di scappar via appena finita l’ora: passano al campus tutto il giorno, sempre disponibili dato che sono pagati per quello, si stendono anche loro all’ombra dei grandi alberi, vanno a mangiare qualche volta alla Union, o invitano i loro studenti al Faculty Club, al caffè, al cinema. Però si finisce per uscire poco dal recinto dell’Università: è tutta qui dentro che la vacanza si svolge. C’è naturalmente, per il pomeriggio, il fiume a due passi, con belle rive erbose, e due stabilimenti sulle due rive, per le barche e i bagni: ed è il posto migliore per prendere il sole. C’è una bella piscina chiusa, circondata da palestre, dove si va di solito verso le cinque, appena prima di cena.
Ci sono i cinema, vicinissimi, appena fuori dello Yard; e bei caffè, ristorantini preziosi, birrerie che servono piatti squisiti e liquori europei. I negozi d’abbigliamento, spesso filiali di case chic come Saks, sono raffinatissimi; la maggioranza finisce per andare però alla Harvard Coop, di cui tutti gli studenti sono soci (per un dollaro di quota), ed è un grande magazzino che vende di tutto, dai vestiti alla profumeria alla cartoleria: hanno anche una libreria ricchissima, un servizio di lavanderia che funziona bene, e alla fine dell’anno rimborsano il dieci per cento sugli acquisti fatti.
Su questi fondamenti la vita del campus va avanti per i due mesi della scuola estiva. Chiunque è libero di cambiare i corsi scelti, dopo un po’ – darà gli esami che vuole, alla fine -, e si passa la maggior parte del tempo coricati sull’erba del prato, o nel fresco delle biblioteche, con tanti bei libri difficilissimi a portata di mano. Ho imparato ad ammirarli, ragazzi e ragazze, per questo impegno costante di passare tutta l’estate studiando in maniera abbastanza seria, anche i belli e le belle li ho sempre visti alle prese con Russell, Kierkegaard, Wittgenstein, Max Weber, Galbraith, Leavis, Richards, Fromm. La scuola estiva, è vero, offre ancora una quantità straordinaria di attrattive, tutti i giorni: conferenze di tutte le specie, concerti all’aperto, serate di discussioni politiche, notti all’osservatorio astronomico, pomeriggi all’orto botanico, proiezioni di documentari artistici, sermoni religiosi, tornei di tennis, audizioni di musiche rare.
Non so da noi quanta gente ci andrebbe: qui c’è sempre pieno. Attraversando poi la grande pace del campus, di sera, si sentono da uno scantinato arrivare le voci di quelli che provano The Man Who Came To Dinner, da rappresentare negli ultimi giorni, brani di Hândel giungono per l’aria scura, ed è la società corale che fa le prove in una delle aule maggiori; e in occasioni più festive suoni di strumenti a fiato portano fuori dal Memorial Hall musiche d’ogni specie, dai motivi di Gigi e My Fair Lady ai concerti per piano e orchestra di Grieg e Rachmaninov, trascritti per banda.
Ma poi ci sono le occasioni «sociali»: specialmente per queste le ragazzine calano a Harvard. C’è l’ora del punch ogni mercoledì pomeriggio nello Yard; e qualche bell’abitino leggero, qualche nastrino fra i capelli vien fuori e circola fra la folla che beve in piedi le piccole coppe di succhi di frutta e vino offerte dall’Università su una lunga tavola bianca. Ci sono le square dances un martedì sì e uno no, con un caller spiritoso che manovra queste specie di quadriglie proprio come si vede nei film western, e tutti si buttano dentro sudando con un gusto entusiastico.
E ci sono soprattutto i balli del venerdì sera, alla Harvard Union affrettatamente sgombrata dei tavoli. A queste feste bisogna arrivare presto, prima delle otto, perchè appena la sala è piena i pompieri sbarrano gli ingressi giacché ci sono delle disposizioni assai rigide sugli affollamenti, e le coppie in ritardo possono entrare nella sala solo man mano che altrettanti escono.
Finalmente, a questo punto le ragazzine si liberano dei loro fagotti, delle braghe orrende, e arrivano vestite in una maniera decente; anche dai maschi ci si aspetta che mettano giacca e cravatta. Fino a mezzanotte si va avanti con la musica, le aranciate, le angurie; poi, c’è qualche giro in macchina sulla riva del fiume; e ci sono soprattutto le lunghe chiacchierate sui gradini delle case femminili, in una stradetta oscura piena di rampicanti, dietro la maestosa Widener Library.
Il nome che si dà a questa stradetta è ahimè Pigs’ Alley, che viene dal termine comunemente usato per definire quelle che si chiamavano un tempo da noi «le racchie» e in seguito «gli scorfani»: i ragazzi americani dicono semplicemente «le porcelle»; e la stradina è il sentiero delle porcelle. Ma le interessate lo sanno benissimo, e a loro non importa niente. Sanno bene di essere le più forti. Le donne americane, si sa, sono spesso autoritarie e invadenti, da adulte; ma è già straordinaria la sicurezza di sé che dimostrano quando sono ancora piccole, tanto più se paragonata alla tradizionale timidezza dei loro coetanei, incerti, infantili, pieni di indecisioni, e bisognosi sempre di qualcuno «che spieghi tutto». Le ragazzine queste cose le sanno benissimo, hanno visto al cinema tante volte che è la donna che deve fare il primo passo: fermano il ragazzo scelto, in biblioteca o alla mensa, e con tranquilla autorità gli dicono quello che deve fare, a che ora andarle a prendere, fino a che punto arrivare, niente di più, niente di meno.
Il ragazzo da parte sua sa bene che così si finisce marito e moglie al più presto, e che la ragazza proprio per questo è venuta a Harvard: d’altra parte in questo paese, se si passano di poco i vent’anni senza sposarsi, tutti lo considerano un fatto un po’ strano; e quindi ogni sera affollano i gradini della Pigs’ Alley, prima che la polizia faccia il giro dell’una di notte, e chiuda tutte le porte. A due a due seggono all’ombra, e la ragazzi na spiega al maschio cosa deve fare nella vita: lui dice e accenna sempre di sì.
E poi, improvvisamente, un mercoledì più fresco degli altri, quando le coppe di punch sono vuote, e la musica finisce e il crepuscolo viene sul prato, ci si accorge che l’estate è finita e domani ci sono gli esami. Passano questi due o tre giorni di ansie, di trambusto: si è fatta anche la recita, e sul giornalino settimanale della Summer School si è letto che l’oratorio di Hândel è stato ottimamente eseguito: i voti finali sono fuori negli atri delle Facoltà. Ecco che ritornano i grossi padri e fratelli sulle giardinette con targhe del Middle West; e si ricaricano le valigie, le racchette, i ferri da stiro. Ma stavolta nella borsetta a mano c’è un indirizzo da tenere stretto.