Gli amadoda osservarono, in basso, l’enorme complesso in cui Baltazar Lobo viveva e accumulava la sua fortuna. La casa era stata costruita in una conca quadrata, con pareti di fango imbiancato prive di finestre, alte più del doppio di un uomo e sormontate da merlature, mentre la sezione interna si apriva su un cortile centrale che scintillava di vegetazione e fiori. È sicuramente lì che hanno portato Judith, immaginò Aboli, lieto di aver avuto la lungimiranza di portare con sé il rampino.
Si sentì toccare su una spalla e vide uno dei suoi compagni indicare, sotto di loro, una fila di schiavi guidata da un bianco corpulento in sella a un mulo che si avvicinava all’ingresso dell’insediamento. L’uomo era Capelo e, come previsto, l’unico prigioniero bianco al centro della fila era Hal.
«Ti vedo, Gundwane», disse Aboli. Quelle parole erano particolarmente significative, perché «Ti vedo» era il saluto utilizzato dalle popolazioni dell’Africa meridionale. «Coraggio, comandante. Arriveremo presto.»
Poi vide qualcos’altro e sussurrò un’unica parola: «Faro?»
Quel giorno, all’alba, Capelo si era rivolto agli schiavi, spiegando dove fossero diretti, chi sarebbe stato il loro nuovo padrone e quali crudeli punizioni li attendevano se avessero osato contrariarlo. Adesso, mentre la carovana di uomini incatenati si avvicinava alla miniera, anche Hal notò il fortino bianco che dominava l’area e immaginò che Lobo lo utilizzasse come residenza e come mezzo per imporsi sugli schiavi e difendersi da loro in caso di ribellione.
Addentrandosi nel complesso, oltrepassarono uno spiazzo delimitato da un fossato con le sponde scoscese, profondo dodici piedi almeno e largo venti, simile a quello di un castello ma vuoto. Sembrava che lo si potesse attraversare in due modi: grazie a un ponte di corde, dotato di una stretta passerella di assi che andava da un capo all’altro, ma privo di cancelli alle estremità, oppure varcando un ponte levatoio che si trovava davanti alla torre in pietra al di fuori del canale e che poteva essere riabbassato dall’interno.
Hal si accigliò, sconcertato. Qualsiasi creatura si trovasse lì dentro era abbastanza pericolosa da richiedere un fossato che ne impedisse l’uscita, ma escludeva che fosse un leone o un leopardo, che avrebbe potuto scendere lungo un lato e risalire dall’altro in un attimo, sempre che non attraversasse il ponte. Forse Lobo teneva degli elefanti. Hal sapeva che venivano usati sia per scopi cerimoniali che militari da migliaia di anni. Non se ne scorgeva traccia, però.
Poi vide l’animale al quale era riservato quello spazio – un enorme ammasso di muscoli e furia, con due corni e la pelle grigiastra – trottare fino al bordo del fossato, attratto dall’odore di esseri umani sconosciuti, e fermarsi a pochi passi dalla carovana in marcia, dondolando l’enorme testa, come se fosse ansioso di vendicarsi su qualcuno o qualcosa per l’oltraggio impostogli con la prigionia.
Capelo si girò sulla sella per chiedere: «Avevi mai visto una cosa del genere, inglese?»
Hal l’aveva vista, parecchie volte, ma meno cose dava l’impressione di sapere, meno sarebbe parso una minaccia, così scosse il capo, simulando una totale ignoranza.
«È un rinoceronte, anche se la gente qui lo chiama faro», lo informò Capelo. «Il senhor Lobo è l’unico al mondo ad averne uno in cattività. Una decina di uomini è morta tentando di catturarlo, ma lui diceva che doveva averne uno, e qui la sua parola è legge.»
Indicò con un cenno del capo l’animale, che sembrava rivestito da un’armatura più che da semplice pelle. «Guarda il corno frontale, il più grosso. Dev’essere lungo il doppio di una sciabola. Dovresti vedere quali danni può arrecare. Ho visto uomini impalati lì sopra come pezzi di carne su uno spiedo. Guardalo bene e prega Dio di non vederlo mai più: se accade sarà perché hai contrariato il senhor Lobo.»
Tirò le redini del mulo e lasciò che Hal lo raggiungesse prima di rimettersi in movimento, tanto che erano affiancati quando si sporse verso il basso per dire: «Se uno schiavo disobbedisce, se non rispetta i suoi padroni, se non lavora come dovrebbe, non viene soltanto frustato. Viene gettato dentro quel recinto, e non ne esce vivo. Capisci?»
«Sì, padrone», replicò Hal.
«Non ti mostrerai disobbediente, sfrontato o orgoglioso, vero?»
«No, padrone.»
«Leccami lo stivale, inglese», ordinò Capelo, e allungò un piede verso di lui, come un vescovo che presenti l’anello da baciare.
Hal si chinò come meglio poteva, visto che il collare gli intralciava i movimenti, e cominciò a leccare la polvere e il sudiciume dallo stivale del suo guardiano.
Fai pure, umiliami, se questo ti fa sentire più importante, pensò. Sono sopravvissuto a cose ben peggiori.
Il sole cominciava a calare sull’orizzonte quando vennero portati fino a una palizzata di fitti rami di acacia eretta ai piedi di una collina. Alcuni schiavi stavano spingendo carrelli di legno, avanti e indietro, lungo rotaie metalliche, diretti a cunicoli che scomparivano nel fianco della collina. I carrelli che uscivano dalla miniera erano colmi di una roccia aurifera, poi portata in un’altra area, dove schiavi armati di magli la riducevano in polvere da setacciare sotto l’acqua corrente in cerca di pepite di oro puro. Nel frattempo altri prigionieri accendevano bracieri pieni di legna ed erba essiccata, che avrebbero fornito luce e tepore durante la notte, mentre l’attività proseguiva.
Ovunque c’erano uomini, sia bianchi che neri, armati di fruste, fucili, mazze e machete dalla lama larga e dall’aspetto crudele; sorvegliavano gli schiavi, sollecitandoli a parole e con la frusta a lavorare di più o limitandosi a tenerli d’occhio per assicurarsi che nessuno di loro osasse infilarsi in tasca dell’oro o inghiottirlo.
All’interno della palizzata spiccava una fila di lunghe capanne di legno dal tetto di paglia. Alla carovana di schiavi fu ordinato di fermarsi davanti a una di esse.
«È qui che vivrete», li informò Capelo. «È l’ultima casa che vedrete, perché lavorerete qui fino alla morte. Presto vi verranno tolti i ceppi, il che non significa che siate liberi. Voglio ricordarvi, per l’ultima volta, che ogni tentativo di fuga verrà punito con la morte. Presto vi daranno del cibo. Mangiate in abbondanza, perché è l’unico pasto che otterrete fino a domani a quest’ora. Domattina verrete messi al lavoro.»
I prigionieri si videro togliere le catene da mani e collo e consegnare una ciotola di legno contenente un acquoso porridge di miglio, in cui galleggiavano pezzi di cartilagine immangiabili. Hal aveva imparato a suo tempo, nella colonia del capo di Buona Speranza, che un uomo ai lavori forzati non deve mai rifiutare nessun cibo, per quanto disgustoso, così ingurgitò tutto avidamente: meno tempo si impiegava a consumarlo, prima si dimenticava quanto fosse nauseante.
Nelle capanne non c’erano letti né giacigli, ma solo due tavolacci lunghi e bassi, larghi circa sei piedi, che occupavano l’intera lunghezza del locale. Quando gli uomini della carovana vi si sdraiarono per dormire, sembrarono quasi spaziosi. Solo quando comparve un’altra cinquantina di schiavi sudati, maleodoranti e sfiniti dal lavoro, che si fecero spazio con la forza per stendersi, spingendo via i nuovi arrivati, Hal si rese conto che il sovraffollamento era critico come su una nave negriera. Si ritrovò spinto contro un muro della capanna, con lo spazio appena sufficiente per dormire su un fianco, la schiena premuta contro l’uomo accanto a sé e il viso schiacciato contro la parete di fango. La pressione era tale da consentirgli a stento di muovere un muscolo.
Ma non gli importava. Finalmente si trovava nello stesso posto di Judith. Le poche centinaia di iarde che li separavano avrebbero potuto essere un centinaio di miglia, ma lui avrebbe trovato il modo di coprire quella distanza, individuare la sua amata e fuggire insieme a lei. Forse avrebbe impiegato settimane o persino, Dio non volesse, anni, ma ci sarebbe riuscito.
Concentrandosi su quel pensiero, chiuse gli occhi, perché l’altra cosa imparata al capo di Buona Speranza era che il sonno era essenziale quanto il cibo, se voleva sopravvivere.
L’Avvoltoio si trovava di fronte una sposa a dir poco riluttante. «Infilati quel maledetto vestito, donna, altrimenti...»
«Altrimenti cosa?» chiese Judith. «Cosa farai, con la tua unica mano? Cercherai di sferrarmi un colpo? Lo schiverò. Mi farai tenere ferma da questo o quello schiavo mentre mi frusti? Servirebbe solo a rovinare la merce prima che il senhor Lobo possa mettervi sopra le grinfie. Mi ucciderai? Ma quanto denaro potrai ricavare dal mio cadavere?»
«Continua pure a blaterare finché vuoi, cagna boriosa, ma non sei nella posizione di parlare. Lobo non sa cosa farsene di una donna che non può portarsi a letto, ma può sempre trovare un utilizzo per una nuova schiava. Quando suonerà la campana nuziale finirai nella navata centrale o nella miniera. E al diavolo i soldi, varrebbe la pena di perdere fino all’ultimo penny solo per vederti ricevere quel che ti meriti grazie alla frusta di un guardiano.»
Si sedette su una poltrona foderata di seta e fece schioccare le dita perché lo schiavo gli portasse altro vino. «Dunque», gracchiò, «hai un’ora di tempo per decidere se preferisci una lunga vita nel lusso come senhora Lobo, oppure un’esistenza orrenda, brutale e breve come sua schiava. Personalmente non capisco perché ti riesce così difficile decidere. Al posto tuo, lascerei fare a quel vecchio maiale ubriaco tutto quello che vuole, se ciò ti garantisce un letto morbido e la pancia piena. Ma in fondo, io cosa ne so, dico bene?»
Lo spazio cintato in cui venivano tenuti gli schiavi era sorvegliato da due uomini piazzati all’ingresso e da altri due che pattugliavano il perimetro procedendo in direzioni opposte e incrociandosi due volte ogni ronda. Quando uno di loro passò accanto al punto in cui gli amadoda erano nascosti nell’ombra, proiettata nel chiarore lunare da un baobab gigantesco, uno dei guerrieri si alzò silenziosamente in piedi. Brandiva un knobkerrie, una clava ricavata da un unico pezzo di legno duro, con un’estremità stretta e facile da impugnare e l’altra a forma di sfera. Aspettò che il guardiano gli arrivasse di fronte e poi lanciò il knobkerrie, diritto e preciso come una freccia, colpendolo alla tempia e uccidendolo sul colpo.
L’uomo emerse per un breve istante nel chiarore lunare, corse fino al guardiano steso a terra, lo tolse dal liscio e duro sentiero creato dai piedi delle sentinelle nel corso degli anni e gli tagliò la gola, per assicurarsi che fosse morto.
Pochi minuti dopo, arrivò il secondo sorvegliante. Sembrava sconcertato, mentre guardava in entrambe le direzioni, chiedendosi molto probabilmente cosa fosse successo al compagno. Si fermò per dare un’occhiata lì intorno, vicino al nascondiglio dei guerrieri africani. Ancora una volta il knobkerrie spiccò il volo dall’ombra, con lo stesso identico risultato.
Gli uomini piazzati ai lati del cancello non seppero della presenza degli amadoda finché non si sentirono pungere dalla lama della lancia che stava tagliando loro la gola. I corpi vennero fatti rotolare fino ai piedi della palizzata di acacia e due amadoda presero il loro posto, mentre Aboli guidava il resto dei suoi all’interno del recinto e, avendo osservato il comandante per l’intero tragitto, puntava direttamente verso la capanna in cui Hal stava dormendo.
La sua entrata svegliò un paio di schiavi. «Non preoccupatevi, fratelli», sussurrò lui in swahili, l’idioma che quasi tutte le popolazioni di quella parte dell’Africa capivano, benché non fosse la loro lingua madre. «Cerco l’uomo bianco che è arrivato qui oggi. Il nostro padrone, il senhor Lobo, è molto incuriosito da questo schiavo dalla pelle chiara e desidera conoscerlo. Sapete dove posso trovarlo?»
Venne indirizzato verso il fondo della lunga fila di prigionieri addormentati, alcuni dei quali stavano destandosi e cominciavano a parlare. Qualcuno si arrabbiò per essere stato disturbato e il volume delle voci iniziò ad alzarsi.
«Silenzio, altrimenti sveglierete i vostri fratelli nelle altre capanne», disse Aboli, prendendo Hal per un braccio ed estraendolo dall’ammasso di corpi come un grosso turacciolo da un collo di bottiglia molto stretto.
«E se anche fosse? Non sono miei fratelli», ribatté un uomo. «E tu chi sei? Non ti conosco.»
La situazione gli stava lentamente sfuggendo di mano. «È tutto a posto, ce ne andiamo subito», affermò Aboli, mentre lui e Hal si dirigevano verso la porta. Uno degli schiavi tentò di bloccare loro la strada mettendosi davanti all’uscita. Venne abbattuto da un knobkerrie che lo colpì alla nuca, lanciato da uno degli amadoda in attesa fuori.
«Corri!» sibilò Aboli, stavolta in inglese, mentre lui e Hal scavalcavano con un salto lo schiavo a terra e sfrecciavano verso il cancello. Non ebbero il tempo di esprimere la gratitudine o la gioia provate nel rivedersi, lo avrebbero fatto in seguito. Per il momento dovevano salvarsi la pelle. Aboli aveva un machete preso a una delle guardie uccise dagli amadoda e lo passò all’amico con un unico movimento fluido, senza che nessuno dei due rallentasse. Quando raggiunsero il cancello, gli schiavi si stavano riversando fuori dalla capanna di Hal, gridando: «Siamo liberi! Siamo liberi!» a quelli nelle altre casupole. Hal imprecò sommessamente: ogni speranza di sorprendere i nemici era svanita e l’unica cosa in cui potessero sperare, ormai, era che l’improvvisa rivolta degli schiavi fungesse da diversivo.
Dietro di sé sentì un urlo e il boato dello sparo di un moschetto. Nella confusione, lui e Aboli avevano guidato il loro piccolo drappello di incursori oltre le baracche in cui dormivano i guardiani e adesso avevano alle calcagna un sempre più nutrito gruppo di inseguitori. Qualcuno gridò: «Alle scuderie! Li travolgeremo con i cavalli!» Ma anche se alcuni di loro erano andati a prendere i cavalli, ce n’erano comunque altri, sempre più numerosi, che li tallonavano e stavano guadagnando terreno. Risuonò un altro sparo e uno degli amadoda gridò di dolore e stramazzò a terra, ferito a morte.
«Non fermarti, Gundwane!» urlò Aboli. «Non possiamo fare nulla per lui.»
Hal non replicò: non aveva abbastanza fiato. Alle sue spalle si udì una raffica di fuoco di moschetto, presumibilmente diretta agli schiavi che correvano liberi nella zona cintata. Non si curò di loro. Doveva preoccuparsi di correre il più velocemente possibile. Aveva i muscoli delle gambe che bruciavano e il respiro affannoso; ormai era allo stremo delle forze. Poi vide un’alta struttura stagliarsi di fronte a lui, nel buio, e provò un improvviso moto di sollievo. C’era ancora speranza!