La battaglia si era spostata avanti e indietro sull’altopiano di Kebasa, nel Nord-est dell’Etiopia, dall’alba fino alle ultime luci del giorno. Ormai il clamore era cessato, sostituito dalle urla trionfanti dei vincitori, dagli appelli disperati alla misericordia da parte degli sconfitti e dalle grida penose dei feriti, che imploravano un po’ d’acqua o, se la fine era vicina, invocavano la propria madre. Un esercito di etiopi cristiani aveva inflitto una terza, schiacciante sconfitta alle forze musulmane radunate per invadere quella terra su richiesta del Gran Mogol in persona. Le prime due si erano dimostrate illusorie e qualsiasi senso di sicurezza avessero suscitato era presto stato smentito. Quella terza vittoria però era talmente definitiva da non lasciare spazio a dubbi. Le forze nemiche si trovavano sulla terraferma e ogni nave carica di rinforzi e rifornimenti che aveva tentato la traversata del mar Rosso da Aden alla costa opposta era stata affondata senza troppa fatica dall’unico veliero che dominava quelle acque, una fregata inglese chiamata Golden Bough. Era stata armata per navigare in cerca di guadagno, ma adesso il comandante la guidava al servizio della libertà e in difesa della reliquia religiosa più importante dell’Etiopia e dell’intera cristianità: il Tabernacolo, dentro il quale gli ebrei avevano custodito le tavole di pietra che Mosè aveva portato dal monte Sinai, e in cui si diceva fosse attualmente conservato il Sacro Graal.
Dietro le linee etiopiche era stata montata una grande tenda, l’ingresso sorvegliato da una compagnia di guerrieri in elmo e corazza. All’interno erano appesi preziosi arazzi raffiguranti scene della vita di Cristo. Erano di seta, e i colori scintillavano come pietre preziose nella luce tremolante di una decina di fiaccole e di una miriade di candele, mentre l’aureola intorno alla testa del Salvatore brillava di fili d’oro puro.
Al centro della tenda troneggiava un grosso tavolo su cui c’era una riproduzione in miniatura del campo di battaglia e del paesaggio circostante. Le colline erano rappresentate con precisione; torrenti, fiumi e laghi erano colorati di azzurro, così come la parte che raffigurava il mare. Figurine d’avorio squisitamente intagliate di soldati a piedi, cavalieri e cannoni rappresentavano i reparti di fanteria, cavalleria e artiglieria schierati sui due lati. All’inizio della giornata erano stati disposti in modo da rispecchiare l’ordine di battaglia dei due eserciti, ma ormai molte delle statuine che simboleggiavano le forze arabe erano state abbattute o erano state tolte dal tavolo.
Nella tenda si respirava un’atmosfera serena. Una figura alta e imponente in abiti ecclesiastici era assorta nella conversazione con un capannello di alti ufficiali. La barba grigia gli arrivava quasi alle ginocchia e il petto era ornato di croci d’oro e rosari, oltre che di medaglie e mostrine. Il sommesso mormorio di voci maschili era in netto contrasto con gli acuti strilli di eccitazione e piacere che giungevano da poco distante.
«Bam! Bam! Prendi questo!» stava urlando un bambino. Stringeva in mano la figurina di un cavaliere etiope in sella a un possente stallone e la muoveva con foga su un angolo del tavolo, abbattendo qualsiasi figura araba fosse rimasta in piedi dopo la battaglia.
Una guardia scostò il lembo all’ingresso della tenda per far entrare un soldato, la cui tunica di lino bianco, indossata sopra una cotta di maglia, sembrava creata per enfatizzare la corporatura snella e flessuosa di chi la portava.
«Generale Nazet!» urlò il bambino, che lasciò cadere il soldatino e sfrecciò sul suolo coperto di tappeti per lanciarsi verso le gambe rivestite di acciaio del soldato, su cui scintillavano, ancora umidi, alcuni schizzi scarlatti di sangue nemico. Le abbracciò forte, come se si stesse rannicchiando contro il petto morbido e accogliente della madre.
Il generale si tolse l’elmo piumato, scoprendo una folta chioma di riccioli neri che, a una sua rapida scrollata della testa, presero vita formando un alone la cui sorprendente somiglianza con una delle aureole sui vicini arazzi veniva accentuata dal bagliore dorato delle candele. Non c’era traccia del sudore e del sudiciume della battaglia sulla liscia pelle ambrata del generale, sul naso sottile e femmineo o sul glabro mento dall’ossatura elegante; nessuna traccia di tensione o spossatezza nella voce pastosa e sommessa che disse: «Maestà, ho l’onore di informarvi che la vittoria del vostro esercito è completa. Il nemico è sopraffatto e le sue forze stanno battendo in ritirata».
Sua altezza cristianissima Iyasu, re dei re, sovrano dei Galla e di Amhara, difensore della fede di Cristo in croce, si staccò dalle gambe del generale, fece un passo indietro e cominciò a saltellare, battendo le mani e lanciando grida di gioia. I militari si avvicinarono e si congratularono con il commilitone in modo più sobrio, con strette di mano e pacche sulla spalla, mentre il religioso pronunciava una benedizione e una preghiera di ringraziamento.
Il generale Nazet rispose agli omaggi con fare pacato e dichiarò: «E ora, maestà, ho un favore da chiedervi. Già una volta ho rassegnato le dimissioni da comandante delle vostre forze armate, ma poi le circostanze sono mutate. Il mio imperatore e il mio paese avevano bisogno di me e la coscienza non mi avrebbe mai permesso di voltare le spalle al mio dovere, così ho infilato ancora una volta l’armatura e impugnato la spada. Sono stata un generale ai vostri ordini. Ma sono anche una donna, maestà, e in quanto tale appartengo a un uomo. Lui mi ha lasciato la libertà di rientrare al vostro servizio e ora, con il vostro permesso, desidero tornare da lui».
Il ragazzino la guardò accigliato mentre rifletteva. «Quell’uomo è il capitano Courteney?» chiese.
«Sì, vostra maestà», rispose Judith Nazet.
«L’inglese con gli occhi strani, colorati di verde come foglie su un albero?»
«Sì, vostra maestà. Ricordate di averlo accolto nell’ordine del Leone d’Oro di Etiopia come ricompensa per il suo coraggio e i servigi resi alla nostra nazione?»
«Sì, ricordo», replicò Iyasu, con una vocina inaspettatamente triste. «Diventerete una mamma e un papà?» Il giovane imperatore serrò le labbra e torse la bocca, tentando di capire come mai si sentisse di colpo profondamente infelice, quindi aggiunse: «Vorrei tanto avere una mamma e un papà. Forse tu e il capitano Courteney potete venire a vivere nella reggia ed essere dei genitori per me».
«Ecco, maestà, non credo proprio che...» cominciò a dire il vescovo. Ma il bambino non lo stava ascoltando. Tutta la sua attenzione era concentrata su Judith Nazet, che si era accovacciata e gli stava tendendo le braccia.
Iyasu la raggiunse di nuovo, e questa volta sembrò un figlio che posava la testa sulla spalla della madre e si abbandonava al suo abbraccio.
«Su, su», disse lei. «Non crucciatevi. Vi piacerebbe venire a visitare la nave del capitano Courteney?»
Il ragazzino annuì in silenzio.
«Magari potrete sparare con uno dei cannoni. Sarebbe divertente, vero?»
Vi fu un altro cenno d’assenso contro la spalla di Judith, poi Iyasu sollevò il viso dalle pieghe della tunica di lei e chiese, con un filo di voce: «Andrai via in nave con il capitano Courteney, vero?»
«Sì.»
«Ti prego, non farlo», la supplicò lui e poi, con una determinazione disperata, gridò: «Ti ordino di non andare! Devi obbedirmi! Hai detto di esserci obbligata!»
Poi la diga si ruppe e lui crollò, singhiozzando contro la spalla della donna. L’ecclesiastico fece un passo verso il giovane sovrano, ma lei alzò una mano. «Un attimo, vescovo. Lasciate che me ne occupi io.»
Lasciò piangere un altro po’ Iyasu finché non si calmò e si asciugò gli occhi e il naso sulla tunica di lei. «Ora», gli disse, «sapete che vi sono molto legata, maestà, vero?»
«Sì.»
«E anche se vado via, non importa quanto lontano, vi vorrò sempre bene e mi ricorderò di voi. E pensate, se mi spingerò in paesi remoti come l’Inghilterra o la Francia, potrò scrivervi e raccontarvi tutte le cose straordinarie che vedrò.»
«Prometti di scrivermi?»
«Vi do la mia parola di soldato, maestà.»
«E se salgo sulla nave del capitano Courteney lui mi lascerà sparare con un cannone?»
«Gli ordinerò personalmente di farlo. E visto che sono un generale e lui è solo un capitano, dovrà obbedirmi.»
L’imperatore Iyasu rifletté per un istante, emise un sospiro cupo, diede le spalle a Judith e disse: «Vescovo Fasilides, vi prego, abbiate la bontà di dire al generale Nazet che ha il mio permesso di andarsene».