Condotta lungo le strade di Zanzibar a bordo di una carrozza con i finestrini coperti, Judith non aveva la minima idea di dove stesse andando. A un certo punto sentì latrare degli ordini, un cancello che si apriva e l’echeggiare di zoccoli e ruote, mentre il cocchio passava sotto un arco e attraversava una specie di cortile prima di varcare un secondo cancello e, solo a quel punto, fermarsi.
Lo sportello della carrozza venne aperto e lei si ritrovò di fronte un corpulento uomo di mezza età con il mento perfettamente glabro, come il cranio rasato.
Con voce acuta ed effeminata, questi le disse: «Seguitemi. Sua altezza desidera vedervi, ma non poserà certo gli occhi su di voi, se avete questo aspetto».
È un eunuco, pensò Judith. Venne accompagnata in una vasta stanza il cui pavimento di marmo era ricoperto di morbidi tappeti ornati da intricati disegni. Nell’aria aleggiava un inebriante profumo di rose, ambra e muschio, emanato dalle candele che riversavano un bagliore dorato su donne seminude, pigramente adagiate su cuscini e divani, e a quel punto Judith capì di essere stata portata in un harem.
L’uomo la condusse in una camera, al cui centro spiccava una grande vasca piena di acqua fumante, su cui galleggiavano petali di rosa. Due giovani donne, serve o ancelle, immaginò, la stavano aspettando. «Preparatela per sua altezza», ordinò l’eunuco, suonando più simile a un bambino petulante che a un uomo.
«Il vostro bagno vi aspetta, mia signora», annunciò una delle serve. «Posso togliervi l’abito?»
Istintivamente Judith avrebbe voluto subito rispondere: No, non puoi!, ma non aveva senso litigare con domestiche che non potevano fare nulla per aiutarla. Il suo nemico era l’uomo dal quale prendevano ordini, e l’unico modo per riuscire a vederlo era accettare quelle cure. Quindi fece il bagno, venne asciugata e poi cosparsa e frizionata di olio profumato. Una delle ancelle la pregò di sedersi, quindi le applicarono kohl nero agli occhi e rosso sulle labbra; i capelli vennero raccolti sulla nuca e ornati di perle, versioni incredibilmente più fastose del copricapo che, solo poche settimane prima, aveva indossato per accogliere Hal a Mitsiwa. Le ragazze le misero pendenti ornati di pietre preziose, poi le chiesero di alzarsi per poterla vestire.
«Oh, signora, siete così bella», disse una di loro, quando Judith, nuda, le fu di fronte. «Il principe non potrà resistervi.»
«Alina impazzirà di gelosia!» esclamò l’altra, ridacchiando. «Diventerete di certo la sua nuova favorita!»
La vestirono, se così si poteva dire, con un bustino a maniche corte simile a quelli che lei aveva visto sotto il sari delle donne indiane, nelle strade di Zanzibar. Quei corpetti, però, erano di cotone o seta, laddove il suo era di una garza sottilissima, quasi trasparente, costellato di lustrini dorati e minuscole pietre preziose, e le copriva a malapena il seno. Nemmeno una tunica metteva in salvo il suo pudore: l’unico altro indumento che le fu consegnato fu un paio di ampi calzoni a vita bassa, stretti alla caviglia da nastri dello stesso tessuto, con decorazioni ancora più scintillanti. L’insieme era completato da un paio di pantofoline turche in seta, ricamate con un filo dorato.
«Venite... Guardatevi, siete splendida», disse la ragazza che l’aveva aiutata. La prese per mano e la condusse in fondo alla camera, davanti a uno specchio a figura intera dalla cornice in legno riccamente intagliata. Judith boccheggiò vedendo il proprio riflesso. Era convinta di avere fatto ogni sforzo possibile per apparire affascinante agli occhi di Hal, ma quella era tutta un’altra cosa, si disse, turbata ma al tempo stesso affascinata dalla figura audacemente sensuale in cui era stata trasformata. Adesso era una danzatrice, una uri, una concubina, e appariva davvero straordinaria. Se ci fosse stato Hal ad attenderla, la cosa l’avrebbe colmata di eccitazione. La mera consapevolezza dell’effetto che avrebbe risvegliato in lui sarebbe bastata a eccitarla prima ancora di incontrarlo. Ma mostrarsi in quel modo a uno sconosciuto, un uomo che l’aveva rapita con la forza, le parve una forma di profanazione, come se la violenza sessuale che paventava avesse già avuto inizio.
Era ancora assorta in quelle angosciose riflessioni quando l’eunuco ricomparve, la esaminò – le labbra serrate in un broncio – ed emise un sommesso «Uh!», come se fosse stupito della sua avvenenza, per poi ripetere: «Seguitemi».
Venne riaccompagnata attraverso l’ampio salone, dove sentì su di sé lo sguardo di tutte le donne presenti, e intuì che stavano valutandola e decidendo quale posto avrebbe occupato nella loro gerarchia. L’eunuco sventolò una mano floscia per sollecitarla a sbrigarsi e la condusse in un lungo corridoio, fino a una doppia porta che aprì e le fece varcare prima di seguirla nella stanza, richiudendo nel frattempo i due battenti dietro di sé.
Judith si ritrovò in una versione più angusta ma infinitamente più ornata del salone in cui tutte le concubine stavano aspettando, nel caso venisse loro richiesto di adoperarsi per il piacere del padrone. Tutte le superfici erano coperte da intagli e intarsi che costituivano un’inestimabile profusione di oro, marmo, onice, giada, ossidiana di un nero intenso, puri lapislazzuli azzurri, scintillante madreperla e sfavillanti vetri a specchio. Quando passò davanti a uno specchio e vide la luce riflettersi sulle pietre preziose, i lustrini e le perle di cui lei era coperta, si sentì l’ennesimo oggetto di piacere creato per ammaliare i sensi ormai sazi del destinatario di quella messinscena.
L’eunuco fece un profondo inchino davanti a un divano dorato su cui sedeva un uomo e disse: «Vostra altezza, ecco la donna che mi è stata portata questa sera. Spero meriti la vostra approvazione».
Detto questo si allontanò in fretta, lasciando Judith a osservare il suo carceriere. Il principe, come lo avevano chiamato le domestiche, portava abiti eleganti, ornati di pietre preziose quasi come quelli di lei, benché molto meno succinti. Indossava una giacca in seta di un rosa acceso con calzoni in tinta, e sulla parte frontale del turbante era appuntata una spilla, con il diamante più grande che Judith avesse mai visto, montato in oro e circondato da un cerchio di pietre più piccole, sopra il quale spiccava un pennacchio di piume di egretta.
Doveva avere tra i trenta e i quarant’anni, calcolò lei, e sfoggiava lineamenti decisi, gradevoli, che iniziavano appena ad apparire ammorbiditi dal grasso di una vita data ai piaceri. Da giovane doveva essere stato davvero attraente. Persino adesso, concedersi a lui non sarebbe certo stata la peggiore tortura immaginabile per una concubina, tolte, naturalmente, la vergogna e l’umiliazione che la condizione stessa di concubina imponevano a una donna.
D’altro canto, quella inginocchiata sul divano accanto al principe, che gli mordicchiava un orecchio, mentre gli carezzava maliziosa le cosce e l’inguine, non sembrava sentirsi umiliata né degradata. Anzi, pensò Judith, dava l’impressione di gradire moltissimo il suo compito.
Judith immaginava che ci fossero guardie del corpo e servi, nelle vicinanze; da un lato della stanza giungeva della musica, ma riusciva a vedere soltanto un’altra persona, l’Avvoltoio. Era fermo dietro il divano, l’unico braccio ciondoloni lungo il fianco, l’unico suo movimento il tipico annuire e muovere la testa a scatti, come un uccello.
«Mio caro generale Nazet», disse il principe, e Judith notò che Alina – presumeva infatti che fosse la favorita menzionata dalle ancelle – nel sentire la parola «generale» interrompeva quanto stava facendo per rivolgerle uno sguardo accigliato, «strano che le nostre vite e i nostri destini siano stati così strettamente intrecciati, negli ultimi due anni, ma che ci incontriamo per la prima volta soltanto ora. Sono il sultano Sadiq Khan Jahan. Il vostro avversario di un tempo, il sultano Ahmed El Grang, capo degli arabi dell’Oman, era al mio servizio, come voi eravate al servizio del bambino che si definiva imperatore dell’Etiopia.» Jahan sospirò e scosse il capo. «Sapete, una donna della vostra bellezza è davvero sprecata, sul campo di battaglia.»
«No», replicò lei, «è un soldato della mia esperienza a essere sprecato in questo postribolo nobilitato.»
«Ti prego, mio caro, non capisco», disse Alina, raddrizzando la schiena. «Perché chiami questa donna ’generale’? Perché lei sostiene di essere un soldato?»
«Perché, mia adorata, non soltanto è pari a te quanto a leggiadria, ma si è anche dimostrata pari a El Grang come soldato. Ha comandato eserciti, quando tu comandi soltanto la guardia che si mette sull’attenti in mezzo alle mie gambe. Ora vai! Devo parlare con il generale. Ti manderò a chiamare più tardi, se avrò bisogno di te.»
«Non aspettare troppo», ribatté Alina, facendo le fusa, «perché ogni ora senza di te è un’eternità.»
Si alzò dal divano e si incamminò verso la porta ancheggiando sinuosa; rallentò appena mentre oltrepassava Judith, ma le scoccò in silenzio un’occhiata di cruda avversione, una dichiarazione di guerra pari all’apertura delle ostilità di un governante contro un regno nemico.
Il principe fece un sorriso di compiacenza mentre il suo giocattolo usciva, poi, sporgendosi in avanti e guardando attentamente Judith, affermò: «Sono un uomo civile e mi vanto di agire con onore e secondo le leggi di Dio, ma confesso di trovarmi dinnanzi una sorta di dilemma. Se voi foste un uomo con il rango di generale, da me catturato in battaglia, vi terrei prigioniero. Se lo ritenessi privo di rischi mi offrirei di restituirvi al vostro popolo dietro pagamento di un riscatto e, in cambio della somma richiesta e della vostra parola d’onore di non prendere mai più le armi contro di me o il mio popolo, vi riconsegnerei alla vostra famiglia. Com’è ovvio, per un comandante del vostro livello il riscatto equivarrebbe a migliaia di monete d’argento, così tante, in realtà, che dubito che la tesoreria dello stesso imperatore dell’Etiopia sarebbe in grado di metterle insieme. Quindi resterebbe la meno gradevole opzione di concedervi una morte rapida e onorevole. Non verreste torturato né sottoposto a maltrattamenti di alcun genere e morireste da uomo.
«Ma non siete un uomo, e questo complica le cose... Siete vista, sia dal vostro popolo che dal mio, con un timore reverenziale di cui nessun uomo godrebbe mai, come una creatura magica, più che umana. Una giovane donna, poco più di una ragazza, che nondimeno guida grandi eserciti alla vittoria, dev’essere davvero qualcosa di più che umana. Il vostro popolo – e naturalmente mi riferisco alla gente comune, piuttosto che alla classe superiore, composta di individui istruiti – è convinto che siate scesa dal cielo, come un angelo, per aiutarlo».
«E il vostro pensa invece che io sia un diavolo giunto dall’inferno. Ne sono ben consapevole», replicò Judith. «Ma non sono né un angelo né un demone. Sono una donna, pura e semplice. Cosa avete intenzione di fare con me, a questo punto?»
Il principe sospirò, con aria cupa. «Ah, è questo il problema... Ammetto di aver riflettuto parecchio, per mesi, su cosa vi avrei fatto se foste mai caduta nelle mie mani. Ho cambiato idea in più di un’occasione, e potrei persino cambiarla di nuovo.»
«E...?»
Lui si strinse nelle spalle. «La tentazione di vendervi come schiava al miglior offerente è molto forte. Pensare che qualcuno un tempo magnificato e osannato, come lo siete stata voi, venga confinato negli infimi abissi dell’esistenza... Chi, fra quanti hanno sofferto per mano vostra, non ne sarebbe felice? Ma darvi via così... che spreco! E quale piacere mi procurerebbe, in realtà?
«D’altro canto, siete una donna di straordinaria bellezza e, mi si dice, fecondità. Sono merci preziose, e io potrei ottenere un enorme favore offrendovi come concubina a mio fratello, il Gran Mogol, o persino al sultano a Costantinopoli. Se uno qualunque di loro avesse un figlio da voi, che uomo ne crescerebbe! Ma perché lasciare a uno di loro un simile vantaggio? Senza dubbio, visto che vi ho io, dovrei semplicemente tenervi per me.»
Judith quasi sputò la risposta. «Preferirei morire che essere la vostra concubina. E ucciderei il mio stesso figlio, piuttosto di lasciare che venga allevato nella vostra corte e sotto il vostro dio.»
«Sì, è proprio ciò che temevo», ribatté il principe, annuendo. «In ogni caso non potrei certo tenervi nel mio harem, se non in stretto isolamento. Vi siete già fatta un’acerrima nemica in Alina, che benché graziosa come un gattino è pericolosa come una tigre. Ci sono poi le altre concubine da considerare. Sono giovani donne provenienti da vari paesi, ma tutte arrivano da un ambiente assai modesto. L’esistenza che vivono qui è un paradiso, rispetto a quella che si sono lasciate alle spalle, e l’unica cosa che devono fare, in cambio, è compiacermi e obbedirmi. Sono certe di aver fatto un ottimo affare e non si ribellerebbero mai, in alcun modo. Eppure voi potreste mettere loro in testa idee che le renderebbero infelici, disobbedienti e restie a compiacermi. Questo mi causerebbe enormi disagi, non ultimo il fatto che dovrei ucciderle tutte e trovare delle sostitute.»
«Non vorrei mai crearvi così tanti problemi», affermò Judith con marcato sarcasmo. «Ma ora che mi avete illustrato le varie possibilità da voi scartate, quale destino avete scelto per me?»
«Per prima cosa vi unirete a me per la cena. Mi piacerebbe ascoltare il resoconto delle vostre campagne etiopiche: la disposizione delle forze armate, le tattiche che avete pianificato in anticipo, le decisioni improvvise che avete dovuto prendere nel fervore della battaglia e così via. Vi tratterò con il massimo rispetto e non vi chiederò nulla più della vostra saggezza militare. Lo giudicate accettabile?»
«Non aspettatevi che apprezzi la vostra compagnia, principe Jahan, comunque sì, accetto di conversare con voi.»
«Siete davvero gentile, signora. Al termine del nostro colloquio verrete condotta nel vostro alloggio, dove rimarrete confinata per le prossime tre settimane. Non vi farò mancare nulla, come si addice al vostro rango. Purtroppo sarò costretto a mettervi in vendita al mercato degli schiavi, ma non temete, non ho nessuna intenzione di lasciare che vi compri qualcun altro.»
«Allora perché fingere di vendermi, se non come pretesto per umiliarmi?»
«Suvvia, l’umiliazione della grande Nazet è già di per sé cosa non da poco», affermò il principe. «La notizia che siete stata messa sulla piattaforma degli schiavi a Zanzibar e smerciata come un pezzo di carne qualsiasi si diffonderà per tutta l’Africa, l’India e il Levante. Potete immaginare quale effetto avrà sul morale del vostro popolo... e del mio. Ma il mio vero scopo è un altro. In realtà verrete esibita sotto gli occhi di tutti solo come esca...»
«Per attirare Sir Henry Courteney, se è ancora vivo.»
Il principe fece un sorriso radioso. «Esatto! Ah, com’è piacevole parlare con una donna che capisce queste cose. Sì, vi avrei entrambi alla mia mercé. E in seguito... be’, devo confessare di nuovo che non ho ancora preso una decisione definitiva, ma, se avessi fra le mani Sir Henry, vi offrirei una scelta molto semplice: o vi concedete a me, o lo ucciderò.»
«No... io mi...»
«Vi uccidereste? Riflettete: se vi togliete la vita, poi dovrei toglierla anche a lui. Concedetevi a me, completamente, per un’intera notte, e non soltanto lui vivrà, ma voi due avrete un’occasione per ricongiungervi.»
«A quale occasione vi riferite?»
«Semplice, costringerò Sir Henry a battersi con questa creatura...» Il principe indicò l’Avvoltoio con un gesto pigro. «Due nemici mortali, armati di spada, combatteranno fino all’ultimo sangue. Voi assisterete al duello, perché chiunque dei due spasimanti rimanga in vita vi avrà in premio.»
Dietro la maschera di pelle, l’Avvoltoio sembrò schiarirsi la voce.
«Silenzio», ordinò Jahan, «non proferire parola. Conosci le condizioni alle quali ti permetto di rimanere qui, e sai che se parli perderai la vita. Guarda quali ricompense ti sto offrendo: la morte dell’uomo che odi e il corpo della donna che lui amava.»
«Quella... cosa non avrà mai il mio corpo, mai e poi mai.»
«Sì, sì, preferireste morire, ditelo quante volte volete», sbottò il principe, irritato. «Ma non vi credo. Quale madre ucciderebbe se stessa e il proprio figlio? Una madre è disposta a fare qualsiasi cosa, a sopportare qualsiasi cosa, ad accettare qualsiasi oltraggio pur di proteggere la vita del suo piccolo. Siete davvero così diversa? Quanto a te, Avvoltoio, oggi sei stato bravo: mi hai portato il generale Nazet. E io voglio offrirti qualcosa in cambio. Vai in città. Trova un posto in cui bere i tuoi liquori da infedele. Trovati una donna, se ce n’è una disposta ad avvicinarsi a te. Fingi, per quest’unica notte, di essere ancora un uomo.»