La Madre de Deus era un inferno galleggiante. Il mercantile portoghese a tre alberi solcava i mari seguendo sempre l’itinerario circolare grazie al quale merci di scarso valore erano barattate con nativi africani che, chiusi nella stiva, venivano condotti fino ai mercati degli schiavi del Nuovo Mondo, delle Indie Orientali o dell’Impero ottomano. Al proprietario e comandante João Barros non interessava chi fossero coloro che trasportava, dove fossero diretti o chi li avrebbe comprati: fintanto che veniva pagato, non era un suo problema.

Il principe Sadiq Khan Jahan non lo aveva pagato per portare a Quelimane l’inglese che sosteneva di essere Courteney, il famigerato El Tazar. Si era limitato a mandare, insieme ai soldati incaricati di scortare l’uomo fino ai moli, un ufficiale che, in arabo, aveva detto a Barros: «Sua altezza ha saputo che avete un carico destinato a Quelimane».

«Esatto», aveva confermato lui, nella stessa lingua, mentre si sfregava la cicatrice di un rosa acceso che dall’angolo della bocca saliva fino all’attaccatura dei capelli. Era un vizio che non riusciva a togliersi.

«Sono stati comprati dal senhor Lobo perché lavorino nella sua miniera.»

«Esatto anche questo.»

«Benissimo, vi prego di aggiungere quest’uomo al carico», aveva detto l’ufficiale mentre Hal veniva spinto in avanti, accanto a lui e di fronte a Barros. «È inglese. Se sopravvive al viaggio, sua altezza desidera che venga offerto in dono al senhor Lobo.»

«Un gran bel dono», aveva commentato Barros. «Non solo è un bianco, ma sembra forte e sano. Bei denti. Il senhor Lobo lo userà come stallone, secondo me.»

«È molto probabile», aveva convenuto l’ufficiale, per poi aggiungere: «Sua altezza è ben consapevole, tuttavia, che i viaggi per mare sono irti di pericoli e non ve ne farà certo una colpa, se per costui la traversata dovesse dimostrarsi fatale».

«State dicendo che sono libero di farne ciò che voglio?»

«Proprio così. Sua altezza ha decretato che il destino di quest’uomo venga riposto nelle mani di Allah, onnisciente e misericordioso.»

«Un decreto davvero interessante», aveva dichiarato Barros. «Me ne ricorderò senz’altro.»

Così, per la seconda volta nel corso della sua breve vita, Hal Courteney si ritrovò recluso nella calura, nel buio e nell’insopportabile fetore di un ponte di schiavi, incatenato a un perno ad anello.

Secondo i suoi calcoli, avevano lasciato Zanzibar da sei giorni quando un membro dell’equipaggio di Barros – un uomo che si era fatto rapidamente conoscere dagli schiavi terrorizzati, affamati, in preda al mal di mare se non moribondi grazie alla solerzia con cui li sferzava con il gatto a nove code, che sembrava non lasciare mai la sua mano destra – scese nella stiva con altri due marinai e, alla luce di una lanterna, punzecchiò ripetutamente i prigionieri con il manico della sua frusta.

Cosa sta cercando questo bastardo? si chiese Hal, strizzando gli occhi per ripararli dall’improvviso e fastidioso bagliore del lume.

I marinai portoghesi avevano affondato il naso nell’incavo del gomito e uno malediceva il tanfo. L’uomo con il gatto a nove code lo premette fra le scapole di un africano smunto e chino in avanti tanto da sfiorare, con la fronte, le tavole sporche di fanghiglia. Poiché lo schiavo non reagiva, si piegò su di lui e gli tirò indietro la testa, al che l’uomo gemette e aprì gli occhi. L’aguzzino lo lasciò andare, biascicò un’imprecazione e passò oltre.

«Quello sembra forte», affermò in portoghese uno dei suoi compagni, puntando la sciabola verso un altro africano.

«Io ne ho uno qui», annunciò l’altro marinaio, «e dall’aspetto lo si direbbe un giovane galletto orgoglioso.» Hal conosceva il portoghese abbastanza da rimpiangere di essere rimasto seduto con la schiena ben diritta e di aver guardato in cagnesco quei mercanti di schiavi.

L’uomo lo osservò con più attenzione e aggiunse: «Aspettate! Credo che sia bianco».

«Ancora meglio. Portateli di sopra», disse l’uomo con la frusta.

Hal e l’africano seguirono i marinai portoghesi su per la scala, che era stata ampliata per consentire a coppie di schiavi di salire e scendere senza bisogno di togliere loro i ceppi alle caviglie.

«Ah, l’inglese», disse il comandante Barros, poi si rivolse al più alto e muscoloso dei due schiavi. «E anche questo sembra robusto. Bene. Ottima scelta. Bianco contro nero. C’è un che di... artistico nella cosa.»

Era fermo con i suoi ufficiali e il mozzo accanto all’albero di maestra, e tutti, persino il ragazzo, portavano un ampio cappello per ripararsi dal sole. Il giovinetto somigliava così tanto a Barros, compresa l’arrogante inclinazione del capo, che Hal era sicuro che fosse suo figlio.

«Sbrigati, Fernandes, vecchio caprone zoppo!» gridò Barros a un gobbo dai capelli grigi che stava attraversando il ponte, picchiettando la gamba di legno sul tavolato. «Giuro che non saresti più lento nemmeno se ti levassimo anche l’altra gamba.»

«Chiederò al medico di bordo di portare la sega», intervenne un ufficiale dal viso allungato, «e già che ci siamo possiamo scommettere anche su quello.» La frase strappò una risata ai suoi compagni, soprattutto al ragazzo.

Il gobbo stringeva lo strumento a sei corde che portoghesi e spagnoli chiamavano vihuela de mano, la viola da mano, perché la si suonava con le dita invece che con un archetto. La agitò rabbiosamente nell’aria. «Sto facendo più in fretta che posso, Barros, razza di bastardo!» ringhiò, e raggiunse l’albero di maestra bofonchiando una sfilza di imprecazioni oscene.

Il comandante rivolse un’occhiata stanca a Hal e, apparentemente indifferente al fatto che l’uomo di fronte a lui sembrava un mendicante non rasato, trasandato e sporco di escrementi suoi e altrui, spiegò: «Gli permetto di parlarmi così solo perché era amico di mio padre ed è un discreto musicista». Indicò con un cenno del capo lo strumento dell’uomo anziano, dotato di un lungo manico riccamente intagliato e di sei doppie corde. «È come se fosse sposato con quella sua vihuela de mano. Credo appartenesse a suo nonno.»

«Al bisnonno, pur essendo già vecchia a quei tempi», lo corresse Fernandes.

Barros liquidò la frase con un gesto. «Il punto è che dubito che il nostro giovane inglese abbia mai visto uno strumento del genere, vero?»

«Solo nei dipinti», replicò Hal, intrappolato in quella messinscena, neanche fossero gentiluomini intenti a conversare in un elegante salotto invece di un comandante e un prigioniero sul ponte di una nave negriera.

Barros annuì. «Sì, è un peccato che questo strumento sia passato di moda ormai da tempo. Eppure ogni tanto noi ce lo godiamo ancora, vero, signori?» I cinque ufficiali annuirono e sorrisero. «Ora, voi inglesi siete una razza civile. Il tratto distintivo di qualsiasi civiltà è l’amore per la musica, non trovate?» Si girò verso l’uomo con il gatto a nove code e indicò i ceppi alle caviglie di Hal. L’altro prese una chiave dalla cintura e si chinò per aprirli.

«E guardate gli occhi di questo», continuò Barros, voltandosi verso il nerboruto schiavo nero. «Guardate come mi fissa. Gli piacerebbe strapparmi la testa dal collo.»

«Sarà uno scontro equo», commentò un altro ufficiale, accigliandosi mentre esaminava i prigionieri di fronte a lui.

In base all’esperienza di Hal, quasi tutti gli schiavi mostravano una certa arrendevolezza e si sforzavano di non apparire minacciosi per riuscire a sopravvivere. Tenevano gli occhi bassi e la lingua a posto. Quello invece fissava il comandante, il corpo vigoroso coperto solo da un cencio legato alla vita e fra le gambe, per coprire i genitali, teso come se fosse pronto a battersi per la sua vita. Avrebbe potuto vincere in un combattimento con un avversario così orgoglioso e feroce? A quanto sembrava, stava per scoprirlo.

Tuttavia non era il combattimento ciò che João Barros aveva in mente.

Gli uomini intorno furono allontanati; Hal e lo schiavo muscoloso vennero lasciati soli in un’area del ponte completamente sgombra, larga e lunga pochi passi. Stavano respirando affannosamente, ma non per la fatica o la paura: erano avidi di respirare la fresca aria di mare, dopo tutti i giorni trascorsi sotto coperta.

«Danzerete per noi», spiegò loro Barros. «Danzerete al ritmo della musica di Fernandes e continuerete finché il vecchio non smetterà di suonare. Be’, potete fermarvi, se vi stancate, ma vi avviso che chi cede per primo ne subirà le conseguenze.»

L’uomo accanto a Hal non diede segno di aver capito una sola parola finché il comandante non mandò a chiamare uno dei suoi marinai di colore, che scese rapidamente dalle sartie del trinchetto e tradusse il discorso del comandante in una lingua che lo schiavo parve comprendere.

«Quali conseguenze?» chiese Hal.

Barros indicò con il capo un ufficiale che teneva un piede nudo sopra un voluminoso rotolo di cordame. «Il primo che smette di apprezzare la musica di Fernandes verrà calato al di là della fiancata appeso a quella cima», spiegò. Si rivolse poi ai suoi uomini: «Quelli tra voi che perdono dei soldi a causa dell’esito della danza potrebbero rivincerli scommettendo sul risultato della pesca». Sogghignò mentre si voltava di nuovo verso Hal e allargava le braccia. «Non sono forse un uomo giusto?» chiese. «È per questo che il mio equipaggio mi adora.»

Alle sue spalle i marinai stavano già scommettendo, urlando rivolti al quartiermastro della nave, impegnato nel tentativo di tenere aggiornato il suo registro.

Hal alzò gli occhi verso la maestra della Madre de Deus. Barros lo imitò.

Poi disse: «Ah. Anche voi sperate che riusciamo a mantenere questa velocità. Otto nodi, non direste?»

Hal stava pensando ai banchi di squali tigre che seguivano sicuramente la nave, cercando cibo fra i rifiuti e gli escrementi gettati fuori bordo.

«Abbiamo calcolato che gli squali nuotano a una velocità media di due nodi», continuò l’altro, «ma sono in grado di andare molto, molto più in fretta per brevi tratti.» Si rivolse ai suoi ufficiali. «Vero?»

«Abbiamo registrato una loro velocità superiore agli otto nodi, comandante, ma non riescono a mantenerla a lungo», affermò il quartiermastro.

Barros annuì e tornò a rivolgersi a Hal. «Naturalmente nulla di tutto ciò deve preoccuparvi, fintanto che continuate a danzare.» Detto questo, si girò e con un ampio gesto del braccio invitò l’anziano gobbo a cominciare. «Jamaica, se non ti dispiace, Fernandes. Ma mantieni un ritmo vivace. Gli inglesi adorano le gighe allegre.»

Fernandes cominciò a pizzicare le corde di minugia con le sue lunghe unghie ingiallite.

L’africano e Hal si guardarono.

«Allora? Cominciate!» esclamò il comandante, e l’uomo con il gatto a nove code diede una sferzata a entrambi, come incentivo.

Hal danzò.

 

 

«Sai bene anche tu che non possiamo attraccare a Quelimane o in uno degli altri porti lungo la costa, vero?» Benbury osservò l’Avvoltoio, appoggiato come lui al parapetto del cassero di poppa della Pelican, e ne guardò il naso a becco sollevarsi e abbassarsi in segno di assenso. «Quei dannati portoghesi li controllano tutti e non permettono a nessuno di commerciare, a parte agli arabi. Portare uno schiavo sulla costa equivale a commerciare.»

«Portare sulla costa uno schiavo rapito è un reato da pena capitale», puntualizzò la voce gracchiante dell’Avvoltoio. «Cosa avevi in mente?»

«Be’, il mio secondo ufficiale, Pereira, sa dove si trova la miniera di Lobo e giura sulla propria testa di poterla trovare, con un sestante per calcolare la direzione. Una volta che arrivate là può anche farti da interprete, perché ho saputo che questo Lobo non parla nessuna lingua a parte il portoghese e il dialetto che biascicano i selvaggi della zona. Vi farò sbarcare vicino al delta di un fiume che conosco, dove non ci sono bianchi. Bada, è una zona paludosa, ma puoi procurarti una barca in qualche modo onesto, immagino. E ti troveresti più vicino alla miniera che se ti portassi a Quelimane.»

«Questo viaggio toccherà a me, vero?»

«Uno di noi due deve pur farlo», sottolineò Benbury. «E io sono quello che fa navigare la nave.»

«Marciare attraverso metà Africa non migliorerà certo la bellezza verginale di Judith Nazet», obiettò l’Avvoltoio.

«Ah, quanto a questo... Non è una delicata fanciulla bianca. Si troverà perfettamente a suo agio.»

Il leone d'oro
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