Hal si arrampicò sull’albero di maestra con agile sicurezza. Mentre si sistemava sulla coffa, appena sotto la testa di moro, alzò gli occhi verso la nube sottile che stava scivolando davanti alla luna. Aveva il fiato di poco più corto rispetto a quando, da ragazzo, si arrampicava fino al colombiere diverse volte al giorno, ma era sempre bello respirare l’aria fresca e pulita lassù dove la brezza era un balsamo, sfumato solo dall’aroma delle cime impeciate, dall’odore di muffa delle vele e, di tanto in tanto, quando il vento era giusto, dal profumo dolce e speziato del suolo africano, in arrivo dalla costa.

Scrutò nel buio verso nord, cercando tracce della nave olandese avvistata l’ultima volta a una decina di miglia di distanza dalla poppa della Bough. Un lampo bianco attirò il suo sguardo, laddove la nube si era sfilacciata lasciando filtrare l’ultimo bagliore di luce lunare. Hal sapeva di avere la vista acuta come pochi uomini a bordo – c’era un motivo se aveva scelto di mettersi lui stesso di vedetta, invece di affidarsi a un altro – ma mentre scrutava l’oceano le nuvole serrarono di nuovo i ranghi: tornò il buio e a quel punto non rimase nulla da vedere.

«Dove sei?» mormorò.

Giunse l’alba, una macchia di sangue a chiazzare l’orlo della veste della notte, mentre gli ultimi refoli del vento da nord soffiavano sulla tela e la Bough rallentava in modo sensibile l’andatura, per poi andare alla deriva man mano che perdeva l’abbrivo necessario per governare e infine si rifiutava di fare una sola iarda in direzione sud. Mentre la foschia ammantava la superficie del mare, avvolgendo la nave e le acque circostanti in una soffice coltre che smorzava il suono così come offuscava la visuale, la Bough rollava dolcemente sulle onde. Hal avrebbe potuto lasciarsene cullare fino ad addormentarsi come un bimbo, ma trasalì sentendosi chiamare da Ned Tyler, sul ponte. Il timoniere gli stava chiedendo l’autorizzazione a gettare l’ancora: era meglio rimanere lì dov’erano, piuttosto di rischiare di spostarsi lentamente, alla cieca e in balia delle maree, per ritrovarsi arenati su un banco di sabbia.

Hal si sentì un po’ in colpa: stava lassù come un giovane guardiamarina invece che sul cassero o a poppa, come il comandante che era. Ma si rifiutava di abbandonare le ricerche così presto, non quando l’istinto gli urlava che là fuori c’era la nave olandese. Era una nave di piccole dimensioni: tre alberi, con vele quadre invece che latine. Con ogni probabilità un bottino, catturata agli spagnoli o ai portoghesi, immaginò lui, perché era raro vedere una nave del genere battere bandiera olandese. Le sarebbe sicuramente bastato quel poco vento per avanzare ancora, poiché era grande la metà della Bough. Hal sapeva di non avere nulla da temere da un veliero come quello, e non soltanto perché le sue colubrine potevano farlo saltare in aria, in caso di uno scontro diretto.

«Accidenti a questa tregua», sussurrò, stringendo gli occhi come se potessero penetrare nella foschia e cogliere un’altra fugace visione di tela bianca. Al momento vigeva la pace fra inglesi e olandesi, anche se lui avrebbe preferito il contrario. Era stato un governatore olandese della colonia del capo di Buona Speranza a ordinare che suo padre venisse torturato e ucciso, ed erano stati degli olandesi a seguirne le istruzioni alla lettera, con tutta la brutalità di cui erano capaci. Hal bramava la legittimità fornita dalla guerra: avrebbe potuto spargere sangue olandese a litri per vendicare le sofferenze paterne.

All’improvviso gli parve di cogliere nell’aria l’odore della nave olandese, una zaffata di pece fresca e di sudore stantio dell’equipaggio, ma un attimo dopo era scomparso. Aboli aveva ragione a dire che Sir Francis aveva preparato bene il figlio al comando di una nave. Eppure c’era qualcos’altro, qualcosa che nemmeno il padre avrebbe potuto insegnargli, ed era l’istinto del guerriero. Se lo sentiva scorrere dentro come il sangue nelle vene. Se fosse stato necessario, si sarebbe trasformato in un assassino. Quell’istinto lo aveva indotto a lasciare il suo letto morbido e la splendida donna che vi giaceva per arrampicarsi fino al colombiere. Lo stesso istinto che adesso lo avvisava del pericolo.

Non aveva visto il primo dei rampini fasciati nel tessuto che artigliarono il ponte della Golden Bough, ma vide le prime sagome scure scavalcare la fiancata nella foschia.

«All’arme! All’arme!» urlò, mentre le prime pistole sputavano fiamme che squarciarono la foschia, illuminando per un fugace istante i volti degli uomini arrivati per ucciderli. Era già uscito dalla coffa e scese verso l’inferno che li stava avvolgendo.

Ringraziò l’Onnipotente per avere spinto gli amadoda a dormire sotto le stelle: stavano balzando in piedi, le armi in pugno, per gettarsi nella mischia. Di fronte alla ferocia, alle lance e alle asce dei guerrieri africani, gli assalitori stavano di certo rimpiangendo quell’azzardo. Ma già a metà dell’albero Hal notò che quanti si arrampicavano al di sopra delle falchette della Bough erano massicciamente armati: ognuno di loro brandiva una pistola e ne aveva altre due legate a una corda appesa al collo. Vide uno degli amadoda scagliato all’indietro dall’impatto di una pallottola che gli squarciò il petto nudo. Cadde sul ponte, con gli occhi che si rovesciavano.

Ormai a poca distanza dal ponte, Hal saltò giù. Quando i suoi piedi toccarono il tavolato si ricordò di essere disarmato. Non aveva pensato di prendere la pistola a pietra focaia o la spada, mentre lasciava la cabina.

«Tieni, Gundwane!» A quelle parole si voltò e afferrò la sciabola per l’elsa, rivolgendo un cenno d’assenso ad Aboli, che gliel’aveva lanciata. Poi si catapultò nel caos, aprendo in due il viso di un uomo e subito dopo roteando su se stesso per conficcare la lama nelle budella di un altro.

«Golden Bough, a me!» urlò, e gli amadoda risposero con un grido mentre si gettavano in avanti. Altri membri dell’equipaggio stavano spuntando dai boccaporti.

Spalla contro spalla, Hal e Aboli si aprirono un varco fra i nemici a forza di fendenti. Gli olandesi però avevano ancora pistole cariche che ruggivano, sputando morte e distruzione.

Un olandese enorme, i cui lineamenti erano celati da una folta barba scura, fece fuoco con la sua, poi la afferrò per la canna e la calò sulla testa dell’uomo di colore che aveva di fronte. Tre amadoda stramazzarono a terra davanti a lui, ma a quel punto comparve Big Daniel. La sua spada era rimasta incastrata nella spalla di un nemico abbattuto, ma la sua forza bruta rappresentava un’arma sufficiente. Sollevò di scatto un braccio muscoloso per bloccare la pistola dell’olandese, gli ghermì la barba con entrambe le mani e tirò verso di sé, mentre lanciava la testa in avanti, spaccando il naso dell’energumeno con uno schianto di ossa che Hal riuscì a sentire persino nel frastuono della battaglia.

L’olandese barcollò, con il sangue che zampillava su viso e barba. Big Daniel si guardò attorno, recuperò la spada dalla spalla del cadavere e si gettò sull’uomo barbuto come un macellaio su un quarto di manzo.

Hal lanciò un grido di esultanza. Qualsiasi vantaggio gli olandesi potessero avere guadagnato con l’attacco a sorpresa era stato vanificato dalla velocità e dalla ferocia con cui gli uomini della Bough avevano reagito. Non aveva ancora vinto, non in modo definitivo, ma nel corso della sua breve vita aveva partecipato a un numero sufficiente di arrembaggi da sapere quando l’equilibrio di forze stava cambiando. Un ultimo sforzo e quel mutamento sarebbe stato decisivo. Stava per lanciare l’urlo con cui chiamava a raccolta gli uomini quando sentì Aboli gridare: «Gundwane!»

Hal guardò verso il ponte e lo vide che puntava la spada verso poppa, indicando la mischia ai piedi dell’albero di mezzana.

No! si disse Hal, disperato. Non è possibile!



Il leone d'oro
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