Se Zanzibar era l’isola sulle cui coste approdavano i popoli di metà del mondo conosciuto, i Três Macacos, le Tre Scimmie, era il locale frequentato dalla feccia di quello stesso mondo. La taverna si trovava in un vicoletto senza uscita, nel cuore del quartiere più antico e sudicio della città. Vendeva alcolici, cosa che le autorità dell’Oman, fedeli ai precetti del Corano, ufficialmente proibivano, ma sulla quale si chiudeva più di un occhio, purché venissero smerciati solo da infedeli a infedeli. Anche il pagamento di cospicue somme a chi avrebbe dovuto far rispettare le leggi contribuiva a tenere aperto il locale, soprattutto visto che gli individui in questione erano clienti regolari. Come molti zanzibarini, frequentavano il Macacos non per il liquore di zucchero di canna che passava per rum, né per l’acre aceto spacciato per vino, bensì per i combattimenti di galli e di cani che si svolgevano in una lurida arena cadente, pervasa dal fetore degli escrementi dei volatili e dei cani, oltre che del sangue, approntata in un cortile sul retro.

La sala principale della taverna ospitava un variegato campionario di pirati, contrabbandieri, trafficanti di schiavi, mercenari, mercanti e marinai di ogni genere, rango e razza, vezzeggiati da prostitute rozzamente imbellettate e sifilitiche. L’aria era pregna di un forte odore di fumo di tabacco, corpi non lavati, liquore stantio e dei robusti profumi con cui le signore si cospargevano con generosità dopo ogni cliente. Ma persino in quel lurido tempio dedicato alla depravazione e al languore, l’arrivo dell’Avvoltoio, accompagnato dal suo schiavo personale e da un paio di guardie, la cui presenza mirava sia a proteggerlo che a scoraggiare un eventuale tentativo di sottrarsi al servizio del principe Jahan, fece calare un immediato silenzio nella stanza. Persino gli uomini più disincantati, stanchi della vita e sicuri di aver già visto tutto, si voltarono a guardare.

Un burlone ubriaco ebbe l’ardire di gridare: «Spiacente, uccellino, qui non servono vermi!» Un attimo dopo, la lama dell’Avvoltoio era premuta sul suo collo e lui stava balbettando scuse ossequiose.

L’Avvoltoio raggiunse a grandi passi il bancone della mescita. «Rum», gracchiò. Fece un gesto, e lo schiavo gli si avvicinò, portando il contenitore da cui lui beveva. «Riempilo. Fino all’orlo. Se vuoi soldi chiedili al principe Jahan, perché io non ne ho portati», disse alla servetta, che annuì, ammutolita dal terrore. Sapeva, come tutti gli zanzibarini, che il principe aveva domato un djinn che era per metà uomo e per metà uccello. Aveva anche sentito dell’uccisione del ragazzo che gli aveva lanciato addosso una manata di escrementi, e dei criminali massacrati da quel mostro nel carcere cittadino. Se lui voleva del rum ma non vedeva la necessità di pagarlo, lei non intendeva certo discutere, ed era sicura che nemmeno il padrone del locale avrebbe voluto farlo.

Lo schiavo dell’Avvoltoio prese il contenitore ora colmo e seguì il padrone fino a uno dei pochissimi tavoli liberi del locale, inserì il beccuccio nel foro della maschera, come di consueto, e l’uomo tracannò avidamente la prima sostanza alcolica che da mesi toccasse le sue labbra.

In un punto imprecisato della stanza, qualcuno fu così sciocco da ridacchiare. L’Avvoltoio allontanò il beccuccio con una rabbiosa torsione del polso, si alzò e scrutò il locale, con il becco che girava davanti a lui come il bompresso di una nave che bordeggiava, e andava su e giù mentre l’occhio perlustrava la stanza. Tutte le risate si spensero, insieme alle chiacchiere. Poi la testa dell’Avvoltoio smise di muoversi. Si fermò per fissare un tavolo in particolare. Alcune teste si girarono da quella parte, seguendo la direzione del suo sguardo. L’Avvoltoio lasciò il proprio tavolo per attraversare in fretta la taverna, con furfanti pieni di cicatrici e duri come tek che si levavano in fretta dal suo tragitto.

Raggiunse il tavolo che aveva attirato la sua attenzione. Vi sedeva un uomo da solo, con una bottiglia di vino e un boccale dal coperchio in peltro davanti. Non si agitò vedendo avvicinarsi lo sconosciuto. Rimase seduto a fissare gli occhi dipinti sulla maschera di pelle, con un’espressione di perversa caparbietà che diceva: Non intendo indietreggiare, quindi se vuoi spaventare qualcuno ti conviene cercare altrove.

Ma poi l’Avvoltoio fece una cosa che nessuno aveva previsto. Si fermò accanto al tavolo, scostò una sedia, vi si lasciò cadere e disse: «Che mi prenda un colpo, il comandante Hamish Benbury. Come te la passi, vecchio bastardo bisbetico?»

Il silenzio nella stanza si fece più intenso, al pari della tensione, mentre Benbury restava muto e immobile come una lapide. Poi girò la testa, sputò sul pavimento coperto di segatura, riportò lo sguardo sull’Avvoltoio e replicò: «Buona giornata anche a te, Cochran. Mia madre diceva sempre: ’Si rimane morti per un sacco di tempo’. A quanto pare si sbagliava». Bevve una lunga sorsata di vino e poi aggiunse: «Pensavo che non potessi diventare più brutto di com’eri. Evidentemente mi sbagliavo anch’io».

L’Avvoltoio cominciò a ridere, per scoprire – un’altra nuova esperienza – che i suoi polmoni e la sua gola non erano in grado di reggere. Per alcuni secondi rimase vittima di un violento e doloroso attacco di tosse, che lo spinse a picchiare il pugno sul tavolo, irritato e frustrato. Si guardò intorno in cerca del suo schiavo, ancora seduto al tavolo che lui aveva appena lasciato, e a gesti rabbiosi gli indicò di raggiungerlo. L’altro arrivò al centro della stanza, si rese conto di avere dimenticato il rum, tornò a prenderlo, corse affannosamente verso di lui e gli infilò di nuovo in bocca il beccuccio.

Quella frenetica esibizione risultò talmente grottesca da alleviare la tensione nella stanza, dove riprese il consueto coro di conversazioni, scherzi e insulti furibondi. Dopo un po’ iniziarono i combattimenti fra galli e la calca si assottigliò man mano che i clienti uscivano per assistere al massacro. L’Avvoltoio e il comandante Benbury rimasero quindi a parlare in santa pace.

Per alcuni minuti l’Avvoltoio raccontò di come fosse sopravvissuto, per poi venire tratto in salvo e reclutato dal principe Jahan. Descrisse il proprio ruolo nella miglior luce possibile, sottolineando in che misura l’allenamento gli avesse restituito la capacità di combattere e offrendo racconti piccanti sulle concubine incontrate nell’harem del principe.

«Davvero?» chiese Benbury, quando l’Avvoltoio gli ebbe raccontato il momento in cui si era ritrovato faccia a faccia, e corpo a corpo, con la concubina preferita del principe. «Ho sempre sentito dire che gli unici uomini ammessi negli harem sono eunuchi. Devono avermi informato male. Insomma, tu non sei un eunuco, Cochran, vero?»

L’Avvoltoio smentì con ferocia quella che suonava come un’insinuazione assurda, e spiegò che era un segno dello speciale favore del principe.

«Già, dev’essere così», replicò Benbury, mentre notava i lucchetti sulla parte posteriore della maschera e l’anello sul collo, per non parlare del modo in cui le due guardie non staccavano mai gli occhi dall’Avvoltoio. Concluse che l’attuale posizione del conte di Cumbrae non fosse quella di un privilegiato, bensì una via di mezzo fra prigioniero, schiavo e orso ammaestrato.

L’Avvoltoio percepì lo scetticismo del suo interlocutore. Aveva visto gli occhi di Benbury posarsi sull’anello, e una parte di lui aveva desiderato gridare: Sì! Possono tenermi al guinzaglio come un cane, e con ciò? Ma a cosa sarebbe servito? Meglio stipulare il tacito accordo di non discutere oltre della questione, almeno per ora. Data la situazione, era tempo di cambiare argomento.

«Allora, Benbury, hai ascoltato il mio racconto. Ora dimmi cosa porta te e la Pelican, perché presumo che tu ne sia ancora il comandante, in questo posto marcio.»

«Sono ancora orgoglioso di dichiararmi comandante della Pelican, Cochran», ribatté Benbury. «E sai, mi è appena venuto in mente che i miei affari qui potrebbero interessarti e avvantaggiare entrambi.»

L’Avvoltoio si protese e piegò la testa, per consentire al suo unico occhio brillante di mettere a fuoco l’uomo di fronte a lui. «In che senso?»

«Ecco, sono impegnato in una sorta di speculazione. Conosci un portoghese di nome Baltazar Lobo?»

«No, non mi risulta.»

«È un gentiluomo assai singolare. Certo saprai che da molti e lunghi anni i portoghesi hanno porti lungo tutta la costa swahili, chiusi a tutti gli altri bianchi, dai quali parte l’oro estratto dalle miniere dei regni indigeni all’interno del paese.»

«So tutto al riguardo, Benbury, sì, e ho osservato diverse navi portoghesi veleggiarmi accanto, ingrassate dall’oro nella loro pancia, maledicendo che non fossimo in guerra contro quello stato, così da avere un motivo per catturarle.»

«Ottimo. Dunque, in tutti questi anni i portoghesi sono rimasti nei loro porti senza avventurarsi quasi mai nell’entroterra. Oh, hanno stabilito basi commerciali qua e là, e alcuni missionari sono andati a cercare anime pagane da convertire, ma hanno lasciato l’estrazione dell’oro alla popolazione indigena. Quel Baltazar Lobo, però, ha deciso che non gli andava di aspettare che l’oro venisse portato sulla costa. No, lui si sarebbe spinto nell’entroterra, fino a un posto chiamato regno di Manyika, per sfruttare in prima persona quella dannata vena aurifera.»

«Immagino che i capi locali non ne siano stati felici.»

«Be’, sono sicuro che abbia pagato un buon prezzo. Ha trovato una miniera e, maledizione, tra quelle rocce c’era l’oro e adesso Lobo è ricco come Creso.»

«Adesso sei sul suo libro paga, Benbury? Sono quelli i tuoi affari?»

«No, lui non mi ha pagato... non ancora, ma spero tanto che lo farà. Vedi, il senhor Lobo ha un piccolo problema: non riesce a trovare una donna che gli dia un figlio.»

«Forse il problema non sono le donne.»

«Sì, probabilmente hai ragione, Cochran, ma supponi che qualcuno riesca a trovare una donna, si assicuri che sia gravida e la venda a Lobo prima che le sue condizioni risultino evidenti. Lobo penserebbe che il bambino sia suo e sarebbe infinitamente grato a chi gli ha portato la madre di questo piccolo miracolo, non credi?»

«Già, lo sarebbe davvero, e si potrebbe ricavare un buon profitto dalla sua gratitudine.»

«Ora, sto cercando da un po’ la fanciulla perfetta da vendere a Lobo. Sono venuto a Zanzibar per vedere se ce n’era una qui. E mentre ascoltavo il tuo racconto sull’harem del sultano mi sono chiesto cosa succede quando il tuo signore si stanca di una ragazza. Secondo me la vende a un altro. E se è così, Cochran, forse potresti usare la tua influenza sul potente principe Jahan, affinché venda a me una delle sue concubine. Saprei ricompensarti con generosità il disturbo.»

A quel punto un sorriso si aprì sul volto celato dell’Avvoltoio, un ghigno ampio e lascivo come quello dipinto sulla sua maschera. Perché lì, nell’insignificante figura di Hamish Benbury, aveva trovato la risposta a tutti i suoi problemi, la fine delle sue sofferenze e l’opportunità di iniziare una nuova vita, libero dal principe e ormai vendicatosi di Courteney.

«Posso fare molto, molto meglio di così, Benbury. Posso procurarti una cagna che ha già il cucciolo tanto desiderato da Lobo piantato nella pancia. E non ti costerà nemmeno un penny... tranne la metà del suo prezzo di vendita, che darai a me.»

«E perché dovrei?»

«Perché si tratta di una donna che vale una somma principesca. Lobo si sentirà un principe, possedendola.»

Cominciò a spiegare. Mentre lo faceva vuotò la brocca di rum, una seconda e un’altra bottiglia di vino divisa con Benbury. Una volta terminata la conversazione e gli alcolici, si strinsero la mano per suggellare l’accordo; l’Avvoltoio uscì dal Três Macacos con lo schiavo e i guardiani, molto più felice rispetto a quando vi era entrato, meglio di quanto si fosse mai sentito dopo l’affondamento della Gull of Moray. A tal punto che levò lo sguardo verso il cielo notturno e si rivolse al Creatore.

«Grazie, vecchio. Era ora che mi facessi un favore.»

Il leone d'oro
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