Jahan percorse le strade di Zanzibar insieme all’Avvoltoio a bordo di una carrozza aperta, in modo che chiunque potesse vedere l’uomo mascherato e tremare al suo cospetto. Un drappello di cavalieri precedeva la carrozza, con un altro dietro a scoraggiare persino il più temerario dei piantagrane. Non che qualcuno pensasse anche solo di minacciare il mostro con un unico braccio: tutti avevano saputo della spietata decisione di giustiziare il ragazzo che aveva osato dileggiarlo. Molti si voltavano, piuttosto di posare gli occhi su quell’essere crudele, che consideravano un djinn malvagio, una creatura di Shaitan che non apparteneva davvero a questo mondo.
Soltanto un’ora prima Jahan gli aveva mostrato alcune incisioni raffiguranti antichi templi e tombe egizi, con ritratti di Anubi, il signore dell’Aldilà con la testa di sciacallo. «Questo è il dio della morte», aveva spiegato mentre l’Avvoltoio chinava la testa per offrire una visuale migliore al suo unico occhio. «Guarda, il muso ha quasi la stessa forma del tuo naso di pelle. Considerati Anubi, portatore di morte, nemico della vita, colui che guida le anime dei defunti nel viaggio verso la vita ultraterrena.
«A tale proposito, mi ha molto colpito il modo in cui ti sei vendicato del lordume che ti hanno tirato addosso. Mi ha fatto pensare che dovremmo sviluppare il tuo talento nel dare la morte. Devi diventare, con un solo occhio e un solo braccio, ancora più pericoloso di quanto tu sia mai stato con due. Avrai bisogno di addestramento. Comincerai da ora.»
E adesso lo stavano accompagnando alla sua prima sessione. Lui e Jahan non erano soli in quel viaggio, perché una vettura chiusa stava seguendo il cocchio aperto. Tutti i finestrini erano chiusi da tendine, tanto che gli occupanti erano completamente celati e nemmeno potevano guardare fuori. L’Avvoltoio aveva notato che l’altra carrozza era già pronta a partire, quando lui era stato portato fuori per occupare il posto di fronte a Jahan. Entrambi i veicoli e la loro scorta varcarono le porte principali della più grande prigione cittadina, per poi fermarsi al centro di un ampio cortile quadrato. Jahan e l’Avvoltoio rimasero accanto alla carrozza mentre il direttore del carcere si avvicinava e si inchinava di fronte al primo, per poi raddrizzarsi e lanciare un’occhiata terrorizzata all’Avvoltoio. Batté le mani e tre guardie, scelte per la stazza e la ferocia fuori dal comune, si fecero avanti. Una di loro portava una pesante catena. Le altre due le stavano accanto, la mano destra sul pomello della spada sul fianco.
L’Avvoltoio vide un lucchetto agganciato a un’estremità della catena. Era chiaro, poiché ogni sua azione includeva la possibilità di venire subito giustiziato al minimo segno di disobbedienza, che i tre lo avrebbero ucciso senza remore, se avesse tentato di opporsi a quanto stava per succedere. Quindi rimase immobile, mentre il lucchetto veniva chiuso sull’anello di ottone fissato al suo collare in pelle, e si lasciò condurre come un animale attraverso il corpo centrale della prigione, dove i detenuti si zittirono mentre sfilava loro davanti, fino a raggiungere un cortile cinto da alte mura su tutti i lati. Girò di scatto la testa da una parte e dall’altra, tentando di scorgere quanto più possibile dell’ambiente che lo circondava, e si trovò di fronte tre spessi muri grigi di mattoni di fango. Ma nella parete alle sue spalle doveva esserci una sorta di galleria da cui osservare la scena, perché l’Avvoltoio udì un suono familiare, un gioioso strillo di piacere, accompagnato dal grido: «Vedo il Brutto!»
Riconobbe subito la voce della concubina preferita di Jahan, Alina. Era circassa, originaria della terra sulle coste nordorientali del mar Nero le cui donne erano celebri sia per la bellezza che per le doti amatorie. Le concubine che costituivano l’élite dell’harem del sultano ottomano a Costantinopoli erano circasse, così come le più stimate fra quelle dedite al piacere del fratello di Jahan, il Gran Mogol, nel Forte Rosso di Delhi.
Alina non vantava il viso più grazioso di tutte le ragazze di Jahan né la figura più perfetta e armoniosa, ma c’era una pienezza licenziosa nelle sue labbra e una scintilla lasciva nei suoi occhi, oltre al fatto che ogni tratto del suo corpo e ogni suo movimento sembravano avere come unico scopo il piacere, sia quello dato a Jahan che quello ricevuto. Era rimasta affascinata dall’Avvoltoio quando era entrato nell’harem per la prima volta, scortato da due guardie la cui gigantesca statura e il cui corpo muscoloso non tradivano in alcun modo il loro stato di eunuchi. Mentre le altre concubine erano rimaste in disparte, aggrappandosi impaurite l’una all’altra, lei si era avvicinata alla strana figura mascherata, tanto che lui era riuscito a captare lo squisito profumo di patchouli, rose, fiori d’arancio e bergamotto che lei amava mettersi, unito al tiepido muschio animale del suo corpo seminudo.
«Parla come una persona normale, mio signore?» domandò lei a Jahan con voce roca, profonda, eppure totalmente femminile.
«No», replicò il suo principe. «Ma capisce quello che dici.»
Ormai Alina gli si era avvicinata tanto che l’Avvoltoio aveva avvertito la delicata pressione del suo corpo sul proprio. Si accorse che cominciava a eccitarsi ma, invece della durezza irrorata di sangue che un tempo lo identificava come un uomo, provava solo un esasperante e pulsante prurito, una versione assai più estesa e intensa della puntura di una zanzara, nel moncherino di tessuto cicatriziale rimastogli.
La concubina lo guardò dal basso e chiese: «Il mio signore ha ragione? Capisci quello che dico, Brutto?»
L’Avvoltoio non sapeva cosa fare. Non poteva parlare, pena la morte. E il suo intero essere era consumato da un pulsare pruriginoso, insopportabile eppure delizioso, che si irradiava dall’inguine. Avrebbe voluto toccarsi in qualche modo, ma sapeva che non glielo avrebbero permesso. Percepì vagamente la voce di Jahan che diceva: «Ti è permesso annuire», e che sembrava arrivare da un altro mondo.
Lui annuì e, mentre lo faceva, non riuscì a impedire ai propri fianchi di dimenarsi. «Oh, prova desiderio», affermò Alina, in tono meditabondo. «Ma come?»
Si alzò in punta di piedi, la testa sollevata verso la maschera di lui, e sussurrò: «Rimani immobile, Brutto, se vuoi vivere. E soprattutto non muovere la mano, perché se mi tocchi anche solo con un dito la tua morte sarà atroce. Annuisci per dire che sei d’accordo, altrimenti mi allontano in questo stesso istante e non mi avvicinerò mai più a te».
L’Avvoltoio fece due cenni rapidi e disperati con la testa.
Alina strillò, fece un balzo all’indietro e ridacchiò.
«Stai attento con quel becco, Brutto. Il mio principe non saprebbe cosa farsene di una concubina orba!» Gli si avvicinò di nuovo, si accosciò ai suoi piedi e gli afferrò l’orlo della djellaba nera. «Allora, cosa nascondi qui sotto?» chiese, sollevando lentamente l’orlo e mettendo in mostra le gambe e poi le cosce dell’Avvoltoio. «Uh!» esclamò, il viso contorto in un’espressione di disgusto. «La sua pelle è rossa, squamosa e puzzolente.»
Strilli disgustati si levarono dalle altre ragazze dell’harem, che si stavano avvicinando con estrema lentezza, man mano che la curiosità aveva la meglio sulla paura.
Dietro la maschera, il viso dell’Avvoltoio bruciava di umiliazione e vergogna, e a peggiorare il tutto si intensificò l’irritazione al suo moncherino. Il cuore gli martellava nel petto e il respiro si era fatto corto e profondo, tanto che lui cominciò a temere di non poter incamerare abbastanza aria nei polmoni attraverso il minuscolo foro nella maschera. Si rese conto di non provare alcun dolore ai polmoni, nemmeno mentre l’ansimare si accentuava, né in nessun’altra parte del corpo. L’unica cosa che sentiva era il prurito.
Si udì un altro strillo quando Alina sollevò la djellaba quanto bastava per esporre la devastazione operata dal fuoco fra le gambe dell’Avvoltoio. «Guardate!» gridò alle altre ragazze. «Non è né uomo né donna. Ma questo», disse posando con estrema delicatezza le dita sulla pelle viva che rivestiva il moncherino, «questo somiglia al piccolo bocciolo di rosa che ci procura tanto piacere, vero? Chissà se procura piacere anche al Brutto.»
L’Avvoltoio avrebbe voluto spingersi dentro di lei, ma non gli rimaneva nulla con cui farlo. Desiderava stringerla a sé, ma aveva soltanto un braccio, e usarlo lo avrebbe portato alla morte certa. Non poteva fare altro che reggersi su gambe che sembravano sul punto di cedere, tentando di frenare i cenni di affondi spasmodici e il dimenarsi del bacino, che sembravano avvenire fuori del suo controllo, mentre il giocattolo preferito di Jahan lo esaminava e le altre uri osservavano la scena.
Non riusciva a vederle tutte attraverso il foro per l’occhio e così, con i movimenti da uccello che gli riuscivano sempre più naturali, spostava la testa a scatti, mettendo a fuoco, uno per volta, un solo viso incantevole o un paio di seni procaci, oppure un vitino sottilissimo abbinato a fianchi generosi e a un ventre morbido e invitante. In vita sua non aveva mai visto donne tanto belle: quelle erano gli splendidi beni di un uomo che poteva avere qualsiasi cosa desiderasse, scelte con il solo scopo di destare la sua passione. Se si fosse imbattuto in una così magnifica collezione solo pochi mesi prima, le avrebbe prese tutte con la forza, abbuffandosi in un unico, indulgente banchetto di femminilità.
Adesso, invece, poteva solo rimanere in silenzio, mentre la tensione continuava a montargli dentro. Alina lo guardò con qualcosa di simile alla curiosità professionale e si chiese ad alta voce: «Chissà se riuscirei a fargli provare il piacere che un vero uomo o una vera donna assapora?» Rivolse a Jahan il suo broncio più sensuale e supplicò: «Posso giocare con lui, maestà? Per favore».
Il principe rise con indulgenza e rispose: «No, non puoi. Devi giocare con me. Vieni qui e guarda qual è l’aspetto di un vero uomo». Lanciò un’occhiata verso le guardie e ordinò: «Portatelo via».
L’Avvoltoio era stato ricondotto, mortificato e umiliato, nei suoi alloggi. Da allora non aveva più visto Jahan e men che meno era stato ammesso nell’harem, ma adesso il suono della voce di Alina ridestò tutte le sensazioni che la donna aveva suscitato in lui la prima volta e si sentì di nuovo esposto, come se la sua evirazione fosse visibile a tutti, e la rabbia si unì alla vergogna per la degradazione che era costretto a subire.
«Voltati, Brutto!» gridò Alina. «Ho qualcosa per te.»
L’Avvoltoio obbedì e alzò gli occhi per cercare la fonte della voce. Sopra di lui, al primo piano, correva una galleria aperta, troppo alta perché qualcuno potesse raggiungerla dal cortile. Immaginò che servisse a fornire un punto di osservazione privilegiato dal quale i guardiani potessero controllare i detenuti. Adesso, tuttavia, i suoi unici occupanti erano Jahan e Alina, il cui viso era completamente celato da un velo perché nessun uomo, a parte il suo signore, era autorizzato a vederla. In realtà il fatto che le avessero permesso di uscire dall’harem era uno straordinario segno di favore.
«Guarda!» gridò. Allungò entrambe le mani davanti a sé e lui vide che stringeva una spada lunga e sottile dalla punta ricurva: una scimitarra. «Usala bene, Brutto, e potremmo incontrarci di nuovo.»
Alina si sporse in avanti per spingere le mani sotto il basso muretto della galleria e lasciò cadere la spada sul terreno polveroso davanti a lui. L’Avvoltoio la prese, e stavolta fu Jahan a parlare.
«Torna al centro del cortile. Guarda verso le porte da cui sei entrato. Presto si apriranno di nuovo per lasciar passare un uomo. È un assassino. È stato condannato a morte. Quindi uccidilo.»
«Uccidilo!» gli fece eco Alina, con una voce assetata di sangue tanto quanto di amore.
L’Avvoltoio era ritto sugli avampiedi, le gambe divaricate abbastanza da mantenere l’equilibrio ma non tanto da intralciare la sua mobilità. Per la prima volta da mesi si sentiva forte, capace, gonfio del disperato desiderio di dimostrare il suo valore alla bella donna nella galleria, di farle capire che, nonostante tutto, era ancora un uomo.
Pochi istanti più tardi, le porte si socchiusero e mani invisibili spinsero nel cortile il condannato. Era piccolo e magro, vestito solo di un cencio legato alla vita e fra le gambe per coprire i genitali, e un velo di sottili capelli grigi sulla testa. Eppure gli occhi che guardarono l’Avvoltoio, all’estremità opposta del cortile, non erano colmi della paura che ormai lui era abituato a scorgere, bensì della pura malvagità di un uomo estremamente crudele.
L’Avvoltoio vide la preda soppesarlo e cercare i suoi punti deboli. Non erano certo difficili da individuare. Senza l’occhio sinistro e con il becco che gli ostruiva metà del campo visivo, era drammaticamente vulnerabile su un intero lato del corpo. E infatti l’anziano sfrecciò con sorprendente velocità alla sua sinistra. Lui tentò di voltarsi per seguirne i movimenti, ma fu troppo lento e lo perse di vista mentre gli saettava accanto.
«Dietro di te!» strillò Alina, eccitata.
«Voltati!» gli gridò Jahan dall’alto.
L’Avvoltoio ruotò su se stesso con tutta l’agilità che gli era possibile, voltandosi a sinistra, ed ebbe una visione fugace del vecchio che gli correva di nuovo accanto. Dalla galleria giunsero altre urla. Ormai però l’Avvoltoio stava recuperando l’istinto del combattente. Si era girato dalla parte sbagliata. Avrebbe dovuto voltarsi verso destra, la parte del braccio con la spada e del suo unico occhio. E avrebbe dovuto farlo con il braccio teso, mentre muoveva la lama di taglio.
Si girò di nuovo, sfruttando l’ampio gesto del braccio per guadagnare impeto, e stavolta sentì la punta della lama colpire qualcosa, incontrare una certa resistenza e proseguire, seguita da un grido di dolore. Si fermò e vide l’anziano che, chino in avanti, si stringeva la mano destra. Poi qualcosa, sul terreno, attirò il suo sguardo. Abbassò la testa coperta dalla maschera e vide due dita mozzate sulla terra riarsa. Quando rialzò il capo, il vecchio stava indietreggiando: il dolore lo aveva privato di colpo di tutta la combattività.
Ignaro della distanza percorsa, urtò con la schiena il muro del cortile. Era in trappola. Guardò l’Avvoltoio e implorò pietà. Per un attimo lui esitò, poi sentì la voce di Jahan ripetere: «È un assassino. Uccidilo» in tono autoritario, piatto e privo di emozioni. Seguì il grido di Alina, molto più eccitato: «Uccidilo, Brutto!»
L’Avvoltoio non ebbe esitazioni. Fu un atto da boia, un pugno al ventre per costringere l’uomo a piegarsi in avanti, seguito da un fendente sulla nuca ormai esposta. Fu bello uccidere. L’umiliazione di fronte alle donne dell’harem lo aveva fatto infuriare, e negli ultimi giorni la bile aveva continuato ad agitarsi dentro di lui, senza possibilità di sbocchi. Adesso aveva un obiettivo, ma non ebbe il tempo di godersi la nuova situazione perché Jahan gli stava già gridando: «Le porte! Girati verso le porte!»
Lui si voltò, muovendo la testa di scatto mentre si orientava e un altro uomo usciva nel cortile. Era più giovane e di costituzione ben più robusta del primo, ma aveva una menomazione alla gamba che lo costringeva a un’andatura dinoccolata, semizoppicante. L’Avvoltoio capì di dover muovere di continuo la testa, così da tenere l’occhio sempre fisso sul bersaglio, e che al contempo anche i piedi dovevano rimanere in movimento. Se si fosse trovato a lottare con un avversario armato, un solo momento di immobilità avrebbe significato la morte.
Gli ci volle un po’ per adattarsi alla nuova tattica, ma alla fine chiuse in un angolo il secondo uomo e lo lasciò steso sul terreno, con il ventre squarciato in un rosso e fumante ammasso di viscere, sangue e sabbia.
Quando il terzo sventurato entrò nel cortile, l’Avvoltoio aveva ormai acquisito il giusto ritmo e lo eliminò nel giro di pochi istanti.
«Ne ho abbastanza», annunciò Alina, con un tono di annoiato capriccio.
«Bene», replicò Jahan, «abbiamo cose assai più piacevoli da fare.»
Se ne andarono senza rivolgergli nemmeno un cenno del capo, chiarendo al di là di ogni dubbio che lui non contava nulla. L’Avvoltoio rimase sconcertato, scoprendosi ferito dall’indifferenza di Alina, come un ragazzino alla prima cotta. Ma poi venne riscosso dalle sue fantasticherie da una nuova voce, ben più brusca, che lo chiamava dalla galleria.
«Ehi, uomo mascherato!»
Alzò gli occhi per vedere un tizio dalla corporatura massiccia, simile a un tronco d’albero. Aveva la testa rasata e il petto nudo, e braccia che, vicino al busto, erano più massicce delle cosce di un uomo. «Mi chiamo Ali! Sono il tuo addestratore, e tu hai del lavoro da fare. Sua altezza vuole che io ti trasformi in un combattente, ed è ciò che intendo fare. Dunque rimani all’erta, continua a muoverti. E non fermarti finché non te lo dico. Questo è sia un ordine che un consiglio spassionato. Mi senti?»
L’Avvoltoio annuì.
«Bene», continuò Ali, «perché gli uomini che vedrai adesso sono più giovani e più forti, e devi credermi, uomo mascherato: se tu non li uccidi, sicuramente loro uccideranno te.»
L’addestratore non mentiva. I due condannati seguenti ridussero l’Avvoltoio allo stremo delle forze, mentre tentava di condurli in un punto in cui sarebbero stati alla sua mercé. Il sesto uomo brandiva un bastone che lui dovette scansare, prima di poterlo uccidere. Il settimo gli assestò diversi colpi efficaci, e ormai lui era talmente sfinito, lento nel reagire e a corto di energie che fu soltanto il più che concreto timore di andare ad aggiungersi ai morti disseminati nel cortile a dargli la forza di prevalere. Un fiacco e stremato affondo diede il colpo di grazia al suo ultimo avversario, dopo di che l’Avvoltoio crollò in ginocchio, sazio di morte e nauseato dal sangue versato. Era talmente stanco da percepire a stento le dita che gli sfilarono la spada dalla mano, e si rese conto che stava per lasciare quel luogo infernale solo quando sentì tirare la catena e venne quasi trascinato in piedi, fuori dal cortile.
Era distrutto, affamato e assetato all’inverosimile. Quando tornò nel suo alloggio, uno schiavo gli accostò il beccuccio dell’annaffiatoio al foro della maschera, e lui tracannò l’acqua fresca con una foga disperata, impotente. Gli venne tolta la djellaba e fu accompagnato a fare un bagno caldo, colmo di oli lenitivi che aiutarono i suoi muscoli torturati a distendersi. Dopo essere stato asciugato e fornito di una tunica pulita, si vide servire un passato troppo liquido di ceci, verdura e carne trita, che rappresentava il suo pasto della giornata.
In seguito, dopo che ebbe dormito un po’, venne raggiunto da Jahan.
«Oggi sei stato bravo. D’ora in poi Ali ti addestrerà ogni giorno. A volte lavorerete da soli, altre volte verrai portato alla prigione per mettere in pratica quanto hai imparato. Là ci sono molti uomini che possono venire uccisi senza che nessuno si accorga della loro scomparsa.»
Gli si avvicinò, gli posò una mano sulla spalla e lo guardò attentamente negli occhi. «Alina è una donna straordinaria, vero?» chiese, quasi come un amico, come un uomo che parlasse con un suo pari.
«Sì», rispose l’Avvoltoio, che in privato era autorizzato a rivolgersi a lui.
«A volte non riesco a capire se è una strega, una puttana o una dea... Magari è tutte e tre le cose insieme. È stato incredibile vedere che è riuscita a dare piacere persino a una creatura come te.» Si interruppe per un attimo, poi aggiunse: «Ti ha eccitato, vero? Nei limiti in cui è possibile farlo».
«Sì», confermò l’Avvoltoio, e stavolta la sua voce suonò roca, gutturale.
«E vorresti che lei ti desse piacere in modo adeguato, ne sono sicuro.»
«Oddio, sì... vi prego... sì.»
Jahan gli rivolse un sorriso mesto. «Lo immaginavo. Ma dovrai aspettare un po’ per quel viaggio in paradiso, perché né Alina né una qualunque delle mie concubine ti toccheranno, finché non avrai portato a termine il compito che ti spetta e ucciso il comandante Henry Courteney.»
«Ma... e poi?» chiese l’Avvoltoio.
Jahan sorrise. «Se uccidi Courteney, e gli fai pagare tutti gli oltraggi ai quali ha sottoposto noi due, il mio popolo e la nostra causa, potrai avere in dono uno dei gioielli del mio harem, forse persino Alina, se per allora me ne sarò stancato. Potresti tenerla e fare di lei ciò che vuoi. Pensaci, stanotte, mentre con le dita cercherai di procurarti una minima parte del piacere che lei ti donerebbe sicuramente con le sue. Lo farai?»