Judith desiderava vedere il cielo. Ormai da troppo tempo era prigioniera in un mondo di acqua, fango, nebbia e canneti che incombevano su ogni lato, soffocando qualsiasi traccia di brezza in quell’umidità ed escludendo la luce del sole, benché la calura di quest’ultimo gravasse su di loro come piombo fuso.

Stavano viaggiando in dieci: Pereira, il secondo ufficiale della Pelican, e altri tre marinai portoghesi, armati di moschetto oltre che di sciabola; due membri dell’equipaggio africani che erano stati scelti come portatori ed erano gravati dal peso delle provviste; Judith e Ann; l’uomo mascherato e lo schiavo che se ne prendeva cura. Judith tentò di immaginare cosa significasse per lui essere intrappolato sotto quel carapace di pelle, perché i lucchetti che lo chiudevano e l’anello sul collo rendevano evidente che, nonostante il suo aspetto mostruoso e il fatto che comandasse la spedizione, non aveva scelto lui la restrizione a cui era sottoposto. E, a dispetto della forza del braccio nel brandire la spada e dell’inesorabile sgradevolezza dei modi, l’Avvoltoio dipendeva totalmente dal suo servo, per mangiare e per bere.

Una sera, mentre erano seduti davanti alla brutta copia di un fuoco da campo, il meglio che si potesse ottenere in quel mondo di umidità, lei gli aveva chiesto perché, essendosi ribellato a Jahan, non si era tolto la maschera impostagli dal principe. «Dev’essere insopportabile, con questo caldo e l’aria così pesante. Come riesci anche solo a respirare?»

«Oh, certo, potrei levarmela, ma a quel punto cosa succederebbe? Con questa addosso posso terrorizzare qualsiasi selvaggio da qui al capo di Buona Speranza. Senza sono solo uno storpio senza faccia.»

«Mi fai pena», replicò Judith, con una freddezza che rese ancora più eloquente l’affermazione.

Lui si piegò in avanti e, con ogni sua parola che grondava malvagità, ribatté: «Non compatirmi, ragazza. Conserva la tua pietà per te stessa».

 

 

Dalla Pelican erano arrivati fin lì a bordo della pinaccia, percorrendo una rete di affluenti che si addentravano in una frangia di vegetazione lussureggiante situata fra la terra e il mare. Nelle loro curve, svolte e intersezioni le vie d’acqua erano più intricate e complesse di qualsiasi labirinto che la mente umana potesse inventare, ma l’Avvoltoio e Pereira, un veterano che sfoggiava la dignità tipica degli ufficiali, tennero la rotta al meglio delle loro possibilità. Diedero volta striscioline di tela ai rami delle mangrovie lungo le rive del fiume per segnalare il proprio passaggio, così che, quando le rivedevano, come spesso accadeva, capivano di avere girato in tondo. A volte discutevano sulla direzione da imboccare, altre volte indicavano questo o quel passaggio, annuendo e dando ordini al timoniere.

Dove i torrenti rallentavano il loro corso e si ampliavano, diventando vasti specchi d’acqua, videro gli enormi e gonfi corpi degli ippopotami. Per ordine dell’Avvoltoio i marinai caricarono i moschetti con la polvere da sparo e accesero le micce, prima di deviare per evitare le orrende creature. Judith le conosceva bene, perché le aveva spesso incontrate sulle vie d’acqua dell’Etiopia meridionale, ma Ann non le aveva mai viste e non riusciva a capire perché l’uomo mascherato prendesse simili precauzioni e gli africani sembrassero così impauriti.

«Guardali», disse ridacchiando. «Se ne stanno lì con la testa che va su e giù, metà dentro e metà fuori dall’acqua. Non se ne vedono altro che gli occhi e il naso che spuntano dalla superficie del fiume. È così buffo il modo in cui contraggono le orecchie. E guarda! Uno di loro ha un uccello posato sulla testa!»

«Non rideresti se una di quelle creature dovesse mai aggredirti», replicò Judith. «Un maschio infuriato, o una femmina con un cucciolo, non ci penserebbe due volte prima di avventarsi contro questa barca. Sulla terraferma ben pochi uomini riescono a batterli in velocità, e con quelle enormi mascelle possono tranciarti in due con un unico morso.»

Proprio in quel momento uno degli ippopotami sbadigliò, rivelando gli enormi denti inferiori, ricurvi e appuntiti come l’ascia di un capotribù, e il sorriso scomparve dal volto di Ann.

Eppure il pericolo principale non era rappresentato dall’eventuale assalto di possenti animali, bensì dalle orde di insetti che tormentavano i viaggiatori, soprattutto di notte, pungendoli e pizzicandoli a tal punto che ogni lembo di pelle nuda si ricoprì ben presto di ponfi.

Almeno mangiavano bene. C’erano pesci, ostriche e granchi in abbondanza. I portatori cacciavano uccelli acquatici con arco e frecce, e raccoglievano il dolce miele delle mangrovie; da quelle alte e bianche che crescevano più vicine al mare Judith staccava le spesse e coriacee foglie verde oliva, frantumandole e aggiungendole al suo pasto serale per alleviare i crampi allo stomaco. Raccolse i frutti acerbi e ne spalmò la polpa sui ponfi causati dalle punture di insetti che le ricoprivano il corpo, soprattutto al di sotto del ginocchio, e ne usò i rametti appuntiti per pulirsi i denti.

Durante il secondo giorno sulla foce uno dei marinai aveva sparato a una grossa creatura dalla pelle grigiastra simile a una foca, con la coda di un delfino e un muso gentile, occhi tristi e dolci come quelli di un cane e la bocca dagli angoli rivolti all’insù in un perenne sorriso. «È un dugongo», aveva spiegato loro l’Avvoltoio, in un momento di insolita socievolezza. «Mangia le alghe. Probabilmente scoprirete che è davvero gustoso.»

Erano serviti cinque uomini per trascinare la creatura ferita, che aveva un’espressione di mansueto sconcerto, fin sulla pinaccia, dove l’avevano finita a bastonate. L’avevano macellata salandone la carne che, come promesso dall’Avvoltoio, li mantenne piacevolmente sazi per diversi giorni, con i marinai che, durante ogni pasto, discutevano per stabilire se avesse un sapore più simile al manzo o al maiale.

Quando venne divorata l’ultima porzione di carne di dugongo, tuttavia, avevano lasciato la barca ormai da tempo, perché l’acqua non era più abbastanza profonda da risultare navigabile ed erano quindi costretti a proseguire a piedi, attraversando le distese fangose lasciate dalla marea e quasi sempre a guado, immersi fino alle ginocchia in una melma salmastra. Dalle piccole e robuste mangrovie nere nelle pianure fangose dell’interno tagliarono dei rami che bruciavano per affumicare e conservare il pescato.

Frotte di scimmie dalla gola bianca strillavano al loro passaggio, e serpenti e altri rettili si allontanavano, buttandosi con un tonfo nell’acqua circostante. I pipistrelli sfioravano la loro testa, la notte, e durante il giorno si udivano spesso il frullio di ali e i richiami di aironi, anatre e oche disturbati dalla loro presenza. Di tanto in tanto un martin pescatore delle mangrovie sfrecciava loro accanto, una striscia di colore acceso.

Andarono avanti così per giorni, sempre senza sapere dove fossero diretti né quali fossero le intenzioni dell’Avvoltoio. Judith sapeva solo che ogni passo strascicato e faticoso la portava ancora più lontano da Hal. Ma almeno aveva guadagnato qualcosa dalla mesta e faticosa camminata attraverso le pianure fangose. Uno dei marinai portoghesi aveva tagliato da un albero un ramo diritto per usarlo come fiocina; con la sciabola ne aveva resa aguzza l’estremità, ma un colpo dalla mira poco accurata era penetrato troppo a fondo, spezzandone la punta. Mentre lui si allontanava per trovare un altro ramo, imprecando, Judith aveva recuperato velocemente il bastone dal fango e se lo era nascosto nella gonna.

Non era chissà quale arma, non l’avrebbe certo difesa dalla spada dell’Avvoltoio o dai moschetti dei marinai. Ma era suo, e le donò un fievole barlume di speranza.

 

 

La Madre de Deus gettò l’ancora nella baia antistante Quelimane e tutti gli schiavi vennero condotti sul ponte dove, impauriti e incerti, aspettarono il loro turno per essere portati a riva a forza di remi. Andavano in dodici per volta, non con le barche del mercantile bensì con lance giunte fin lì dalla costa.

Hal si voltò a guardare il veliero alla fonda, sereno nell’acqua scintillante della baia. Se mai rivedrò quella nave la spedirò in fondo al mare, si ripromise, imprimendosela nella memoria. E per quanto Barros possa supplicarmi di graziarlo, lo appenderò alla varea di un pennone e lascerò che i gabbiani ne spolpino le ossa.

Quando raggiunsero la costa, a lui e agli altri membri del gruppo venne ordinato di restare in fila mentre li disponevano a formare un convoglio, una colonna di schiavi incatenati, collegati gli uni agli altri da altre catene che andavano dal collo di un uomo alle mani del poveretto dietro di lui. Due schiavi al centro della fila erano invece uniti da una pesante trave lunga circa due passi, alle cui estremità erano fissati dei gioghi, anch’essi di legno, che poggiavano sulle loro spalle, dietro il primo e davanti al secondo. In tal modo si manteneva una rigida distanza fra gli sventurati scelti come bestie da soma che, di conseguenza, erano costretti a marciare allo stesso passo, obbligo esteso ai compagni che li precedevano o li seguivano.

Barros era sceso a terra con la prima imbarcazione e assistette alla preparazione del convoglio, conversando con un uomo dall’ampio cappello di paglia che a Hal ricordò il console Grey, perché era grasso e tarchiato e, per quanto in sella a un mulo, stava grondando sudore.

«Come potete vedere, senhor Capelo», gli disse Barros, «al mercato di Zanzibar abbiamo comprato solo la merce migliore. Questi sono tutti esemplari pregiati e sono sicuro che il senhor Lobo rimarrà soddisfatto della loro forza e resistenza.»

«Uno di loro è bianco», commentò Capelo, guardando Hal con disapprovazione. «I bianchi non durano mai a lungo.»

«Non avete motivo di preoccuparvi», gli assicurò Barros. «Guardate con i vostri occhi. È un magnifico esemplare, longilineo e forte come un bue.»

Capelo emise un grugnito scettico ma accolse comunque l’invito di Barros. Scese dal mulo, raggiunse Hal e lo esaminò, tastandogli i muscoli delle cosce e dei bicipiti, osservandogli attentamente il bianco degli occhi e la lingua e dandogli colpetti al ventre. «Benissimo, voglio credervi sulla parola», dichiarò. «Ma se non si rivela soddisfacente esigerò un negro in più che lo sostituisca, e senza pagarlo.»

«Certo, certo», ribatté Barros. «Avete il denaro per questi uomini, però, vero?»

«Naturalmente.» Capelo tornò accanto al mulo, aprì la bisaccia fissata alla sella e ne estrasse un sacchetto di tela pieno di monete. «È tutta qui, la somma pattuita. Potete contarli, se volete.»

«Non ce n’è bisogno», replicò Barros con un sorriso accattivante. «So che né voi né il senhor Lobo mi ingannereste mai. Quindi ora vi saluto e vi auguro un tranquillo viaggio di ritorno alla miniera.»

Il comandante si allontanò. Capelo tornò sul proprio mulo, latrò alcuni ordini alle guardie e imboccò la strada in discesa. Dopo un istante, Hal sentì sulle spalle la familiare puntura di una frusta, a informarlo che anche lui doveva muoversi, e il convoglio diede inizio al lungo viaggio verso il cuore dell’Africa.

Ai dodici uomini incatenati ci volle un po’ per capire in che modo dovevano mantenere un passo di marcia regolare, come guardie in parata. Alcuni incespicarono e caddero, trascinandone a terra altri, e più di una volta Hal si sentì tirare in basso senza riuscire ad attutire la caduta, con le mani immobilizzate dalla catena. I loro guardiani erano africani, ma non mostrarono la minima misericordia o solidarietà verso i fratelli in schiavitù, e colpivano con bastoni e lunghe fruste chiunque non si muovesse abbastanza in fretta per i loro gusti.

Uscirono dal porto, attraversarono un boschetto ed entrarono infine nell’alveare ronzante che era la Quelimane portoghese. Una cattedrale costruita da poco svettava sopra gruppi di capanne di tronchi e casupole di fango imbiancate. Al centro del villaggio spiccavano le rovine di un antico forte di mattoni di fango, con accanto le fondamenta del nuovo, in costruzione.

Gli schiavi faticavano e sudavano nella calura. Una squadra trascinò una colubrina di ottone su per una rampa fin dentro il nuovo fortino, con le ruote dell’affusto che cigolavano lamentosamente e ogni passo degli uomini incoraggiato dallo schiocco della frusta di chi li guidava. Buoi maltrattati allo stesso modo trainavano pesanti carichi di legna tagliata. Alcuni uomini sbraitavano, imprecavano e discutevano oppure scoppiavano in improvvise risate sguaiate.

Poco più in là si ergeva un patibolo costruito con cura, il legno ancora nuovo e pulito. Per contrasto, il cadavere appeso alla corda, che roteava lentamente su se stesso, puzzava di marcio. Sembrava indossare una giacca nera, che si rivelò uno strato di mosche.

Alcuni uomini sedevano sul ciglio della strada fumando la pipa e riparando reti da pesca, mentre le mogli camminavano a guado nel lento fiume nero per lavare il bucato. I loro figli giocavano poco distante, combattendo con spade di legno, dando calci a una palla oppure lanciando sassi contro un cane che abbaiava legato a un paletto. Un fabbro era impegnato a forgiare una nuova ancora, i suoni del martello sull’incudine simili ai rintocchi della campana di una chiesetta di campagna. Una donna anziana vendeva canestri di pesce presumibilmente fresco e una graziosa ragazza di colore, a petto nudo, sosteneva che i suoi manghi fossero i più dolci dell’Africa.

Nessuno degli abitanti di Quelimane mostrò il benché minimo interesse per la patetica colonna di schiavi che sfilò loro accanto, scortata dai guardiani. Rappresentava uno spettacolo così consueto da risultare oltremodo banale. Vedendosi rammentare com’era caduto in basso, Hal continuò ad anteporre un piede all’altro, adattando il passo a quello dell’uomo di fronte a sé, mentre lasciavano la periferia della cittadina e si addentravano nella savana.

Il leone d'oro
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