Mentre i primi raggi del sole gettavano un tenue bagliore arancione sul porto di Mitsiwa, il fiore all’occhiello della flotta etiopica era all’ancora e batteva con gioia la Union Flag delle isole britanniche. La Golden Bough era stata costruita per ordine di George, visconte di Winterton, all’esorbitante costo di quasi duemila sterline. Winterton possedeva già una ragguardevole flotta privata di mercantili e navi corsare. Con la Bough aveva voluto fornire all’amato figlio Vincent un pregevole veliero su cui seguire la tradizione marinara della famiglia e nel contempo offrire a se stesso un modo per incrementare ulteriormente quello che già era uno dei più ingenti patrimoni d’Inghilterra.
L’onorevole «Vinny» Winterton era sepolto sulla costa della laguna dell’Elefante, accanto all’oceano Indiano, poco più a nord del capo di Buona Speranza, ucciso in un duello che in realtà era stato quasi un omicidio. Eppure il denaro del padre si era rivelato ben speso, anche se la recente promozione della Golden Bough a nave ammiraglia e unico veliero da guerra di una flotta africana non rientrava nei piani del visconte più della dipartita del figlio. Era snella e gradevole a vedersi come un purosangue da corsa, e fendeva le acque con velocità e grazia davvero rare. Al gran lasco, con le vele spiegate e una bella brezza, poteva sfuggire a qualsiasi nave da guerra che le fosse superiore e catturare tutte quelle che non erano tali. E, come un cavallo con un fantino vincente, premiava un comandante dotato di notevole maestria e sangue freddo, perché la si poteva far procedere decisa nella direzione del vento laddove altre navi si sarebbero trovate in difficoltà, se non costrette a cambiare rotta.
Durante i mesi trascorsi a comandare la Bough in pace e in guerra, in canali senza vento e gorghi sferzati dalla burrasca, Hal Courteney aveva imparato a conoscerla, dalla carena e dalla zavorra al bompresso e al timone. Sapeva esattamente come spremerle fino all’ultimo nodo di velocità e come armarla al meglio per i pericoli che era destinata a incontrare. Sapeva che ogni comandante doveva bilanciare la potenza di fuoco garantita da cannoni supplementari con il peso da essi aggiunto al dislocamento della nave. Alcuni sceglievano un minor numero di cannoni per avere una nave più rapida e più agile, mentre altri preferivano affidarsi alla potenza di fuoco. Con la Golden Bough lui poteva vantare sia velocità sia armamenti. La selezione di bocche da fuoco originaria era stata abbinata ai pezzi migliori conquistati in innumerevoli combattimenti. Adesso Hal poteva contare su un assortimento letale di cannoni e piccole armi, che andava da potenti colubrine, la cui canna da dodici piedi sparava palle di cannone che pesavano quasi venti libbre l’una e potevano spezzare in due un albero, a molto più piccoli (ma altrettanto letali) falconetti e «assassini», che si potevano caricare con pallottole e schegge di metallo e puntare da distanza ravvicinata sui nemici che tentassero di salire a bordo. In breve, i denti della Bough erano tanto affilati quanto rapide le sue membra. Ecco perché il comandante la adorava a tal punto.
Com’è ovvio, desiderava che uno dei grandi amori della sua vita apparisse nella sua forma migliore quando incontrava l’altro. Quattro mesi prima, il tranquillo viaggio che Judith Nazet e Hal stavano compiendo a bordo della Golden Bough lungo la costa orientale dell’Africa alla volta dell’Inghilterra, passando per la baia in cui era nascosta la fortuna di famiglia di lui, era stato interrotto da un sambuco che recava un appello disperato dell’imperatore. Durante i pochi giorni trascorsi a bordo, i membri dell’equipaggio erano arrivati ad ammirarla quasi quanto Hal. Erano sbalorditi dai suoi trionfi sul campo di battaglia e innamorati della splendida e sensuale donna in cui si trasformava quando deponeva spada e armatura. Perciò quando il comandante aveva dato ordine di approntare la nave per il ritorno di Judith, aggiungendo che la voleva persino più bella del giorno in cui era stata varata, i suoi uomini si erano messi al lavoro di buona lena.
Per un’intera settimana erano rimasti appesi a cime lungo le fiancate, strofinando e calafatando lo scafo e piantando nuovi chiodi nelle tavole affinché non restasse nemmeno un segno dei mesi di servizio in mare – di tutte le fiancate sparate, dei nemici all’arrembaggio respinti, dei quarti bruciati e del sangue versato – prestati dalla Golden Bough e dal suo equipaggio. Ogni pezzo di legno accessibile divenne oggetto di attenzione, riparazione, sostituzione, strofinamento, calafataggio, ingrassatura o pitturazione. Le teste d’albero furono lucidate di nero, le vele di strallo a prua e a poppa, così come la vela maestra, disinferite per le riparazioni. Gli uomini dell’equipaggio impeciarono le cime, lucidarono le colubrine e montarono altre tende sul ponte per fornire ombra all’illustre ospite. Grattarono via ogni traccia di ruggine o di sangue da sciabole d’arrembaggio, lance e asce e lustrarono i moschetti e i cannoncini, che risplendevano abbaglianti nel cocente sole tropicale.
Il sangue di uno sventurato guerriero arabo, colpito alla coscia a distanza ravvicinata da una palla di moschetto che gli aveva tranciato un’arteria, provocando un violento zampillo cremisi sulle tavole di quercia del ponte, aveva impregnato il legno, lasciando una brutta chiazza sul cassero, poco più a poppa dell’albero di maestra. Hal ordinò ai suoi marinai di lavare il ponte e strofinarlo fino a bagnarlo con il sudore, ma nonostante la fatica le tavole rimasero segnate. Il porto di Mitsiwa si ergeva vicino a una spiaggia sabbiosa, e lui mandò un drappello a terra per riempire alcuni buglioli di ruvida sabbia: con quella avrebbero sfregato il tavolato per raschiarne via lo strato superficiale, e con esso la macchia.
Era rimasto a controllare gli uomini che lavoravano fino a notte fonda, e si era persino messo carponi per strofinare accanto a loro quando avevano cominciato a stancarsi. A suo modo di vedere, nessuno doveva mai ordinare a un altro di fare qualcosa che lui stesso non era disposto a fare. Alla fine era stato costretto ad ammettere che il ponte, che brillava di un bianco argenteo nella luce della luna, non avrebbe potuto apparire più pulito; i segni rimasti sarebbero stati camuffati dall’ombra proiettata dalla tenda che avrebbe coperto quel punto il giorno e la notte seguenti.
Aveva deciso che il ritorno della sua amata venisse celebrato con un banchetto degno di un’occasione tanto lieta. Gli uomini della Golden Bough avevano navigato, combattuto strenuamente e visto decine di compagni morire in battaglia prima di essere avvolti nel sudario e affidati al mare. Si meritavano di mangiare, bere e rilassarsi, e lui si sarebbe assicurato che lo facessero con un certo stile. Sarebbe stato un giorno felice, oltre che un punto di svolta. Hal sapeva che lui e Judith, che si sposassero o meno – ed era deciso a prenderla in sposa in una chiesa inglese, con un vicario protestante – stavano affidando la propria vita l’una all’altro. Aveva già amato, prima di lei, e conosciuto sia l’amarezza dell’inganno che il dolore di una grande perdita, ma nel suo sentimento per Judith c’era un senso di solidità e di durata nuovo. Era la sua donna. Sarebbe stata la madre dei suoi figli. Era un cambiamento importante per un uomo così giovane, a prescindere da quanto si sentisse sicuro.
L’alba lo trovò appoggiato al parapetto di poppa, da dove poteva osservare ogni albero, ogni pennone e ogni lembo di vela della nave sotto il suo comando. Adesso, tuttavia, le vele erano tutte serrate e la nave ferma. In lontananza riusciva a distinguere l’attività sulla costa mentre alcuni mercanti locali si preparavano a riempire le pinacce con capre, montoni e polli; ceste di verdura e frutta; enormi pentole di terracotta contenenti diverse varietà di wat, il piatto nazionale etiopico, un denso e speziato stufato di carne o di verdura, e le cataste di pagnotte di injera, il pane preparato con lievito naturale con cui il wat veniva tradizionalmente servito; sacchi di chicchi verdi di caffè (da tostare, macinare, lasciare in infusione e poi servire con zucchero o sale), barili di forte vino rosso proveniente dai vigneti del Libano e bottiglioni di tej, l’idromele, tanto potente quanto dolce; infine, enormi ghirlande di fiori con cui addobbare la nave in modo che fosse doverosamente bella e profumata per la sposa.
Per alcuni minuti Hal osservò quel lontano trambusto. Pur avendo solo vent’anni, aveva acquisito la forza e l’aria di totale autorevolezza di un uomo più maturo, conquistata grazie alla maestria nella navigazione e al coraggio in battaglia che rendevano uomini con il doppio della sua età felici di obbedirgli senza discutere. Ancora non si scorgeva la minima traccia di grigio nei folti capelli neri che legava con un laccio alla nuca, e gli occhi verdi che tanto sbalordivano l’imperatore Iyasu erano limpidi e penetranti come non mai. Eppure la bellezza quasi femminea che Hal vantava solo pochi anni prima era scomparsa. Proprio come la sua schiena recava ancora le cicatrici delle frustate subite in veste di prigioniero – poco più che uno schiavo – degli olandesi, così le prove della vita gli avevano affilato i lineamenti del viso, ormai duro e segnato dalle intemperie. La mascella aveva una linea più decisa, la piega della bocca era più severa e lo sguardo più penetrante.
Abbassò gli occhi sull’acqua che lambiva lo scafo della Bough e disse: «Vorrei che i miei genitori potessero essere qui per conoscere Judith, anche se non ricordo nemmeno mia madre, tanto ero piccolo quando è morta. Mio padre, invece...» Sospirò. «Spero che penserebbe che sto facendo la cosa giusta... Spero che non rimarrebbe deluso.»
«Certo che no! È sempre stato molto fiero di te, Gundwane. Pensa alle sue ultime parole. Ripetile», disse Aboli.
Hal non riusciva a parlare. Con gli occhi della mente rivedeva il corpo smembrato del padre che penzolava sulla forca, nella colonia del capo di Buona Speranza, esposto al pubblico ludibrio e allo scempio dei gabbiani. Dopo aver falsamente accusato Sir Francis Courteney di pirateria, gli olandesi lo avevano torturato fin quasi a morte, sperando di scoprire dove aveva nascosto il suo tesoro. Eppure lui non aveva ceduto. I suoi nemici non sapevano niente di più, quando lo avevano impiccato sotto gli occhi di Hal, impotente e con il cuore spezzato in cima alla muraglia dove scontava la condanna ai lavori forzati.
«Dille, fallo per lui.» La voce suonava dolce ma insistente.
Hal trasse un respiro profondo, prima di parlare. «Ha detto che ero la sua carne e il suo sangue e la sua promessa di vita eterna. E poi... Poi ha aggiunto: ’Addio, vita mia’.»
«Quindi eccola, la tua risposta. Tuo padre ti vede, adesso. Io, che l’ho portato nel luogo in cui riposa, posso assicurarti che i suoi occhi guardano verso il cielo e lui ti vede sempre, ovunque tu sia.»
«Grazie, Aboli», replicò Hal.
Osservò l’uomo che era stato il più intimo amico del padre e che adesso era quanto di più simile a una figura paterna, per lui. Aboli era un membro della tribù degli amadoda, che viveva nel folto della foresta, a diversi giorni di viaggio dalla costa dell’Africa orientale. Secondo la tradizione, ogni capello gli era stato strappato dal lucido cuoio capelluto color ebano, e il suo viso era segnato da cicatrici increspate, provocate da tagli inflitti quando era un ragazzo, miranti a suscitare soggezione e terrore nei nemici. Erano un simbolo di regalità: lui e il fratello gemello erano figli del monomatapa, il prescelto dei cieli, l’onnipotente capo della loro tribù. Quando erano ancora molto piccoli, i mercanti di schiavi avevano assaltato il loro villaggio. Il fratello di Aboli era stato condotto in un posto sicuro, ma lui non era stato altrettanto fortunato. Erano trascorsi molti anni prima che Sir Francis Courteney lo liberasse, gettando le basi di un legame che era durato fin oltre la morte, passando da una generazione all’altra.
Il soprannome con il quale lui si rivolgeva a Hal, Gundwane, significava «ratto del bush». Glielo aveva assegnato quando Hal aveva solo quattro anni e ancora lo usava. Nessun altro uomo a bordo della Golden Bough avrebbe osato trattare con tanta familiarità il comandante, ma, in fondo, tutto in Aboli rappresentava un’eccezione. In statura superava di mezza testa persino Hal, e il suo corpo snello e muscoloso si muoveva con la grazia minacciosa e sinuosa di un cobra intenzionato a uccidere. Tutto ciò che Hal sapeva sul combattimento con la spada – non soltanto la tecnica o il lavoro di piedi, ma anche la capacità di intuire le mosse di un avversario e lo spirito combattivo necessario per sconfiggerlo – lo aveva appreso da lui. Era stata un’educazione severa, con parecchi lividi e non poco sangue versato lungo la strada. Ma se Aboli era stato inflessibile con il suo giovane allievo, lo aveva fatto solo perché Sir Francis lo esigeva.
Ripensando a quei giorni, Hal emise una risatina beffarda: «Sai, posso anche essere il comandante di questa nave, ma ogni volta che mi ritrovo qui sul cassero mi sembra di essere di nuovo sulla Lady Edwina, a prendermi una strigliata da mio padre per ogni minimo errore. C’era sempre qualcosa che non andava. Ricordi quanto mi ci è voluto per imparare a usare l’ottante e il sole per calcolare la posizione della nave? Le prime volte in cui ho tentato, quello strumento era più grande di me. Rimanevo fermo sul ponte, a mezzogiorno, senza nemmeno un briciolo di ombra, a sudare come un lattonzolo, e ogni volta che la nave rollava o beccheggiava quel maledetto coso rischiava di farmi cadere!»
Aboli scoppiò in una risata profonda, simile al rombo di un tuono lontano.
Hal proseguì. «E mi costringeva a rivolgermi a lui in latino, perché era la lingua dei gentiluomini! Non sai quanto sei fortunato a non aver mai dovuto imparare i gerundi e gli ablativi assoluti. O mi dava scappellotti sulle orecchie perché non riuscivo a rammentare il nome di ogni vela. Persino quando gli davo la risposta giusta mi elencava un centinaio di cose che stavo facendo nel modo sbagliato. E succedeva sempre qui sul cassero, dove ogni membro dell’equipaggio poteva vedermi.» All’improvviso la sua espressione si fece seria. «Sai, ci sono stati momenti in cui l’ho davvero odiato.»
«Sì, e il fatto che si comportasse in quel modo, sapendo che tu non avresti capito e lo avresti odiato, era la prova del suo amore», replicò l’africano. «Tuo padre ti ha preparato bene. È stato duro con te, ma solo perché sapeva che saresti stato messo ripetutamente alla prova in futuro.» Sorrise. «Forse, se il tuo dio lo vuole, presto avrai un piccolo Courteney tutto tuo con cui essere severo.»
Hal sorrise. Gli era già abbastanza difficile immaginarsi nelle vesti di marito, figuriamoci in quelle di padre. «Non sono sicuro di essere pronto ad avere un figlio, per ora. A volte mi chiedo addirittura se sono pronto a comandare una nave.»
«Ah!» esclamò Aboli, posandogli una delle sue mani enormi sulla spalla. «Hai ucciso i tuoi acerrimi nemici. Hai salvato il Tabernacolo e il Sacro Graal. Hai conquistato il cuore di una donna che ha sconfitto eserciti potenti.» Piegò lentamente la testa. «Sì, credo che tu sia pronto per cullare fra le braccia un bimbo, sino a farlo addormentare.»
Hal rise. «Be’, allora è meglio che mi prepari ad accogliere sua madre.»
Il comandante era a capo di una nave con un equipaggio di morti viventi. Avendo speso quasi tutti i soldi per il carico stipato nella ventina scarsa di casse che occupava una minima parte della stiva, aveva comprato le provviste più economiche possibili e si era quindi visto rifilare gallette che si erano riempite di muffe e funghi prima ancora di lasciare il porto, verdure marce e carni essiccate talmente dure da essere più adatte come suole da scarpa che come cibo. Il comandante e i suoi uomini erano dei fuggitivi. Non potevano gettare l’ancora in nessun porto civilizzato per comprare, barattare con il proprio lavoro o mendicare provviste senza rischiare l’immediata incarcerazione, sempre che non venissero fatti saltare in aria ben prima di avvistare la terraferma da una delle navi che li stavano inseguendo. In breve, il comandante non aveva bisogno di ulteriori problemi. Eppure stava per cadergli addosso l’ennesimo guaio.
Capì che una situazione già difficile stava per peggiorare nell’istante esatto in cui sentì la voce dalla coffa gridare: «Comandante! C’è qualcosa che galleggia nel mare, di prora a dritta! Sembra un pezzo di legno, oppure una barca capovolta».
Il comandante scosse il capo e borbottò fra sé: «Perché devo esserne informato?»
La sua domanda ebbe risposta un attimo dopo, quando la vedetta urlò: «C’è qualcosa che si muove! È un uomo! Ci ha visto... Adesso sta sventolando un braccio!»
Il comandante era consapevole delle cinquanta paia di occhi almeno che lo guardavano, sollecitandolo in silenzio a dare l’ordine di proseguire e a lasciare quel tizio al suo destino. L’ultima cosa al mondo di cui la nave avesse bisogno era un’altra bocca da sfamare. Eppure... Lui non poteva certo dichiararsi un uomo d’onore, ma non era malvagio. Un furfante, magari, ma non un criminale. Così diede ordine perché la nave mettesse in panna, poi fece ammainare una barca per recuperare l’uomo comparso dal nulla, a centinaia di miglia dalla costa più vicina. «Tranquilli, ragazzi!» gridò. «Se il bastardo non ci piace, possiamo sempre mangiarcelo!»
Poco tempo dopo, una sagoma malconcia, ustionata dal sole e di altezza superiore alla media, magra quasi come i marinai che la circondavano, venne issata lungo la fiancata e depositata sul ponte. Il comandante era sceso dal cassero per accogliere l’uomo. Nella sua lingua madre disse: «Buongiorno, signore. A chi ho il piacere di rivolgermi?»
L’uomo fece un lieve cenno d’assenso e, nello stesso idioma, replicò: «Buongiorno a voi, comandante. Mi chiamo William Pett».