5. La derivazione feudale dei Comuni
Benché possa apparire eccessivo, si può affermare che gli organi feudali sono la base e quasi una sorta di certezza su cui si fonderanno i Comuni. Anche qui, per attuare quanto siamo andati raccomandando, cercheremo di non generalizzare e staremo attenti a mettere in chiaro la differenza generatasi fra le varie situazioni locali, onde non dar luogo a troppo rigide categorie create nell’intento di predisporre una normativa generale troppo schematica che non trova obiettivo riscontro.
Senza pertanto voler creare un tipo di evoluzione troppo uniformemente applicabile al momento del passaggio tra la società feudale e quella comunale e nella consapevolezza che non di rado il suddetto passaggio ebbe a verificarsi mediante la creazione di nuovi organismi civili e l’accantonamento di vecchie strutture feudali, ci sentiamo di sostenere, anche sulla base di recenti studi, che in particolare nella penisola italiana si pervenne al Comune tramite un graduale processo di trasformazione interna degli organismi amministrativi feudali, in taluni casi mantenuti, almeno esteriormente, senza che si generassero «salti» e brusche rotture.
Tale processo di trasformazione tuttavia, anche a voler essere prudenti e a non voler caricare singoli eventi di troppo pronunciati significati, non ebbe luogo senza che si verificassero alcune scosse, né tutto si svolse sempre regolarmente e pacificamente.
In questo tipo di profonde trasformazioni, infatti, si assiste pure talvolta a scontri di qualche durezza e violenza, scontri che danno l’impressione che il contrasto derivi dalla lotta politica per l’acquisizione del potere da parte di forze di origine sociale sensibilmente diversa, postesi in movimento per raggiungere posizioni e privilegi in precedenza appannaggio di ceti feudali, una volta per sempre sconfitti e accantonati.
Il più delle volte i sommovimenti si verificarono per ottenere i diritti di regalia, esenzioni di tasse, privilegi legati all’assunzione di dazi, al mantenimento di tasse per il passaggio dei ponti, il ripatico e simili. Essi, pertanto, non sorsero per modificare radicalmente una situazione, ma per generare un ridimensionamento della medesima o meglio per sostituire i ceti privilegiati con altri, fino a quel momento rimasti al di fuori del «comando» e ora non più disposti a delegare i loro diritti ad altre categorie. In altri termini non si chiese di togliere la «tassa» sul passaggio di un ponte, ma si chiese che i proventi della medesima fossero trasferiti in altre mani e presiedessero a interessi legati a nuovi ceti emergenti e fino a quel momento tenuti artatamente fuori della cosiddetta «stanza dei bottoni».
Tutto ciò – è vero e va rilevato – portò all’ampliamento delle fasce rivolte alla conduzione del potere, ma accadde che presto si generassero nuovi ceti privilegiati e nuove concessioni di natura non dissimile da quella feudale, in precedenza «spostati» ma non annullati. La situazione venutasi a creare fu dunque diversa ma non del tutto difforme dalla precedente e le masse rimasero come prima e forse più di prima estranee al processo di ridimensionamento che dette luogo a nuovi classi favorite e non diminuì le precedenti tensioni sociali.
Si tratta insomma di comprendere che al momento del passaggio dall’età feudale al Comune, pur se si generano e si attuano ridimensionamenti sociali di una qualche consistenza, non si giungerà mai a una vera e propria rivoluzione e ciò soprattutto è vero per le zone in cui gli organi amministrativi feudali erano più efficienti e organizzati e quindi più profondamente e tradizionalmente coinvolti nella vita cittadina. In questi casi pertanto essi paiono legati da energie vitali, per cui appare impossibile una loro rimozione totale.
Un esempio emblematico e quasi scontato è costituito da Milano verso la fine del X e l’inizio dell’XI secolo, a proposito della quale diremo, riferendoci anche a situazioni di altri centri, che le cosiddette origini aristocratiche del Comune si spiegano per il fatto che la città assume sempre più un peso economico e politico-sociale elevato e perciò finirà con il diventare presto un punto di riferimento di una società generalmente non depressa.
Anche a Milano i precedenti dell’amministrazione comunale andranno ricercati nel periodo vescovile, per esempio nel cosiddetto «consilium episcopi», ovvero in un manipolo di funzionari ecclesiastici e laici di cui il porporato si avvale per amministrare i beni della Chiesa e dal quale nasceranno successivamente i «capitanei» e gli «homines novi» che in vario modo svolgeranno compiti di magistrati cittadini, che ricoprono posti di carattere amministrativo e giudiziario.
Naturalmente accanto a questi maturano e si sviluppano i «cives», ossia quel ceto borghese che in pochi decenni acquista diritti politici e finirà col determinare orientamenti e scelte cittadine.
Orbene va sottolineato che nella città ambrosiana, al tempo dell’imperatore Ottone II, durante il vescovato di Landolfo, acquisiscono già una rimarchevole influenza e un certo potere i «capitanei», ovvero i «vassalli» investiti di feudi e di castra comitali e vescovili. Mediante un graduale processo di subinfeudazione originato dai «capitanei» si faranno poi avanti i «valvassori» che intendono rivendicare gli stessi privilegi e la medesima partecipazione al potere cittadino detenuto nelle mani dei «capitanei».
Il contrasto, covato per un certo tempo, esploderà con violenza nel 1037 e i valvassori riusciranno a veder accontentate le loro richieste. E tuttavia, nel corso delle varie tensioni, il grande sviluppo dei commerci e delle arti ha fatto progredire e conoscere «uomini nuovi», mentre taluni fra loro hanno già finito per ottenere pubblici incarichi magistrali di «judex» o di «missi» – ambasciatori – e come tali sono divenuti collaboratori del vescovo e sono penetrati nel suo entourage amministrativo. Questo organismo pertanto, verso la metà del secolo XI, si mostra in tutta la sua complessità in merito all’estrazione sociale ed economica dei suoi membri. Esso forma però una sorta di ceto dirigente che ha le migliori intenzioni unite alla capacità di formare un gruppo dirigente con indiscusse caratteristiche di autorevolezza che vuole amministrare il potere cittadino in modo autonomo.
Ciò non vuol dire che si costituisca già da allora un nucleo del tutto omogeneo con volontà e orientamenti sempre precisi; anzi la campagna dei valvassori esercitata contro il vescovo e i capitanei nel biennio 1037-1038 e la successiva rivolta dei «cives» del 1042-1044 provano il contrario.
E però a osservare spassionatamente l’insieme delle vicende, si può ritenere di trovarsi già davanti a contrasti di tipo diverso. A prima vista infatti sembra di scorgere schierati l’un contro l’altro armati i valvassori contro i capitanei, ma poi allorché i primi, in seguito alla condivisione del potere hanno fatto lega con i secondi, il ceto dei burgenses ossia dei cives si colloca in forte e netto contrasto con capitanei e valvassori.
Pare comunque alquanto inconsueto che nel volgere di un quinquennio, fra il 1037 e il 1042 si preparino condizioni tali che determineranno un rivolgimento profondo che porterà a rinnegare le intese precedenti con il vescovo cittadino e i vassalli. Comunque le conclusioni del contrasto paiono avvalorare l’interpretazione sociale e non casuale degli eventi: nell’anno 1037 – come è largamente noto – i valvassori ottengono la «constitutio de feudis» ovvero l’attesa e lungamente richiesta ereditarietà dei feudi minori che allinea fra loro i grandi e i piccoli feudatari, secolarmente divisi e rivali dalla fine dell’Impero carolingio. Con l’anno 1045 poi, si raggiunse un «patto» di concordia giurato fra le parti, secondo l’usanza in vigore in quell’epoca e, in base alla «concordia» del 1045, ai «cives» vengono accordati taluni diritti e viene assicurata qualche partecipazione al potere.
Per concludere allora, non assistiamo fra il 1037 e il 1042 a quello che oggi con espressione colorita si chiamerebbe un «ribaltone», ma notiamo il formarsi di un piuttosto rapido ricambio sociale di un ceto che in verità non intende, almeno in prima battuta, cambiare radicalmente la vecchia gestione, ma chiede di parteciparvi direttamente, o meglio reclama una fetta del potere già costituito di cui intende condividere gli aspetti positivi.
Si tratta quindi, come prima accennavamo, di un adeguamento del preesistente organismo feudale-vescovile esistente e da tempo funzionante, attraverso una più vasta partecipazione che stempera e attutisce le caratteristiche accentrate di un meccanismo che tuttavia non nega e non stravolge.
Certo parrebbe difficile sostenere che il patto giurato milanese del 1045 rappresenti in qualche misura l’atto di nascita del Comune di Milano. Bisognerà infatti percorrere ancora un buon tratto di strada per poter dire che assistiamo alla costituzione di un ente, al quale i cittadini rappresentino i propri diritti.
Il «consulatus civium» sarà infatti un ben diverso organo di carattere comunale, non più espressione di tutti i Milanesi, ma dei gruppi economicamente e socialmente già affermati e potenti nella metropoli di Ambrogio, ossia di quanti detengono davvero i diritti politici e perciò sono a tutti gli effetti cives.
Tuttavia, il patto siglato nel 1045 deve pur significare qualcosa e se non ci fa dire di trovarci già nell’età comunale, prova che Milano è però in marcia verso il rinnovamento che condurrà al Comune.
L’esempio milanese dunque mostra come le città costituiscano generalmente un esempio originale cui possono applicarsi in modo prudente schemi interpretativi che difficilmente si attagliano a situazioni economiche, sociali e politiche sensibilmente divergenti fra loro.
Passando a questo punto dalle città come Milano alle comunità più schiettamente rurali, possiamo anche esemplificare in merito due tipi di provenienza sociale di queste comunità. Rinveniamo lì spesso il gruppo cosiddetto nobiliare di origine longobarda o franca che trae il suo elemento di forza dal possesso di una città fortificata, di un «castrum», di terre, di corsi d’acqua, peschiere, ponti, torri, porti fluviali o lacustri collocati nei pressi del «castrum» medesimo. Poi v’è il gruppo dei coloni liberi o semiliberi che si sono sistemati all’interno di un villaggio in qualche modo fortificato con rudimentali mura e fossati, a volte privo di ogni protezione, denominato pertanto villa aperta, attorno a cui vengono raccolti feudi e poderi.
L’integrazione di questi gruppi di coloni negli ingranaggi del sistema feudale è anche più palese di quel che non si riveli in merito alle vere e proprie città.
Essi infatti divengono autonomi passando attraverso una consuetudine corrente nell’età del feudo, costituente parte integrante di tale mentalità: ossia mediante la richiesta di «regalie» che sono in pratica forme di infeudazione o subinfeudazione, in quanto i postulanti chiedono di esercitare prerogative piuttosto precise circa territori ove essi risiedono e dove possiedono i loro beni patrimoniali; e questi territori, mediante tale sistema, si trasformano per loro in benefici feudali inseriti in nuclei già integrati in più ampie strutture feudali laiche o ecclesiastiche, a volte, per esempio, di pievi, a volte invece di curtes, di castra, di villae o simili.
Il passaggio al Comune in queste collettività di segno rurale come in quelle che mostrano un’articolazione economica più complessa e qualificata, avviene pertanto in seguito alla realizzazione di un sistema rappresentativo, o meglio demandando a gruppi piuttosto ristretti, dei quali la comunità delimita i poteri, il compito ambito di amministrare direttamente prerogative economiche, beni e diritti che, in seguito a meccanismi feudali, pur continuando almeno di fatto e per qualche periodo a restare sotto la protezione – il mundio – del signore feudale, passano gradualmente quale appannaggio del gruppo che li detiene.