15. La pace di Costanza

Se la grande abilità diplomatica e la statura politica di Federico avevano fatto sì che la giornata di Venezia del luglio 1177 assumesse più che il tono della disfatta imperiale quello della raggiunta pacificazione universale, ben diverso fu il senso della pace di Costanza del 1183.

Nei sei anni successivi allo storico incontro della città lagunare, la situazione appariva sensibilmente modificata. Le energie spese in precedenza da Federico per domare le città italiane e la Chiesa poterono infatti essere completamente rivolte contro i nemici tedeschi della corona. L’avversario da battere era Enrico il Leone, entrato ormai in aperta ribellione contro l’imperatore, considerato dai guelfi di Baviera del tutto perdente dopo la sessennale tregua veneziana.

Invece Federico, migliorati i suoi rapporti con i Comuni e con il papa, in seguito a una guerra aspra e senza quartiere riuscì ad aver ragione del riottoso duca Enrico, distruggendo completamente la casata guelfa.

Così riaffermata la sua scossa autorità, Barbarossa riprese a tessere la tela dell’impero universale, il sogno di tutta la sua vita. La morte di Alessandro III sembrò anch’essa un elemento positivo per la casata di Svevia che avviò rapporti con il successore, Lucio III, per risolvere l’annosa questione dei beni matildini. Il sovrano germanico tentò in questa occasione di attrarre dalla sua il nuovo papa progettando un complessivo finanziamento della Chiesa da parte dell’impero. Ma Lucio III comprese che la libertas Ecclesiae era legata a una completa autonomia economica di Roma dall’impero, quindi declinò l’offerta.

In queste condizioni si giunse in prossimità della scadenza del trattato veneziano con un papa che si faceva eccessive illusioni sulla sua forza e sulla possibilità di bloccare l’impero mentre i Comuni, erano tutto sommato disposti a far la pace con l’imperatore e meno interessati a rinnovare un’intesa papale di cui avevano meno bisogno. Federico invece era in una posizione vantaggiosa mai prima di allora conosciuta e avviò trattative segrete con le città lombarde, trattative che ebbero un insperato preludio nella formale sottomissione al Barbarossa, durante la Dieta di Norimberga, della ribelle Alessandria – l’anima della Lega Lombarda.

I consoli alessandrini infatti si inchinarono di fronte al sovrano chiedendogli perdono sino a che quest’ultimo non restituì loro la città ribattezzata con il nome di Cesarea. In tal modo venne cancellato persino il ricordo di papa Alessandro, mentre risultava rimosso un grave ostacolo alla pace, ma gli ambienti papali si trovarono spiazzati in presenza di un atteggiamento che mai si sarebbero atteso, proprio dal Comune che nel suo nome e nella fondazione stessa simbolizzava l’alleanza papal-comunale contro gli Svevi.

Sei settimane dopo, a Piacenza, furono siglati i preliminari della pace da cui furono praticamente esclusi i rappresentanti di Roma. I comuni, come abbiamo in precedenza accennato, ottenevano il riconoscimento della loro esistenza e delle loro prerogative in cambio del pagamento di tributi che – dianzi ricordavamo – fecero dell’imperatore il monarca più ricco dell’Occidente.

Ma una clausola, apparentemente priva di immediata portata politico-economica e però in prospettiva volta a rendere più forte la situazione imperiale e precaria la condizione del pontificato romano, faceva obbligo ai Comuni lombardi di aiutare lealmente l’imperatore a conservare i possedimenti che egli occupava fuori del territorio della Lega.

In tal modo, infatti, quelli che erano stati sino a sei anni prima i più intransigenti nemici dell’imperatore divennero i sostenitori e i garanti di un’Italia imperiale, nella quale posto ben minore e meno forte spettava al papa e alle sue riaffermate pretese territoriali sui beni matildini.

Lucio III e i cardinali dovettero arrendersi alla nuova situazione. Dapprincipio essi ritennero che la rinata rivalità fra Cremona e la risorta Milano aprisse nuovi spiragli a un inserimento di Roma nella politica comunale e imperiale. Invece Milano si pose sotto l’usbergo federiciano e sottomise Cremona diventando la più potente città della Lega.

Così il 20 giugno 1183 lo strumento complessivo di pace redatto sotto forma di atto di grazia dell’imperatore, venne giurato con solennità a Costanza, dinanzi a un’affollatissima Dieta. Federico ricevette le città comunali come fedeli suddite per convalidare l’elezione dei loro consoli e riconobbe in tal modo formalmente i Comuni.

I consoli poi giurarono un prescritto giuramento di fidelitas all’imperatore, un atto solenne, se non di sottomissione in pratica di riconoscimento leale dello svevo, peraltro dai Comuni mai apertamente contestato, uno strumento insomma letto, approvato e sottoscritto da una quantità di rappresentanti italiani.

A Costanza, inoltre, furono presenti anche due rappresentanti del papa, collocati in una posizione se non secondaria certamente non pari a quella di Federico e delle «sue» città e senza dubbio infinitamente meno importante di quella assunta in Venezia nel 1177 dal grande Alessandro III.

Tuttavia Lucio III non volle che la Chiesa fosse assente dalla grande assise e diplomaticamente si adoperò perché i suoi rappresentanti continuassero a trattare con Federico. La discussione che ebbe luogo nella città tedesca fu circostanziata e approfondita e l’atteggiamento dello svevo verso Roma fu cortese. In pratica tuttavia, oltre le reciproche disposizioni d’intesa non si andò e ogni decisione fu rimessa a una futura conferenza di pace che, più tardi, avrebbe dovuto organizzarsi in Verona dove non ebbe mai luogo.

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