24. I Visconti di Milano; il caso toscano
Il superamento del regime comunale, in Milano, si verificò con lentezza e con varie vicissitudini, ma in una situazione politico-sociale diversa, caratterizzata da una forte nobiltà riunita nell’associazione denominata Motta (ossia adunanza o raggruppamento) che controllò la chiesa cittadina e rese impossibile l’approvazione di una legislazione antimagnatizia.
Lo schieramento popolare – la Credenza di Sant’Ambrogio –, allorché raggiunse il sopravvento all’inizio del ’200, ebbe l’opportunità di consolidare una nuova egemonia politica, assegnando un ruolo di rilievo alla famiglia dei Della Torre, sostenitori della lotta contro i nobili.
Così Martino della Torre, nel 1259, conquistò il titolo di anziano perpetuo del popolo e inaugurò di fatto un regime signorile, mantenutosi sino a quando la città non si trovò a far parte dei domini di Oberto Pelavicino.
Dopo la scomparsa di quest’ultimo nel 1269 la Signoria torriana si rafforzò collegandosi ai guelfi che, con l’arrivo di Carlo I d’Angiò in Italia, dovevano praticamente controllare quasi l’intera penisola; ma ciò non bastò a impedire il ritorno dei nobili che, capeggiati dall’arcivescovo Ottone Visconti, nel 1277, con la battaglia di Desio, ripresero il sopravvento e proclamarono signore lo stesso arcivescovo.
Aveva così inizio una delle più fulgide Signorie italiane, quella dei Visconti che legittimarono il loro dominio con la gestione delle cariche pubbliche e il controllo degli organi comunali, cercando di sottrarre dominio alle organizzazioni del popolo e di comprimere il potere delle consorterie nobiliari.
Il conferimento a Matteo Visconti, nel 1294, del vicariato imperiale da parte dell’imperatore Adolfo di Nassau, carica successivamente trasmessa ai membri della famiglia, ebbe grande importanza per il rafforzamento di quella casata. In questo modo infatti il signore di Milano, considerato funzionario dell’imperatore, mostrò di non ritenere il suo potere fondato sul solo consenso dei cittadini, ma su una delega assegnatagli dal sovrano.
Ne uscì così rafforzato anche l’orientamento familiare, allorché agli eredi venne trasmesso il titolo imperiale. Tale orientamento poi dette luogo, verso la metà del XIV secolo, alla creazione di regole volte a precisare i modi della successione dinastica.
Il momento di massima fortuna dei Visconti coincise con la loro massima espansione territoriale e fu raggiunto nel 1395 da Gian Galeazzo Visconti al quale, come accennato, Venceslao di Boemia concesse il titolo di principe e duca. In tal modo infatti i Visconti divennero autonomi persino dalla signoria imperiale che aveva rivolto loro un così grande onore.
In Toscana, invece, le istituzioni comunali rimasero vitali per tutto il ’300, mentre sembrò nascere la Signoria solo per brevi periodi e per motivi di grave emergenza. Ciò accadde infatti a Pisa al tempo di Uguccione della Faggiuola, estensore del suo dominio su Lucca. Uguccione, quale capo dei ghibellini toscani, sconfisse duramente i Fiorentini in occasione della battaglia di Montecatini nel 1315. Tuttavia, l’anno successivo una rivolta lo costrinse alla fuga.
Qualche tempo dopo le stesse gesta furono compiute da Castruccio Castracani degli Antelminelli che, preso il potere in Lucca, conquistò Pisa e Pistoia e attaccò di nuovo Firenze, questa volta sconfitta ad Altopascio nel 1325, allorché la città del fiore dovette porsi sotto il protettorato di re Roberto d’Angiò, capo dei guelfi italiani.
Nel 1328, tuttavia, anche questo secondo esperimento signorile toscano fu destinato al tramonto.
Nel 1342 fu il momento critico di Firenze che attraversava un periodo di difficoltà determinato non solo dai rovesci militari surricordati ma dall’irrequietezza dei suoi magnati, nonché dallo stato di permanente agitazione in cui vivevano i salariati dell’industria tessile, colpiti da un dissesto economico che riguardò tutto l’Occidente.
Artefice del nuovo tentativo fu il già ricordato avventuriero Gualtieri di Brienne, il quale si autoconferì il titolo di duca di Atene. Preso il potere, egli architettò un ardito disegno di capeggiare una Signoria personale, conseguita eliminando dal governo cittadino il «popolo grasso» e i «grandi» che lo avevano sostenuto. Il progetto contemplò il disarmo di tutti i gruppi sociali e quindi delle cosiddette «masnade dei grandi» e delle compagnie armate di popolo.
Ma ciò in realtà era troppo per una città come la fiorentina, la cui amministrazione comunale era ancora viva e non disposta a rinunciare facilmente alle sue origini e alle sue prerogative libertarie.
Allora Gualtieri, che aveva divisato di reggersi con l’aiuto dei suoi cavalieri e trascinando dalla sua parte beccai, vinattieri, scardassieri e artefici minuti, nel luglio 1343 fu cacciato dalla città, in seguito a una sommossa nata con l’appoggio di tutti i gruppi sociali, in questa occasione solidalmente uniti come in precedenza non lo erano mai stati.