26. La Signoria a Firenze
Senza dubbio Firenze guardò con attenzione e forse con gelosia alle conclusioni della politica veneziana, ma la città del fiore era politicamente e socialmente troppo diversa dalla repubblica lagunare per attuare una politica troppo scopertamente oligarchica e antidemocratica. Impedivano ciò inoltre la presenza di leggi migliori, quali quella dei salariati tecnici e lo vietarono fra l’altro i piccoli commercianti e gli umili artigiani.
Tuttavia la cacciata del duca di Atene segnò la ripresa del ceto magnatizio pronto a unirsi ai grandi mercanti. Così furono ripristinati gli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella.
Il sentimento popolare si volse allora anzitutto contro i Donati, i Cavalcanti, i Rossi, i Frescobaldi e i Bardi, i più odiati per la loro superbia. Tuttavia non si vollero colpire i grandi come ceto ma solo i più potenti e prepotenti, mentre furono assolti i meno arroganti, acuiti tra le famiglie del popolo e immessi negli organismi del Comune. Tale operazione politica segnò una tappa importante nella fu-sione fra nobiltà guelfa e grandi mercanti e quindi rafforzò la formatone del patriziato cittadino.
Il patriziato fiorentino al suo interno, nell’ormai avanzato ’300, ancora poco concorde, ma desideroso di comandare sul Comune, fu pertanto scosso da traumi in buona parte derivanti dall’esterno. La crescita del debito pubblico, il crollo della banca dei Bardi, dei Peruzzi e degli Acciaiuoli, responsabile del danno di numerosi piccoli risparmiatori, venne assunto in città come una sorta di dramma collettivo. Inoltre, la peste nera del 1348, le successive ripetute epidemie a scadenza decennale e la rivolta del 1378 compirono il drammatico ciclo.
Le agitazioni in particolare fecero sì che alcune famiglie – gli Allerti, gli Strozzi, gli Scali, i Dini, i Medici – tentassero un colpo di mano, scegliendo la causa del popolo minuto. La conclusione della vicenda e la reazione seguente rafforzarono il ruolo delle Arti maggiori e la coesione interna del patriziato cittadino, pur se ciò non pose fine alle lotte tra famiglie per il predominio all’interno del ceto dirigente. Ad uscir sconfitta da tale situazione fu la casata degli Alberti, la più cospicua negli anni precedenti la rivolta del 1378. Banditi da Firenze ed esuli per un trentennio, non reagirono alla crisi e declinarono anche economicamente.
Allo stesso destino parevano votati i Medici espostisi già molto nel tentativo di un loro familiare Salvestro, il quale si dichiarò difensore del popolo minuto. Essi si salvarono però per la mancanza di concordia politica tra i diversi rami della famiglia, alcuni dei quali finirono schierati con la fazione vincente. Salvestro allora fu condannato all’esilio ma non alla confisca dei beni come gli Alberti e ciò permise ai Medici di mantenere la piattaforma su cui si sarebbe costituita la loro potenza.
I vincitori invece poterono considerarsi gli Albizzi, schieratisi apertamente contro i rivoltosi. Già da tempo influenti come esponenti della parte guelfa, essi ebbero allora la possibilità di prendere la guida del Comune grazie all’abilità dei loro elementi di punta come ad esempio il loro capo, Maso, capace di legare a sé personaggi di notevole peso politico, fra i quali Niccolò da Uzzano e Gino Capponi.
Come oligarchi essi procedettero pertanto – fra il 1382 e il 1396 – a varie riforme e riservarono le cariche pubbliche ai loro partigiani. La magistratura degli Otto di guardia – praticamente una loro creazione – fu più che altro una sorta di polizia politica dello Stato.
In questo ambito i Medici si impegnarono ad accumulare ricchezze e beni fondiari nel Mugello e ad accrescere il loro prestigio di banchieri. Artefice della fortuna familiare fu Giovanni (1360-1429), ordinato cavaliere nel 1420 insieme a Rinaldo Strozzi, il quale raccolse un patrimonio ragguardevole e con una accorta politica riuscì ad annullare il ricordo delle gesta del suo antenato Silvestro, pur senza smarrire le simpatie che la famiglia aveva goduto nei settori della media e piccola borghesia.
A ereditare le sue fortune fu Cosimo (1389-1464) il quale, dopo aver impiegato parte della sua giovinezza nei viaggi, prese a dedicarsi agli affari, trascurando la politica. Tuttavia, il suo prestigio e la sua posizione moderata gli procurarono amicizie e un ruolo notevole nel governo cittadino. Rinaldo degli Albizzi, temendo la concorrenza di Cosimo, con un incredibile stratagemma, lo convocò presso di lui e quindi lo fece arrestare e condannare a morte, condanna presto commutata in esilio (1433).
Tuttavia, l’esilio di Cosimo si tramutò per lui in un vero e proprio trionfo. Ovunque, egli fu accolto con onori. In conclusione poi, egli fu richiamato in Firenze il 29 settembre 1434, nonostante l’opposizione armata di Rinaldo degli Albizzi che fu costretto a sua volta a lasciare la propria città. Cosimo fondò così quella che fu detta criptosignoria, destinata a durare per trenta anni, un trentennio durante il quale egli eserciterà il potere senza ricoprire cariche e senza avere atteggiamenti dittatoriali e anzi continuando a mantenere in vita il Comune.
La situazione muterà con il figlio Piero il Gottoso (1464-1469) e :on il nipote Lorenzo il Magnifico (1469-1492).