16. I Comuni italiani dopo Costanza
Le concessioni avutesi a Costanza, con i correttivi del caso e i non lievi privilegi conferiti all’impero e al suo rappresentante pro tempore Federico, furono appannaggio delle sole città della Lega Lombarda e il riconoscimento dei Comuni si fermò alle cosiddette città matres, ma l’interpretazione corrente legò il Trattato anche ai cosiddetti Comitatini filii, compresi nel territorio della Diocesi, ove il Comitatus si trovava ad operare.
Così le sunnominate concessioni finirono per essere gradualmente estese a tutti i Comuni, i quali si configurarono come organismi politici e amministrativi legittimi e parte della struttura imperiale e tale inserimento non segnò in alcun modo una compressione della loro autonomia anche perché, dopo la scomparsa di Federico I nel 1190 e di suo figlio Enrico VI nel 1197, l’impero attraversò un periodo di non lieve crisi.
Di ciò subito profittarono i Comuni per consolidare e collaudare la loro forza. Essi allora estromisero il vescovo dalla loro giurisdizione civile e contemporaneamente dotarono le città di edifici pubblici spesso ben distinti dalla cattedrale, per evidenziare meglio la loro autonomia oltre che rispetto all’impero anche nei confronti del potere ecclesiastico.
A partire da quel tempo, si provvide inoltre alla redazione di Statuti stesi con l’aiuto di notai, giudici e avvocati particolarmente esperti di diritto, il cui ruolo ebbe importanza sempre più netta e pronunciata con il progressivo rafforzamento della vita dei Comuni.
Il consolidamento delle istituzioni comunali procedette poi di pari passo con la progressiva sottomissione del contado, militare oltre che politica. Tale sottomissione fu ottenuta in modo diverso, a volte con le armi, a volte mediante la stipula di alleanze e in qualche occasione anche grazie a ingaggi militari ricercati qualora il Comune, per la difesa del suo territorio, necessitasse dell’aiuto dei contingenti armati dei feudatari vicini.
Strumento valido di controllo del territorio, segnatamente nei posti di confine con altri Comuni e Signorie fondiarie, furono i borghi franchi ovvero insediamenti di nuova fondazione abitati da cittadini che godettero di facilitazioni volte a consentire la valorizzazione delle terre incolte e inoltre la loro difesa da possibili attacchi esterni. Nei dintorni delle città matres fiorirono così i borghi franchi dotati di mura e autonomie concesse dal Comune fondatore. Nel 1185 Villafranca li ebbe da Verona, nel 1197 Villanova da Vercelli, nel 1198 Cuneo fu fondata da Asti alla quale spettarono ben 15 borghi franchi.
L’ordine instauratosi con Costanza resse anche durante il breve impero di Enrico VI.
Però per risollevare le sorti imperiali, Federico II di Svevia appena assunte le insegne sovrane – nel 1220 – cominciò a interferire nelle autonomie cittadine, attribuendo prebende, terre e poteri vari anche ai vescovi e ai signori in contrasto con la politica comunale.
Ciò accadde nelle aree padane e, più o meno, in tutto il nord della penisola.
Tale situazione nel 1226 portò alla fondazione della II Lega Lombarda antisveva. Da allora per 20 anni si ebbe un crescendo di colpi di mano, di mutamenti di fronte, di tradimenti che videro un alternarsi continuo di vinti e vincitori.
Nel 1237 a Cortenuova le forze imperiali conobbero un successo salutato da Federico II come la risposta ghibellina alla battaglia di Legnano del 1176.
Ma la grave sconfitta dei federiciani a Parma e la definitiva rovinosa lotta contro l’accampamento della «vittoria», segnò la sconfitta inesorabile degli Svevi e dei loro aderenti ghibellini (1248).
L’ultima resistenza di Federico II fu vinta dai Bolognesi a Fossalta ove essi fecero prigioniero lo stesso figlio di Federico, re Enzio (1249).
Con la scomparsa del sovrano staufico, nel dicembre del 1250, la riscossa comunale poté considerarsi completa.
Il lungo periodo di conflitto tra i Comuni e l’Impero, rinnovatosi dopo il 1226, in seguito alla costituzione della II Lega Lombarda, vide per solito l’imperatore e i suoi sostenitori collegati con i ghibellini, mentre, le città furono sospinte verso l’alleanza guelfa, capeggiata dal pontefice.
Dopo la morte di Federico II la titanica lotta, durata quasi un secolo, doveva dunque concludersi con il trionfo dei Comuni e la sconfitta dei ghibellini.
Tuttavia le cose non andarono così in quanto quella contesa di carattere militare si trasformava ormai in una sorta di conflitto ideologico che vide ancora una volta contrapposti guelfi a ghibellini.
I due termini suddetti, nati in Germania, stavano a indicare rispettivamente i sostenitori della casata di Baviera – così denominata dal capostipite Welf – contrapposti agli Svevi difensori dell’onore dell’impero, signori del castello di Weibling e sostenitori degli Hohenstaufen.
In Italia guelfi e ghibellini si trasferirono all’interno delle città. Particolarmente forte fu la lotta fra le due fazioni nel XIII secolo in Firenze, città ove l’evoluzione in senso statale delle istituzioni fu lenta e faticosa. Il popolo fiorentino impose le Arti come elemento costitutivo di governo solo a partire dalla metà del ’200.
Le Arti non avevano tutte egual peso politico: 7 erano considerate Arti maggiori, 5 medie, mentre 9 erano le minori.
Fra le maggiori – setaioli, lanaioli, cambiatori, pellicciai, giudici e notai, medici e speziali – ruolo del tutto fondamentale ebbe l’Arte di Calimala – così detta dalla sede stradale ove era collocata – distintasi dalle altre consorelle per l’impostazione e la lavorazione dei panni forestieri (spesso provenienti dall’Inghilterra, dalle regioni fiamminghe e da quelle del nord della Francia) destinati ad essere raffinati, lavorati e nuovamente esportati fuori di Firenze. Il governo popolare, espressione della borghesia fiorentina, fu però piuttosto condizionato dalla concorrenza politica e militare delle consorterie nobiliari, inoltre fu anche indebolito dalle divisioni interne.
Nel capoluogo toscano forti furono le divergenze e le lotte che invano i pontefici cercarono di placare nel corso del ’200; in particolare ricorderemo Gregorio X, papa Tedaldo Visconti che nel 1273 in viaggio verso Lione, ove avrebbe celebrato un grande Concilio ecumenico, si fermò invano a Firenze per pacificare le parti nemiche.
Infatti, constatata la cattiva disposizione degli avversari distanti e contrari a ogni possibile composizione pacifica del dissenso, il papa si allontanò corrucciato dalla città del fiore.
Di ritorno dal suddetto Concilio e obbligato a rientrare di nuovo a Firenze, Gregorio X tolse momentaneamente l’interdetto alla città, da cui, dopo una breve sosta uscì, per condannarla ancora inesorabilmente, visto l’irriducibile odio fra le fazioni cittadine.
Nota è anche la pace indetta ancora una volta in quel grande centro urbano con scarso successo nel 1282 dal cardinale Latino Malabranca Orsini, anch’egli vanamente impegnato nella ricerca di un terreno di incontro tra le fazioni che praticamente vanificarono l’importante mediazione.
Nonostante gli odi e le fazioni cittadine, gli assalti, gli agguati e le continue aggressioni, Firenze conobbe nel ’200 una crescita costante e promettente che fece della città toscana una delle più affermate e delle più grandi del mondo.