20. Gli operai in rivolta
Se dall’inizio del Trecento un malcontento serpeggiante e sempre più generalizzato attraversò il settore dell’industria tessile, veri e propri movimenti di rivolta esplosero nella seconda metà del secolo, allorché si generarono situazioni socialmente ed economicamente insostenibili, giunte infine a un punto di rottura.
A Firenze e in altre città industriali in rivolta, non v’erano allora «fabbriche» nel senso corrente del termine, ma l’assoluta dipendenza dei lavoratori dall’imprenditore che era ad un tempo commerciante, industriale e banchiere e tendeva a cancellare ogni residuo di garanzie economiche e civili per coloro che nulla possedevano.
La prima massiccia agitazione esplose a Perugia, senza una precisa programmazione, a metà maggio del 1371. Protagonisti ne furono gli artigiani del modesto rione di Sant’Angelo che estesero la rivolta a tutta la città e obiettivo unico fu l’attacco contro i ricchi populares detentori del potere.
Le case più ricche e sontuose vennero incendiate e fra le prime vittime si contarono due notai estensori degli statuti dell’Arte della lana, statuti che prevedevano lo sfruttamento degli artigiani delle Arti minori da parte dei ricchi lanaioli.
Il risultato della pericolosa agitazione fu però uno solo, ovvero il ritorno al governo dei nobili e del legato papale anche perché i rivoltosi, privi di programma e finalità precise, non presero il governo della città e non furono capaci di modificare la condizione di sfruttamento dell’Arte della lana.
Diverso, invero, a metà luglio dello stesso 1371, il caso di Siena, ove i Ciompi e gli altri salariati dell’industria dei panni, già si erano sollevati senza successo negli anni precedenti.
Anche a Siena, città definibile allora industriale, il Comune del popolo non aveva neppur tentato di diminuire la forza dei Magnati, i quali continuavano a ordire congiure contro il governo democratico, facendo leva sul malcontento dei salariati e modesti artigiani contro i produttori dei panni lani e di seta, gli unici membri dell’Arte della lana ad essere arbitri del governo cittadino.
In questo ambito dunque, maturò la rivolta del 1371 che fu molto più mirata di quella analoga perugina. I rivoltosi infatti si impadronirono del potere e si allearono subito con gli artigiani all’inizio collegatisi con i salariati. Gli stessi membri dell’artigianato, presi poi dalla paura, fecero presto marcia indietro, divenendo oggetto della sanguinosa reazione dei ricchi popolari congiunti con i Magnati e gli aristocratici.
La Sommossa del bruco – così venne denominata – non fu però del tutto priva di conseguenze positive per i lavoratori, per i quali il governo cittadino prese taluni provvedimenti destinati a evitare il ripetersi di sommosse. Si previdero quindi delle modifiche allo statuto dell’Arte della lana per ridurre l’arbitrio dei padroni e per lasciare ai dipendenti una parvenza di partecipazione al governo dell’Arte stessa.
La più conosciuta e grave rivolta cittadina del Trecento fu comunque quella dei Ciompi in Firenze, dotati di una maturità e di una determinazione politica che non chiameremmo ancora vera e propria coscienza di classe, ma che si rivelò indubbiamente superiore a quella degli altri operai italiani e forse del continente.
Anzitutto il termine Ciompi ebbe subito un contenuto preciso e indicò gli operai salariati delle corporazioni tessili – per esempio gli scardassatori – che vennero così definiti dai «padroni» in modo dispregiativo in quanto sporchi e miseramente vestiti.
Il cronista fiorentino Capponi, in pieno ’300 ebbe a chiamarli «la più bassa gente… dell’Arte della lana all’esercitio che la pettina et ugne et acconciala da potella filare onde mentre che lavora se ne sta rinchiusa in certe stanze, quasi ignuda, tutta unta e imbrattata…».
I Ciompi invece presero a denominarsi «popolo minuto» o «popolo di Dio».
Il fatto originale del tumulto, scoppiato ai primi di luglio del 1378, consisté nella motivazione della rivolta che non si limitò alla richiesta di aumenti salariali e di riforme circostanziate, ma intese cambiare in maniera definitiva la condizione di vita e di lavoro della Corporazione all’interno di Firenze.
I Ciompi chiesero dunque l’abolizione dei poteri che l’Arte della lana esercitava su loro, la predisposizione di un’Arte di tessili volta a tutelarli e a sottrarli alle angherie dei padroni e chiesero ancora la partecipazione al governo cittadino.
Quest’ultima rivendicazione in particolare indicò il carattere avanzato di quel movimento di rivoltosi, i quali compresero che il legame fra Arti maggiori e potere politico avrebbe annullato ogni loro conquista, se essi non avessero partecipato al governo.
Il programma, favorito anche dal persistente malcontento generato dalla pessima situazione economica del Comune e aggravato dalla Guerra degli Otto Santi (1375-1378), segnò un promettente avvio. Si ebbe pertanto la predisposizione di tre nuove Arti, dei Ciompi, dei Tintori e dei Farsettai e la loro presenza paritetica nel Priorato, ovvero nella massima istituzione cittadina. Pertanto con i sei Priori delle Arti maggiori e delle minori comparvero i tre esponenti estratti dalle Arti di nuova istituzione.
I rivoltosi aggiunsero poi richieste di carattere politico, ossia l’impedimento di conferire uffici a quanti non risultassero iscritti alle Arti e non le esercitassero, poi domandarono l’abolizione delle gabelle sui cereali, il «taglio» dei prezzi dei generi di prima necessità e l’obbligo per i produttori del contado di costituire un ammasso del grano sul mercato fiorentino.
Altre richieste mirarono ancora a limitare la libera iniziativa dei mercanti-imprenditori obbligati, tramite la fissazione di una specie di programmazione economica, a garantire un livello di investimenti nell’Arte laniera che mantenesse la produzione a 24 mila pezze all’anno. Tal richiesta – è ovvio – voleva assicurare ai salariati una certezza di mantenimento del lavoro e allo stesso tempo prevedeva un grado di produzione compatibile con un loro più ragionevole impiego non mutato in vero e proprio sfruttamento.
Tuttavia, dopo l’euforia delle prime conquiste, fu presto chiaro che fra Ciompi e Tintori e Farsettai non v’era, né poteva esservi, identità di vedute. I Ciompi infatti erano gli unici a essere salariati nel senso più proprio del termine, mentre i Tintori e i Farsettai erano non di rado proprietari di botteghe e quindi, a un certo punto, abbandonarono gli alleati.
Gli scardassatori pertanto dovettero uscire dal Comune, 300 di loro vennero condannati per vari motivi e 30 furono colpiti dalla pena capitale, naturalmente si trattava dei più irriducibili animatori della sommossa. Tintori e Farsettai, comunque, perduta la solidarietà dei Ciompi, ebbero egual sorte nel 1382.
I lavoratori fiorentini furono in tal modo sconfitti al pari di quelli di altri centri urbani, ma il loro sacrificio mostrò che la situazione politica ed economico-sociale era profondamente mutata e preannunciava, per il futuro, ben più mature rivendicazioni.
Dopo la crisi conseguente al tumulto del 1378, come altre zone d’Italia, anche Firenze si avviò a un tipo di governo oligarchico da considerarsi l’anticamera della Signoria.