8. I Comuni crescono in fretta

Un elemento è, fra gli altri, notevole per quanto concerne le città e la loro vita fra l’XI e il XIII secolo. Pensiamo, per esempio, a Milano che in meno di duecento anni aumentò di due volte e mezza la sua superficie, passando da circa 200 a 500 ettari di estensione.

L’esempio di Firenze è ancor più prodigioso, essendo essa passata in pari tempo dai 100 iniziali ai 600 ettari già dianzi ricordati.

Una crescita così pronunciata e quasi inarrestabile senza dubbio non è resa possibile da un aumento naturale della popolazione ma, agli inizi soprattutto, da una consistente immigrazione di abitanti volti ad abbandonar le campagne per mettersi sotto la più sicura tutela economico-sociale e politica della realtà cittadina.

A indurre il ceto agricolo a tale scelta, che potremmo quasi definire di massa, sono certo le condizioni difficili del lavoro sulla terra, la sua scarsa retribuzione e il basso reddito delle campagne e delle aree agricole, nonché la precarietà di una vita messa a repentaglio dall’inclemenza del tempo – alluvioni, gelate, siccità –, dalle epidemie che uccidono gli animali da lavoro e mettono in pericolo le colture dei campi, allora non protette dall’uso dei fertilizzanti e a volte non assistiti neppure da una corretta pratica del sovescio.

A spingere i contadini verso le mura urbane sono però anche altri motivi, primo fra gli altri il desiderio di cogliere le opportunità di un promettente mercato, accresciutosi per lo sviluppo delle industrie cittadine: in particolare quella tessile.

Così fra i cittadini di recente inurbazione, quasi sempre scesi in città dal contado, possiamo reperire mercanti girovaghi e chierici, lavoratori in possesso di capacità manuali e artigiani che hanno acquisito specifiche competenze nei numerosi laboratori delle aziende signorili sia laiche che ecclesiastiche.

Fra i cittadini nuovi – «la gente nova» – compaiono non di rado persone di condizione servile che dalla fuga dalle campagne si attendevano il conseguimento di un miglior tenore di vita, qualche forma di libertà personale e soprattutto la possibilità di sottrarsi all’obbedienza al signore, un’obbedienza dura a sopportarsi, soprattutto a livello psicologico.

Gli statuti di diverse città d’oltralpe francesi e fiamminghe, inglesi e tedesche, recitavano infatti che chi fosse riuscito a rimanere in città per un anno e un giorno senza che il signore fosse in grado di scovarlo e di far valere i propri diritti sulla sua persona, questi aveva la facoltà di rimanere in condizione di personale libertà. E ciò spiega ampiamente una frase comunemente detta in Germania, e ripetuta dalla famosa Cronaca di Ottone di Frisinga, ossia che «l’aria della città rende liberi».

Certo sarebbe errato conferire a queste parole un valore troppo rigido e rispondente al vero. Comunque non può negarsi che la vita cittadina suscitò allora un fascino indicibile su molteplici strati della popolazione disposti anche a sacrifici, pur di trovare una sia pur precaria collocazione cittadina.

La società urbana, o per meglio dire i burgenses (come si dirà sia in Italia e sia soprattutto Oltralpe per contrassegnare l’origine dei cittadini nel borgo da cui erano sbocciate nuove, più grandi città) svolgevano un lavoro particolare e diverso, anche se parecchi contadini furono impiegati a coltivare i campi e gli orti rimasti in considerevole numero immediatamente fuori le mura o anche all’interno di esse. Non di rado gli agricoltori giungevano dai campi meno lontani per portare a vendere in città i prodotti della terra, nonché formaggi, uova, latte, vino e animali da cortile, cibo prelibato sulle tavole dei più ricchi, e questo era il primo passo, dopo di che nasceva la possibilità di trovare una più stabile collocazione urbana.

Di solito però i burgenses o borghesi si dedicavano al commercio e all’artigianato, attività aumentate con la crescita della popolazione e che necessitavano di una specializzazione più raffinata e complessa per soddisfare le esigenze più grandi del nuovo mercato.

Più volte poi, i nuovi arrivati si ponevano al servizio di potenti uomini d’affari, soprattutto di grandi commercianti che li utilizzavano come commessi e garzoni, si facevano accompagnare da loro quando partivano per provvedersi di merci provenienti da zone molto lontane e compivano viaggi che era disagevole far da soli: si pensi al padre di Francesco d’Assisi spesso abituato a recarsi sino in Francia, per comperare stoffe pregiate provenienti da quelle terre e che nei lunghi percorsi si fece aiutare anche dal giovanissimo figlio, natogli dal matrimonio appunto concluso con una francese – Monna Pica – conosciuta durante il lungo girovagare in quelle zone e fra quelle industrie.

In questi casi dunque, i fuggiaschi dalle campagne, se avevano voglia di lavorare e avevano coraggio per le novità e attrazione per un tipo di vita meno consueto, finivano per svolgere un’attività di tipo addirittura internazionale e partecipavano spesso a viaggi che resero la civiltà comunale più ricca e articolata.

Una società ben diversa si afferma dunque, rispetto a quella animatasi sul finire del IX secolo, allorché, secondo la formulazione del religioso francese Adalberone di Laon, si sostenne che nelle condizioni di vita comune la Societas Christiana poteva considerarsi suddivisa in tre ordini: coloro che pensavano alla salvezza dell’anima con le preghiere e le meditazioni e le prediche – ossia gli Oratores – quelli che prendevano le armi per la difesa della Chiesa e dei fedeli – ossia i Bellatores – e, infine, i contadini che lavoravano i campi e procacciavano il pane per tutti gli altri, denominati genericamente Laboratores.

Infatti, con il XII-XIII secolo tra i Laboratores bisognò comprendere anche i magistrati, i medici e gli speziali, gli insegnanti, i commercianti, i banchieri, tutti coloro insomma (non esclusi gli usurai reietti e ricercati nell’ambito di una società in espansione e priva di denaro) che con l’espandersi e l’affermarsi della civiltà comunale ebbero importanza sempre maggiore e sempre più precisa.

Tutto ciò dunque contribuì a rendere ancor più distaccata la vita delle campagne rispetto a quella delle città. Sui campi, con i laboratores veri e propri, rimasero per solito, donne, vecchi e bambini. Coloro invece che erano in età di lavoro e avevano l’ambizione di migliorare la loro esistenza e la loro situazione economica si recarono nelle città simbolizzate spesso dalle mura di cinta, dalle porte d’ingresso, dalle posterulae, dai fossati, dai ponti levatoi e soprattutto rese operanti quando nel loro seno prosperarono più e più gruppi sociali volti a interessi, lavori e destini diversi.

Perciò disse felicemente Roberto Sabatino Lopez che l’esistenza delle città non fu determinata tanto dal numero dei loro abitanti che poté esser maggiore o minore, ma dal moltiplicarsi di attività economiche e di interessi che resero i centri urbani una sorta di «stato d’animo».

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