17. Comune podestarile

La novità più importante della seconda fase della vita comunale fu senza dubbio il cambiamento della magistratura collegiale dei consoli con il podestà. Pertanto si può a buon diritto parlare di una fase podestarile del Comune.

Il mutamento istituzionale nacque da un processo profondo avvenuto nell’interno della società comunale che andava facendosi articolata e complessa.

Le attività produttive e mercantili crescevano con l’apporto di commercianti e banchieri certi del loro potere e non più propensi ad abbandonare la gestione delle cariche pubbliche nelle mani della detestata classe nobiliare che, per parte sua, dapprima si era manifestata aperta ad accogliere al proprio interno anche elementi estranei per poi chiudersi con l’aumento del numero dei nuovi ricchi che si trasferivano in città e pretendevano di avere acquisito una vera e propria statura politica oltre a quella loro non contestata di carattere economico.

Si contrapposero allora nei Comuni due schieramenti dei nobili e dei popolani.

I due termini lasciano pensare talvolta che nelle città comunali, per esempio a Firenze, si sia istituita una sorta di lotta di classe, giacché i nobili erano detentori di beni fondiari mentre i popolani, spesso mercanti e artigiani, quasi mai lo furono. Qualche contrasto fra ceto e ceto certo si verificò, ma la realtà fu più complessa e non è facile dire che la lotta ingaggiatasi nella grande città toscana nel ’200 e nel ’300 fu di classe, in quanto della nobiltà facevano parte anche mercanti arricchiti ma non di sangue nobilesco e anche da poco inurbati.

Dal Comune podestarile in ogni modo Firenze trasse grande impulso: in Toscana, infatti, i Comuni rurali furono fiacchi, mentre assai più consistenti divennero le aree urbanizzate.

Nelle zone di montagna dell’Appennino prese inoltre forma una sorta di dominazione signorile imperniata su una pluralità di castelli: una situazione analoga si consolidò nell’Appennino ligure, nel piacentino e nel modenese.

Le città, già forti invece nel corso del XII secolo, lo divennero ancor più nel ’200 e fra tutte si distinse Firenze.

Nel corso del ’200 a Firenze si impose una sorta di Signoria di tipo economico. Con la metà del secolo poi i mercanti e la mercatura fiorentina si rafforzarono ed acquisirono un ruolo fondamentale. Nel 1252 fu coniato il primo fiorino d’oro ossia la prima moneta aurea in assoluto dell’Occidente medievale.

Sempre nello stesso periodo, dopo il tramonto del guelfismo fiorentino, terminato con la rotta di Montaperti (1260), si giunse al trionfo dei ghibellini difensori della città con Farinata degli Uberti, colui «che la difese a viso aperto».

Firenze esercitò allora una quasi stabile egemonia, soprattutto e anzitutto di carattere economico, su Prato, Pistoia, San Miniato, Volterra, San Gimignano, Colle Valdelsa, Poggibonsi, Montepulciano. Talora poi tale egemonia si agganciò ad alleanze militari, a trattati commerciali e al cosiddetto controllo dei cosiddetti cartelli de jure.

Nell’ambito di tale progressivo rafforzamento, Firenze completò la nuova cerchia delle sue mura nel 1172 e abbandonò la vecchia divisione in quartieri sostituiti dai sestieri, a ognuno dei quali fu forse assegnata una giurisdizione rurale.

In questo periodo la città acquistò un’enorme valenza politico-economica, fortemente protesa verso il contado e nel ’300 – nell’età di Dante insomma – essa superò i 100 mila abitanti mentre il contado toccò i 250 mila!

Il Sesto di Oltrarno era allora suddiviso in 11 plebati e 172 popoli e comprendeva Empoli, Castelfiorentino, Certaldo, Barberino al Mugello, San Donato in Poggio.

Il Sesto di Borgo, comprendeva 16 plebati e 210 popoli e di esso facevano parte San Casciano, Val di Pesa e Montelupo.

Il Sesto di San Piero Scheraggio raggiungeva 15 plebati e 150 popoli, fra cui Figline Valdarno, Cavriglia, Gaville, Montevarchi.

Il Sesto di Monte San Piero aveva 32 plebati e 342 popoli, il più esteso dei quali andava dal Mugello al Casentino e al Valdelsa superiore.

Porta Duomo aveva 24 plebati e 209 popoli e raccoglieva la Val di Sieve e il Mugello.

San Pascazio, con 3 plebati e 20 popoli, accoglieva Campi e Signa.

Cori il Comune podestarile a Firenze toccò in sorte pure il privilegio di inviare podestà nei più importanti centri del Contado e magistrati nelle più rappresentative città italiane, da Roma, a Milano, a Ferrara, a Mantova, a Pavia.

La città insomma controllò quasi tutto il suo contado, le strade, i ponti, cui destinò spesso custodi ufficiali, coordinò le milizie, i fanti, organizzò le vicherie. Con la fine del ’300 poi lo Stato territoriale fiorentino diventò una sorta di unico, grande contado, vario, articolato e ricco e fortemente differenziato al suo interno.

Da quanto accennato si evince un continuo, quasi miracoloso balzo in avanti della città dell’Arno, rafforzatasi pressoché in ogni settore.

Comunque, nonostante ciò, le tensioni sociali nell’interno della città si ingigantirono e la classe dirigente del Comune consolare, capace di giungere alla vittoria contro Barbarossa trovò molto maggior difficoltà a governare il successivo periodo di espansione e di relativo benessere.

Il popolo più attivo, la borghesia organizzata secondo le Arti, si appuntò presto contro i consoli, ormai legati a un’oligarchia nobiliare divisa dalla lotta tra le fazioni e dalla stessa pressione dell’aristocrazia del contado, fino ad allora del tutto esclusa dalla spartizione e dal conseguimento delle magistrature comunali.

La soluzione buona parve contenuta nella sostituzione dei consoli con il podestà, dapprima locale poi forestiero, considerato garante di una maggiore indipendenza rispetto ai centri di interesse economico e politico cittadino.

Questi non fu, almeno all’inizio, un capo politico, ma un magistrato cui toccò di eseguire le decisioni prese dai Consigli generali e l’applicazione scrupolosa delle leggi e la gestione della giustizia.

All’inizio il podestà divenne anche responsabile della difesa, ma in seguito tale delicata competenza toccò al capitano del popolo, una nuova magistratura, volta a non sovraccaricare di eccessivi poteri solo la carica podestarile.

Anche le consorterie nobiliari in questo periodo cercarono di rifugiarsi sotto questa nuova istituzione considerata capace di elevarsi con imparzialità sulle fazioni, per garantire l’ordine e la pace sociale. Al principio i consoli furono scavalcati ma non del tutto accantonati, in quanto il podestà fu affiancato alla loro presenza. Dopo i primi, soddisfacenti esperimenti tuttavia i consoli furono definitivamente sacrificati e rimase solo e senza sostegni collaterali, il podestà.

Di solito esso era un forestiero, scelto fra i notabili di altri Comuni – di regola, all’inizio almeno, si tratterà di un nobile – aveva, come dicevamo, compiti precipui di giustizia ed era accompagnato da un gruppo di collaboratori che lo seguivano di città in città, pagati come lui e con limiti precisi di durata dell’incarico, di solito per un anno.

Il podestà non ebbe funzioni legislative che non gli vennero riconosciute in quanto le consuetudini locali regolavano spontaneamente quasi ogni rapporto. Tuttavia, una nuova realtà economica si faceva avanti con insistenza e richiedeva nuovi e appropriati strumenti giuridici che le antiche leggi e gli usi non sempre avevano avuto presenti.

Le consuetudines allora – lo precisava il rinnovato studio del diritto romano – non erano altro che l’espressione di una tacita volontà, fattasi avanti attraverso il comportamento popolare in un determinato luogo e momento.

Lo stesso popolo pertanto poteva esprimersi pur direttamente in merito al regolamento di nuovi rapporti, sempre adattando e limitando al proprio ambito l’efficacia delle sue disposizioni.

L’assemblea popolare poteva dunque stabilire anche particolari norme – per l’appunto gli statuto ai quali abbiamo prima fatto cenno – in tutto valide per quanto riguardava il suo ordinamento.

Ciò non era in contrasto con le leggi emanate dall’impero e tanto meno con le norme consuetudinarie. Pertanto il Comune podestarile fu presto anche in grado di legiferare.

L’età podestarile così unificò i poteri dapprima suddivisi fra i consoli, espresse l’universitas della comunità sui diversi ceti dei cittadini e avvertì l’opportunità di fissare una volta per tutte l’insieme delle norme che individuarono in un certo Comune la differenza con le altre amministrazioni, ne determinarono le modalità di gestione e le regole della interna convivenza.

Furono così raccolti, oltre ai già ricordati Statuti, i Brevi giurati, le deliberazioni assembleari, le consuetudini spesso già vergate per iscritto. Tutto ciò rifluì in testi unitari divisi in libri, capitoli, rubriche che riecheggiarono quelle giustinianee. Gli Statuti di qui derivati furono espressione della libertà comunale, una libertà che sembrava più che altro un privilegio e che si richiamava a un giuramento di fedeltà mai negato all’imperatore.

Gli Statuti oltre a validità giuridica ne ebbero una, forse ancora più forte di carattere morale. Essi furono l’espressione della verità, su essi si giurava e non potevano dunque che contenere elementi veritieri. Non per nulla essi furono spesso redatti da notai, i detentori della verità per eccellenza e, al pari delle Cronache comunali, anch’esse redatte dai notai, furono chiusi nelle casseforti dei palazzi, sede dell’amministrazione come il più grande tesoro di cui una città potesse disporre.

Da principio il mutamento amministrativo ma pur politico e sociale dette buoni risultati. Però, a metà del XIII secolo le tensioni politico-sociali esplosero con rinnovata virulenza tra nobili e popolo e si moltiplicarono anche all’interno della vita dei ceti più potenti, dapprima meno inclini alle degenerazioni violente, ma poi anch’essi coinvolti nella generale atmosfera di sommovimento.

Le suddivisioni mutarono da zona a zona, ma in sostanza i rappresentanti politici si suddivisero, come già ricordato, in guelfi e ghibellini, nomi che si attagliarono agli schieramenti che nel secolo precedente s’erano rispettivamente formati attorno al papa e all’imperatore.

Guelfi e Ghibellini – come s’è più volte accennato – si fronteggiarono dunque e si contrapposero durante il Comune podestarile, anche quando una qualche copertura ideologica servì per mascherare l’antagonismo tra clan familiari e tra esponenti facenti capo a situazioni di privilegio cui non si voleva rinunciare. In una situazione come questa, variegata e mutevole, la lotta di classe specialmente in prospettiva ebbe peso, ma non in senso assoluto in quanto a volte – lo abbiamo già rilevato – a detenere il potere erano i nobili e in altri casi i commercianti e i banchieri di estrazione sociale più modesta.

Inoltre, anche la comunanza di interessi fra artigiani e commercianti era debole e a valere più di tutto furono allora i vincoli di carattere corporativo.

Ma le stesse corporazioni erano spesso in contrasto fra loro e fra le Arti maggiori che ebbero parte notevole nella vita politica cittadina, e le medie e minori vi furono attriti e tensioni sociali non indifferenti, trascinatisi per decenni e da un secolo all’altro.

Si formarono così più centri di potere volti a coesistere fino a che se ne rinvenne la possibilità e poi destinati a scendere in lotta fra loro. Perciò nei Comuni, alle lotte esterne fra città più o meno vicine, si aggiunsero le lotte interne difficilmente gestibili.

Quello che si creò con il Comune podestarile fu pertanto una situazione estremamente mobile, positiva e negativa a un tempo: positiva, in quanto le condizioni economico-politiche e culturali dei Comuni conobbero allora un progresso senza pari, quasi inarrestabile che contribuì alla crescita dei Comuni stessi che si riempirono allora di splendidi palazzi, di torri snelle e chiese ricche e piene di opere d’arte pregevoli; negativa, perché la situazione di continuata e progressiva tensione sociale sfociò di tanto in tanto in pericolosi conflitti, a volte sopitisi ma mai spenti del tutto e sempre pronti a nuove esplosioni, come il fuoco che cova sotto la cenere.

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