18. Il Comune popolare
La crisi politica endemica dei Comuni – come si ricordava dianzi – sfociò spesso in lotte aperte fra le parti contendenti, lotte conclusesi con la vittoria dei più forti e con l’espulsione dalla città degli esponenti di spicco della parte perdente.
I fuorusciti o banditi difficilmente si rassegnavano alla loro sorte e si riunivano spesso nel cosiddetto Comune degli estrinseci, fissando legami con i loro compagni rimasti in città e con i Comuni rivali, appoggiati dai quali, a volte, riuscivano a rientrare nella loro città e, magari, a espellere i nemici divenuti a loro volta minoranza.
Quando le lotte politiche condussero al potere la Societas populi, il popolo non dissolse le sue societates, ma le affiancò agli organi comunali.
Così si creò una sorta di sistema volto a duplicare la discussione dei provvedimenti e il potere politico si suddivise fra il podestà, gli anziani, il priorato delle Arti maggiori e minori e poi il capitano del popolo cui il podestà conferì – come accennato – le competenze di carattere militare. Il capitano ebbe suoi collaboratori e, spesso, un suo palazzo, espressione del potere conseguito anche nella vita quotidiana delle città comunali.
Anche questa successiva svolta però non produsse, alla lunga, situazioni pacifiche. I Comuni popolari, infatti, non protessero i ceti inferiori e talvolta infierirono contro gli aristocratici; abbondarono difatti i provvedimenti antimagnatizi, si esclusero dal potere gli esponenti nobileschi o i proprietari arricchiti, ovvero i grandi di popolo, fra i quali, per esempio in Firenze, si annoverarono personaggi come il beccaio Pecora, considerato un Magnate, ma non certo un nobile, che andava «di notte a fomentar gli odi».
Sempre a Firenze, nel 1293, Giano della Bella emanò i famosi Ordinamenti di giustizia per porre freno alle intemperanze magnatizie e per impedire agli oligarchici l’accesso al priorato delle Arti.
Comunque, i Comuni popolari accrebbero sensibilmente la partecipazione popolare alla cosa pubblica. Si pensi per esempio che nel 1277 a Padova, il Maggior Consiglio contò mille membri, una cifra invero ragguardevole, se consideriamo che gli abitanti di quel centro non superarono i 30 mila.
Tutto questo però non significò che tali amministrazioni risolsero le loro ricorrenti tensioni sociali. Infatti, trovarono in qualche modo un incontro le Arti maggiori e le medie, ma furono esclusi gli esponenti delle minori nonché i salariati delle industrie cittadine come a Firenze, Siena, Perugia, Milano.
Anche l’affrancazione dei servi della gleba che assunse un significato marcatamente sociale, non nacque tuttavia solo da intendimenti liberatori, mentre si spiegò anche con il desiderio di far aumentare il numero dei cives e dei contribuenti cittadini.
È fuor di dubbio però che tale provvedimento servì a migliorare la condizione servile di molti abitanti di Comuni che, sia pure in maniera strumentale, si videro conferire una qualifica che consentì loro di uscire da una condizione estremamente difficile e penosa.
I contadini invece, durante l’esperimento del Comune popolare, continuarono a essere sempre più sfruttati dai proprietari burgenses che seppero trarre spesso il massimo guadagno dai loro poderi cittadini o situati nell’agro comunale, condotti con maggior perizia e volontà rispetto ai vecchi proprietari feudali.
In un modo o nell’altro tuttavia, la condizione della vita in campagna, pur se non poté mai dirsi florida, fu chiara e stabile, mentre la vita cittadina presentò aspetti di precarietà e di continua instabilità.
Comunque, le «spinte» del mercato cittadino, fra il XII e il XIII secolo, misero in crisi il sistema curtense, smembrarono le riserve signorili e la piccola conduzione contadina basata sull’affittanza. Inoltre vennero sfruttate le aziende signorili mediante il ricorrente fenomeno della manodopera salariata.
L’impoverimento progressivo di molte famiglie contadine spianò così la strada alla penetrazione nelle campagne della borghesia urbana che vi impiantò, ad esempio, cartiere e industrie tessili, attratta dalla possibilità di utilizzare, quando v’era, la forza motrice dei corsi d’acqua e la manodopera dei contadini, costretti a vendere le loro terre e a lavorare per sopravvivere.
Allo stesso tempo però, soprattutto in Toscana, si affermò il sistema della mezzadria che contemplò la gestione comune del fondo da parte di proprietari e contadini e ciò – fra XIV e XV secolo – ebbe senza alcun dubbio aspetti positivi.
L’appoderamento e la mezzadria tuttavia comportarono una diffusione delle case rurali isolate e l’isolamento rese i contadini più indifesi, rispetto a quando essi vivevano nei villaggi e più attaccabili dalle mene dei proprietari, come ora si ricordava più attenti allo sviluppo dei loro fondi di quanto non lo fossero stati i vecchi signori feudali. I proprietari borghesi pesarono tuttavia sui contadini non solo personalmente ma anche come dirigenti cittadini.
Infatti il Comune estese a tutto il territorio detenuto il suo «occhiuto» regime fiscale e impose spesso ai villici, balzelli superiori a quelli delle vecchie Signorie fondiarie. Da qui nacque pertanto anche nelle campagne una diffusa situazione di disagio.