9. Le città comunali
Di solito le città cercarono di conseguire una sempre maggiore autonomia nei confronti del più lontano potere politico e ciò accadde in particolare per i centri cittadini italiani e per quelli nord-europei della Fiandra e della Lega Hanseatica. Tuttavia, bisogna guardarsi dal generalizzare troppo questa convinzione e dal prestarle troppo preciso e meccanico valore.
Infatti, la differenza che c’è tra città italiane e d’Oltralpe, anche quelle non appartenenti alla zona fiammingo-franco-germanica (ma su questo punto torneremo fra poco), non generò una contrapposizione totale, mentre contatti fra le diverse situazioni rimasero più spesso di quanto non si immagini.
Una difformità piuttosto marcata fra lo status italiano e quello d’Oltralpe è riscontrabile invece (tanto per indicarne almeno uno) nell’atteggiamento della nobiltà. In Italia i nobili rimangono legati alle città, abitano al loro interno anche se hanno molteplici residenze in campagna in cui vivono una buona parte dell’anno.
In Francia, in Inghilterra e in altre terre dell’Occidente i nobili predilessero soprattutto le loro tenute e continuarono a vivere nei loro castelli. Le città franco-britanniche pertanto risultarono meno ricche e furono abitate da persone meno eleganti e raffinate.
Molto bene sottolineò tal fenomeno Salimbene de Adam, quando, ricordando la visita di Luigi IX il Santo in un convento di Sens, disse che ad accoglierlo v’erano uomini e donne malvestite, mentre i nobili risultavano del tutto assenti. In Italia se una simile situazione si fosse verificata – aggiunse Salimbene – in una città tosco-emiliana, Siena, Lucca o Bologna, il fior fiore della nobiltà locale si sarebbe recato ad accogliere il sovrano!
Il patriziato urbano presente e operante nella nostra penisola ebbe tuttavia importanza crescente in ogni luogo e all’aristocrazia del sangue si unì assai presto la prosperità del ceto mercantile arricchito, ben presto provvisto di palazzi che gareggiarono con quelli delle famiglie feudali.
Comunque, seppur meno presente all’interno delle mura, la nobiltà franco-anglo-germanica mantenne pur sempre un saldo controllo territoriale, anche se delle città d’Oltralpe, i nobiles spesso non riuscirono ad ottenere il predominio politico e tanto meno vi riuscirono per il contado.
Nelle Fiandre e nella Francia del nord, il Comune sorse pertanto dall’impulso dei cittadini che, guidati da personaggi eminenti per censo e prestigio sociale, strinsero giuramenti di pace per precostituire una situazione di concordia all’interno delle città, per possedere spazi di autonomia e per limitare gli abusi del signore del luogo.
In genere allora si stipularono accordi con i nobili per riceverne in cambio la concessione di una Carta del Comune. Tali trattative si conclusero poi più proficuamente quando i Comuni furono in grado di corrispondere cospicue somme di denaro o quando la debolezza dei sovrani, dei marchesi o dei conti accrebbe la loro capacità contrattuale.
A volte poi, l’iniziativa passava nelle mani dei signori che, una volta promosso lo sviluppo dei centri abitati da loro dipendenti, li arricchirono di privilegi ed esenzioni e concessero loro la suddetta Carta, in cambio di considerevoli somme di oro e del mantenimento del controllo politico degli uffici amministrativi.
Il movimento comunale tedesco presentò poi sensibili analogie con quello del nord della Francia e anche lì le autonomie comunali scaturirono da trattative alternate a movimenti di rivolta, mentre la vita politica locale rimase legata a un numero ristretto di famiglie di grandi mercanti e di proprietari terrieri.
Il gruppo dirigente di Magonza, Worms, Norimberga, Ratisbona, Monaco fu caratterizzato, per esempio, da un marcato predominio di famiglie militari legate al governo per conto di vescovati e signorie territoriali. Colonia invece ebbe un carattere più cittadino per l’influsso ivi esercitato con particolare vigore da famiglie di estrazione commerciale. Anche Lubecca fu concentrata nelle mani di grandi mercanti che dettero un notevole sviluppo all’autonomia e all’espansione commerciale del Baltico e del Mare del Nord.
Lubecca in particolare, nel 1226, ottenne da Federico II di Svevia il privilegio della diretta dipendenza dall’impero, cosa che comportò l’obbligo di giurare fedeltà al sovrano – ecco ancora la presenza di usanze feudali – cui furono forniti appositi contingenti armati, ma assicurò in compenso a quel centro la quasi completa autonomia dai signori territoriali, dando luogo alla formazione di un vero e proprio piccolo Stato urbano.
Eguali privilegi furono poi concessi ad Aquisgrana, a Colonia, Norimberga e Ratisbona. Un fenomeno analogo si registrò nel ’300 in Boemia, dove alcune città fra le più fiorenti, prima fra tutte Praga, vivace e popolosa, ebbero la libertas sotto la protezione regia.
Nella Spagna cristiana poi, si registrò una rimarchevole differenza fra le città castigliane e aragonesi, contrassegnate dall’egemonia dell’aristocrazia fondiaria e quelle della Catalogna – prima fra le altre Barcellona – contraddistinte da una struttura sociale assai composita in cui l’amministrazione cittadina fu appannaggio del patriziato del quale fecero parte nobili e soprattutto mercanti. Nel ’200 tuttavia, la monarchia ivi operante cercò di espandere il suo dominio sulle città, designando loro propri governanti affiancati ai cittadini.
I sovrani inglesi, da parte loro, si orientarono allo stesso modo e favorirono lo sviluppo delle città alle quali sollecitarono l’appoggio nel corso delle lotte contro i baroni. Esse tuttavia conservarono le loro autonomie nei limiti non contrastanti con un ordinamento di forte impronta monarchica.
Nell’Occidente cristiano insomma i centri urbani si rafforzarono gradualmente ed ebbero una preminente capacità commerciale, mentre minore fu la loro influenza politica. Ovunque poi essi ottennero autonomie mediante l’elezione di giudici e di organismi amministrativi. Ad accostarli ad altri contribuì poi la loro pronunciata tendenza ad aristocratizzare i ceti dirigenti e pure le zone di più forte e sicuro sviluppo mercantile e industriale.
Accennando allo sviluppo dei centri urbani continentali abbiamo avuto già modo di notare che in Italia le comunità cittadine non erano formate soltanto da mercanti e artigiani, ma comprendevano numerose persone tratte dalla media e piccola nobiltà, ricca di beni fondiari e di diritti di giurisdizione su villaggi e terre circostanti. Spesso si trattò dei feudi appartenuti alla chiesa vescovile, i cui titolari, al contrario dei feudatari non cittadini, erano collegati con il signore e con il vescovo e l’uno e l’altro li aiutavano nell’amministrazione della giustizia, nella riscossione delle imposte, nella manutenzione delle mura e nella difesa militare.
La situazione politica interna cittadina non era né chiara né univoca, in quanto le funzioni pubbliche non erano sempre svolte dal vescovo, ma venivano ripartite fra diversi ceti politici: il vescovo, il conte, il capitolo della cattedrale, nonché i grandi monasteri.
A rendere complessa la situazione, concorse inoltre l’attivismo delle comunità cittadine che spesso arrivava a far ascoltare le sue ragioni vuoi alle autorità locali, vuoi al sovrano.
Il quadro politico-istituzionale fu dunque frammentato e perciò permise alle forze sociali di articolarsi autonomamente, anche se si manifestò poco adeguato a disciplinare le tensioni e i contrasti sociali, generatisi all’interno di città numerose e socialmente complesse.
All’incremento della popolazione urbana e alla differenziazione delle attività artigianali e mercantili si congiunse l’immigrazione dalla campagna di contadini e di nobili. Questi ultimi, poi, non si spostarono per motivi di lavoro ma per incrementare le loro sostanze, conservando le tradizioni militari e le attitudini al comando, cosa che non li pose quasi mai nelle condizioni di impegnarsi per assicurare la pace pubblica.