3. La giustificazione del fenomeno comunale
Da tempo la storiografia succitata ha cercato di trovare in situazioni storiche specifiche, interessanti il nostro continente nei secoli XI-XII, la giustificazione del fenomeno comunale.
Considerato il Comune come affermazione delle forze autonomistiche delle comunità cittadine e ritenuto che la sua affermazione è la ristrutturazione della società e dell’autogoverno partendo dal basso, si è trovato nella crisi dell’impero una condizione atta a consentire la nascita e l’affermazione di questa nuova forma di governo cittadino. Infatti, dalla seconda metà del secolo XII, l’impero non era in condizioni di rivendicare diritti e di esercitare il potere attaccando le forze particolaristiche segnatamente al di qua delle Alpi: neppur minimamente vi riuscì Enrico IV, il meno adatto forse a rivendicare i diritti della corona e dell’impero, nonostante lo scontro frontale con Gregorio VII che avviò la lunga lotta per le investiture conclusasi con il Concordato di Worms nel 1122.
Le controversie verificatesi alla morte di Enrico V (1106-1125) e la del tutto inadeguata statura di Lotario di Supplimburgo (1125-1137) e di Corrado III (1137-1152), costituirono poi la base per il consolidamento delle realtà comunali che né l’impeto di Federico Barbarossa, né la più pronunciata abilità politica di Federico II, avrebbero più potuto ridimensionare o annullare.
Ma ciò non è sufficiente a giustificare l’affermazione piena del Comune. Si cerca allora di scovare altre motivazioni e fra queste da parte di quanti si batterono per la lotta delle investiture si dette importanza alla necessità di rinvenire l’appoggio delle forze di base che la rinnovata temperie culturale e la contemporanea situazione economica avevano suscitato.
Si è pensato poi alle organizzazioni cittadine che, spronate dalla borghesia mercantile e affrancatesi con il puntello dell’aristocrazia cittadina, lottavano per conseguire una visibile e utilizzabile autonomia.
Inoltre, si è pensato a energie di carattere popolare, spinte da princìpi religiosi fusi con una talvolta manifesta e talaltra inconsapevole volontà di rivendicare una più precisa e indiscussa dignitas sociale, e quindi con il proposito di invocare una qualche forma di partecipazione politica che non le vedesse unicamente spettatrici.
Come non considerare in proposito, durante la seconda metà del secolo XI la Pataria lombarda e il suo grande, continuo attivismo, oppure i moti popolari fiorentini, nati originariamente attorno agli ideali della riforma dei Vallombrosani di Giovanni Gualberto contro il vescovo cittadino, ma presto trasformatisi in sommovimenti di carattere tutto politico e sociale?
Ma l’evento Comune assume tale ampiezza territoriale – come dire tutto l’Occidente cristiano – e una tale varietà di condizioni politico-sociali economiche, artistiche, culturali e spirituali, che quasi sempre verranno a generarsi situazioni favorevoli alla sua nascita.
Guardando per esempio alla condizione dell’Italia nella seconda metà dell’XI secolo e anche nei primi cinquanta anni del XII, possiamo facilmente individuare tali diverse e particolari energie sorte e affermatesi in varie zone.
Nella cosiddetta Longobardia e nelle terre padane rivestono ad esempio ruolo di protagonisti forze ed organismi sociali originali, sospinti dallo sviluppo economico e commerciale, invero notevole in quell’epoca.
Tale molla è presente in lotte politico-religiose come quelle condotte dalla Pataria e nelle insurrezioni scatenatesi tra il 1020 e il 1040 in Pavia, Milano e Cremona.
Nella Tuscia, dopo la morte di Matilde di Canossa, verso il 1115, e in seguito alla lunga contesa tra papato e impero per il conseguimento dell’eredità dei beni matildini, si creò un vuoto di potere che favorì un nuovo e importante sviluppo delle autonomie degli organismi sociali particolaristici, già largamente giovatisi della defatigante lotta per le investiture.
Tale lotta aveva lasciato avvertire difatti tutta la sua influenza nello stesso ambito anche all’interno di territori politicamente e amministrativamente pertinenti all’autorità pontificia: per esempio nella stessa campagna romana e poi nel Montefeltro marchigiano, nelle terre della Romagna e dell’Umbria e in più di una zona della Toscana.
Per consolidarsi e palesarsi in tutta la loro realtà le forze autonomistiche, presenti in quei luoghi, non esitarono a sfruttare, servendosene a ogni pie sospinto, l’occasione dei frequenti allontanamenti dei pontefici e della Curia da Roma e dall’Italia (si pensi all’allontanamento dei papi in rotta di collisione con l’amministrazione comunale romana e poi alla partenza di Alessandro in per il suolo francese, ove cercò aiuti contro Federico Barbarossa) a partire dalla fine dell’XI secolo sino alla seconda metà del XII.
La stessa conquista normanna del Mezzogiorno d’Italia e della Sicilia, propedeutica alla formazione di uno stato unitario e accentrato che costituì un unicum della storia italiana a cominciare dal 1130 per giungere sino al 1860, favorì non poco, in numerose città, la sottrazione dei cives dal potere diretto dei signori feudali locali, la cui potenza e riottosità i Normanni intesero battere e domare con ogni mezzo anche coercitivo.
Divengono perciò le suddette tutte occasioni che possono farsi presenti per giustificare il fenomeno comunale e che tuttavia non bastano a spiegarlo interamente.
Anzi, al contrario, esse finiscono per favorire la predisposizione di interpretazioni eccessivamente semplicistiche e distorte, difficilmente collocabili a servizio di uno stato di cose peraltro molteplice e complesso, sviluppatosi lentamente e progressivamente rispetto a quanto non sembri a prima vista, allorché ci si riferisca solo a episodi clamorosi, di uno stato di cose, in altri termini, risoltosi molto spesso nella Signoria. E siffatto esito produce uno sbocco che sembra quasi storicamente inesplicabile se si postulano premesse di tipo generico, per esempio di segno democratico o rivoluzionario, del tutto inattagliabili ai secoli dell’età di mezzo.
Ogni cosa invece diverrà più chiara se osserveremo i diversi momenti con obiettività, senza fare di ogni erba un fascio e senza genericizzare.