2. La nascita del Comune: un problema storiografico
Il Comune è solitamente considerato un fenomeno nuovo e originale rispetto al sistema precedente. Al potere essenzialmente verticistico esercitato in maniera del tutto personale nell’età feudale si sarebbe pertanto contrapposta una concezione comunitaria, fondata su leggi e statuti, su patti giurati e accettati da tutti; in altri termini una concezione, a suo modo democratica, espressione precipua di tutta la storia dell’Occidente cristiano, sino all’età delle democrazie moderne, e del diritto di una comunità locale ad autogestirsi.
In questo ambito però esso rappresenta nell’età di mezzo, sotto l’aspetto statale e giuridico, un fatto largamente singolare, al quale si dovrebbe dare una spiegazione che ne giustifichi le divergenze rispetto a quella che venne considerata l’esperienza organizzativo-politica di base, volta a caratterizzare quell’intera età.
Nell’approfondimento di tale spiegazione sono così nate varie teorie, tesi e interpretazioni relative alle origini, al significato e all’esperienza dell’età comunale nell’Occidente e specialmente in Italia.
Su tali interpretazioni hanno senza alcun dubbio pesato gli ideali, gli interessi, gli orientamenti di studio e di ricerca, quando non addirittura le direttrici ideologiche, in auge in determinati ambienti e momenti.
Ciò precisato si può delimitare la storiografia comunale in tre direzioni principali: nel periodo romantico-risorgimentale l’esperienza del Comune viene «letta» come espressione del profondo senso di libertà, della volontà e della capacità di darsi un’organizzazione per combattere le intromissioni esterne.
Gli storici del nostro Risorgimento insomma hanno fatto del suddetto periodo il simbolo della riscossa per il conseguimento delle libertà civili contro l’oppressione straniera o meglio austriaca. In Federico Barbarossa, pertanto, si vide una sorta di predecessore di Francesco Giuseppe d’Austria.
Gli studiosi tedeschi vi hanno scorto invece, nella sua piena maturità, l’innata tendenza germanica alla creazione di comunità autonomamente gestite, nonché l’indomabile bisogno di libertà di quelle genti.
Nel periodo tra la fine del XIX e i primordi del XX secolo, si fecero avanti infine, anche in merito all’età comunale, le linee di tendenza di ricerche socio-economiche e materialistiche.
Ecco, in breve, le idee di tre fra i più notevoli e caratterizzanti studiosi: Ferdinando Gabotto raccoglieva nel 1902-1903 i risultati delle sue ricerche in un saggio dal titolo Le origini signorili dei Comuni. Secondo Gabotto, il Comune sarebbe nato da un consorzio di nobili feudali, legati dall’appartenenza ad un determinato ceppo familiare, il cui capostipite trasmetteva i diritti feudali ai discendenti che, con il trascorrere degli anni, accresciutisi di numero, costituirono un gruppo troppo folto per gestire direttamente un beneficio – un feudo o una città fortificata – o un ufficio di carattere amministrativo trasmesso loro in eredità.
Sorse pertanto il principio della rappresentatività, dell’autorità e della responsabilità della diretta amministrazione del beneficio o dell’ufficio offerto a un ristretto gruppo coadiuvato dal Consiglio generale permanente composto da tutti i Consortes.
L’ufficio del procurator formò allora un’indivisibile unità trasmessa ai discendenti che dettero origine alla famiglia procuratoria, nucleo insostituibile e primario del Comune cittadino.
A tale impostazione reagirà invece Gioacchino Volpe, pervenuto a diverse conclusioni con i suoi studi sulla Toscana medievale e sulla Lunigiana. Egli espose le sue ipotesi nella magistrale ricerca Questioni fondamentali sull’origine e lo svolgimento dei Comuni italiani nel Medioevo.
A Volpe, il gruppo che dette luogo al Comune sembrò più complesso. Esso rappresenta pertanto un ceto intermedio fra nobiltà feudale e nobiltà cittadina, formato da proprietari terrieri cittadini e usciti dalla piccola nobiltà feudale, inoltre dai mercanti arricchiti e dagli artigiani e quindi è un fenomeno disomogeneo e differenziato.
Secondo il parere di Volpe il Comune nasce da un patto giurato, volontario. Quindi, in origine, esso è un’associazione privata che si affianca, senza la pretesa di sostituirli, a vescovi e a conti.
Originale invece l’impostazione del belga Henri Pirenne che rinvenne la più caratteristica matrice comunale nella borghesia mercantile costituente in ogni città l’elemento più ricco, più attivo, maggiormente desideroso di cambiamenti, come viene asserito nel lavoro La città del Medioevo.
Il ceto mercantile abita il borgo o il porto, una denominazione che in età altomedievale indica soprattutto un punto di riferimento di abitazioni e agglomerati cittadini e non necessariamente uno sbocco sul mare o su un corso d’acqua interno. Ai mercanti presto si aggiungono i liberi artigiani e i servi. Qui, a partire dall’XI secolo si farà nascere l’industria laniera allorché comincerà a organizzarsi la popolazione del suburbio o del borgo nuovo, i luoghi ove si concentrano i magazzini contenenti le merci.
Questi cittadini hanno di solito interessi contrastanti con quelli dei signori feudali che dominano il vecchio borgo, quindi assumono caratteri organizzativi diversi, più autonomi e trasformano progressivamente le vecchie magistrature scabinali in magistrature indipendenti i cui membri, trovati fra i burgenses, resero loro una giustizia adeguata ai loro desideri.
Tale modello rispondente alla società franco-borgognona e fiamminga, fu poi dal Pirenne ampiamente applicato altrove, per spiegare l’origine del Comune in Occidente.
Nicola Ottokar invece sottolineò opportunamente la discrasia esistente fra le città italiane e quelle d’Oltralpe vuoi dal punto di vista socio-economico – la città considerata quasi esclusivamente quale sede dei mercanti – vuoi da quello politico-territoriale: il territorio di competenza comunale in Italia va ben oltre i confini cittadini, laddove, al di là delle Alpi, raggiunge in linea di massima i tre chilometri oltre le mura, ovvero la zona banni leuca da cui nascerà il termine banlieu.
Come appare chiaro sia Pirenne e Ottokar, sia Volpe e Gabotto inserirono il discorso comunale in quello della storia cittadina. Tuttavia, la storia comunale in ogni sua espressione ha preso orientamenti particolari. Così ci si dedicò in prevalenza a studi relativi alle strutture della società comunale nel variegato ginepraio delle sue componenti, dei suoi gruppi e dei loro reciproci rapporti. Proprio tal tipo di ricerche però indusse a rivedere criticamente impostazioni e ipotesi per molto tempo considerate vincenti. Partendo dalle tesi del Volpe e di Gaetano Salvemini, Emilio Cristiani ripensa e corregge il tiro delle conclusioni di Volpe responsabili di aver forse eccessivamente accentuato il ricambio sociale dell’aristocrazia cittadina, operato dalla gente nova venuta dal contado.
Meno accettabili ancora paiono al Cristiani le impostazioni articolate sugli schemi della lotta di classe cari a Gaetano Salvemini, il quale, ad esempio, negli eventi fiorentini dell’ultimo ventennio del ’200 riteneva di poter individuare veri e propri scontri di classe, mentre l’Ottokar sostiene che si trattava di conflitti e contrasti tra famiglie nel complesso di una omogenea oligarchia. Cristiani, da parte sua, fa proprie quelle stesse riflessioni cui toglierà un’impronta «reazionaria» tipica dello storico russo, poi naturalizzato italiano, estremamente critico con Salvemini, autore comunque ancora oggi assai apprezzabile per il vigore del pensiero storico e l’asciuttezza della sua scrittura.
Cristiani, insomma, rifiuta contrapposizioni fra classi e ceti opposti, ma si guarda dal negare la forte socialità della vicenda, mentre vede pullulare – e con lui concorderà Gabriella Rossetti – consorterie e personaggi influenti che lottano apertamente per assumere sempre maggiore autorità. Si potrebbe anzi ritenere che non sia la scalata al potere dei nuovi ceti a stroncare la nobiltà feudale, ma sia stata quest’ultima che strumentalizzò nuovi organismi sociali per costruire la piattaforma di una più solida potenza. Almeno queste sono le conclusioni cui perviene il Larner nel suo ampio libro Signorie di Romagna.
In questo ultimo ventennio poi, oltre alle interpretazioni di Ovidio Capitani nella sua Storia dell’Italia medievale dobbiamo notare una serie di notevoli contributi di carattere regionale, per l’area emiliano-romagnola di Alfredo Vasina, per quella trevigiano-veronese del Castagnetti, per la Toscana del Luzzati. Sul piano generale sottolineiamo le osservazioni di Giovanni Tabacco, quelle del Chittolini per le Signorie rurali e feudi alla fine del Medioevo e quelle del Cammarosano per le Campagne nell’età comunale dalla metà del secolo XI alla metà del XIV.
Quelli citati sono solo alcuni nomi fra i molti che potrebbero farsi di studiosi che si sono occupati di storia comunale, sia mediante ricerche di carattere locale, sia con indagini su settori specifici, sia in base a tentativi di sintesi fondati sui risultati delle ricerche settoriali.